domenica 10 marzo 2013

IL CRITERIO PER GIUDICARSI QUAL E'?


Giudice

(immagine tratta da "Etimo")


Nella Liturgia di questi ultimi giorni c'è un tema che ricorre con insistenza: quello del GIUDIZIO.

L'uomo è bravo nel valutare, ma lo è ancora di più nel sopravvalutarsi: è il caso del  fariseo che proprio ieri il Vangelo (Lc 18,9-14) ci ha presentato perfettamente a proprio agio nella veste di "giusto" in preghiera nel Tempio:

Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé:
“O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.
Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.

Il pubblicano, che se ne stava "a distanza", senza neanche il coraggio di levare gli occhi al cielo, si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

E dei due, fu il secondo a tornare a casa giustificato.


Non il fariseo, zelante e religioso, ma il pubblicano, l'esattore delle tasse, il "ladro" legalizzato, se così potessimo dire con una definizione un po' originale!

Dove stava il problema del fariseo? 
In fin dei conti diceva cose buone in loro stesse: è un bene non rubare, non commettere ingiustizie, è lodevole digiunare ed è sacrosanto pagare le tasse e mantenersi fedeli alla propria moglie.
Eppure, il fariseo pecca. Non viene giustificato. Gli rimane addosso il sudiciume dell'errore.
Lui, pulito nelle vesti e nelle quisquiglie di precetti e norme, è il più imbrattato dei due, il più ingarbugliato, il più sporco.
E NON LO SA! QUESTO E' IL SUO VERO DRAMMA!

Il problema del fariseo sta in questo: non fermarsi alla Legge, ma fare dell' "altro" il metro di giudizio.
Trasformare il fratello in pretesto per dire di essere migliori, perfetti, "salvi".
Il fariseo si fa giudice di sè stesso ergendosi a giudice del pubblicano.
Il fariseo si autoassolve togliendo di mezzo in maniera definitiva il giudizio di Dio e condannando il proprio fratello.

Se ritorniamo all'etimologia della parola "giudice", notiamo che essa rimanda a JUS e DICERE: pronunciare la Legge, dire il diritto.

Ecco trovato l'ostacolo in cui inciampa il fariseo!
Se si fosse fermato alla Legge, quasi realizzando una sorta di versione un po' grezza del nostro esame di coscienza, avrebbe semplicemente monitorato la propria condotta verificando il bene fatto, il male da cui correggersi, le imperfezioni di cui chiedere perdono al Signore.
Non avrebbe escluso Dio, unico e vero Giudice, ma si sarebbe servito dello "strumento" che Egli Stesso ci dà, per controllare lo stato della propria condotta religiosa, morale, etica, sociale.

Non è scorretto autoesaminarsi: ogni buon cattolico dovrebbe farlo, sulla base del Vangelo e della legge della Chiesa.
E' disumano e soprattutto lontano da Dio, l'atteggiamento di chi invece FINGE di autovalutarsi, sovrapponendo al parametro "Legge di Dio" l'egoismo, la superbia, che portano automaticamente a considerarsi superiori rispetto agli altri, migliori degli altri.
Santi fra una marea di peccatori.


La Liturgia delle Ore di questa IV Domenica di quaresima, ci ha offerto, nei primi vespri, questa lettura breve:


Sei inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose.

Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose.    (Rm 2, 1-2)


Basterebbe questo brano per commentare l'episodio del fariseo e del pubblicano!
Ma la Parola di Dio ci offre uno spunto ulteriore, nella parabola del Figliol prodigo che oggi abbiamo ascoltato nel Santo Vangelo.


Il ritorno del figliol prodigo, Murillo

Non è un caso che la prima battuta della scena evangelica ci offra due categorie di personaggi:
  • da un lato i pubblicani e i peccatori;
  • dall'altro i farisei e gli scribi.
Siamo alle solite: il fariseo che si valuta giusto mormora contro il pubblicano, considerato peccatore e contro Dio che va...a mangiare con loro!
Insomma, se ritornassimo alla storia dei due nel Tempio, diremmo: il fariseo se la prende con Dio che si "permette" di giustificare un pubblicano!

Non è un caso neanche il passaggio successivo della parabola: i due figli sono, in un certo senso, proprio i simboli di queste due categorie di persone.
  • Il figlio minore si fa "pubblicano e peccatore": pensa solo all'interesse economico, chiedendo il denaro al padre per poi sperarlo in dissipatezze e con le prostite. Eppure, ad un certo punto del racconto, comprende l'errore, ritorna in sè e riconosce -come il pubblicano di ieri- di essere peccatore. E prima ancora di raggiungere il padre, è questi che lo precede, andandogli incontro.


  • Il figlio maggiore, quello che nel corso della storia potrebbe di primo acchito apparire come il "mite" della casa, il lavoratore, il silenzioso...è in realtà come il fariseo del Tempio. E' un sepolcro imbiancato, è forse il "vero" morto fra i due fratelli.Non riconosce in sé stesso alcuna colpa, anzi, al rientrare in casa del minore, si lamenta.Di più: si indigna."Si indignò e non voleva entrare". Di più ancora: manifesta la sua gelosia repressa, l'egoismo, il desiderio di sfruttare il padre solo per i propri bisogni.Il figlio maggiore prova "fastidio" per la presenza del minore.E' come il fariseo del Tempio: accusa il proprio fratello elencando al padre tutte le sue colpe.Insomma: si fa giudice al posto di Dio.

Come finisce la storia?
Sarà entrato in casa, alla fine, questo figlio solo apparentemente mite, ma in realtà più ribelle del prodigo?
Avrà sperimentato la gioia del pentimento, come l'altro?
E la felicità dell'essere riaccolto da un padre che ama, aspetta e perdona?

Il Vangelo non lo dice.
Ci lascia, come molte altre volte, col fiato sospeso.

Rimane come una porta aperta di interrogativo, un appello alla speranza, alla conversione, ma anche al possibile rifiuto dell'uomo.


  • Il fariseo di ieri, pur essendo nel Tempio come luogo fisico, dimostrava con il suo giudizio temerario di essere FUORI dal Tempio più vero della COMUNIONE con Dio e coi fratelli. Per lui, tutta la religione si risolve non in amore, ma in precettistica senza anima, tanto da farlo ergere a giudice del pubblicano.


  • Il figlio maggiore della parabola odierna, pur essendo dentro la casa paterna -intesa come spazio materiale- dimostra di essere FUORI dall'abbraccio d'amore di questo padre. Per lui, tutta la figliolanza si riduce ad un'obbedienza insofferente al padre, in un servizio privo della sua parte più bella: l'amore di condivisione. Condivisione di gioie, di fatiche, di frutti del lavoro.

A noi viene imposta una scelta: entriamo in casa o no?
Rimaniamo nel Tempio vero (che per noi è Cristo stesso!) o decidiamo di autoescluderci?
Accettiamo la comunione con i fratelli o preferiamo una orribile ingordigia che ci condanna alla solitudine e al peccato?

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