mercoledì 31 marzo 2010

Luci spirituali e aridità, nella dottrina di San Giovanni della Croce e Santa Teresa d'Avila -SECONDA PARTE-





Qui potete leggere la prima parte


Le aridità, la mancanza di “luci” spirituali, diventano un mezzo per “affinarci” nella vita interiore, consentendoci di acquistare la perseveranza e al contempo evitandoci di diventare “ingordi” del solo lato “sensibile” della preghiera e dell'amore verso Dio.
“Ricordati che il fiore più delicato appassisce e perde il suo profumo molto presto; non volere, quindi, camminare per la via delle consolazioni spirituali, perché non sarai costante. Scegliti piuttosto uno spirito robusto, distaccato da tutto, e troverai dolcezza e pace in abbondanza; la frutta saporita e duratura si coglie in terra fredda e asciutta”. 
La terra fredda e asciutta di cui scrive il mistico spagnolo siamo noi stessi, nel momento in cui ci dedichiamo alle pratiche di pietà senza essere mossi da particolari sentimenti piacevoli (che, al contrario, ci “irrigherebbero”), anzi, a volte senza sentirne il gusto. 
In questi casi, la preghiera, le pratiche di pietà, la stessa carità, divengono azioni doppiamente meritorie.
Lo sono per l'atto in sé che compiamo ed anche per lo sforzo che esse ci costano. 
D'altronde, è lo stesso Vangelo a ricordarci quanto sia più meritorio l'atto compiuto con “sforzo” che non quello agevolmente attuato: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano [..] Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. […] E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell'Altissimo”. (lc 6. 27-35)
Santa Teresa d'Avila, nel Libro della Vita, ci incoraggia, dicendoci che “l'amore di Dio non consiste nel versare lacrime né  nel provare piaceri e tenerezze -che comunemente desideriamo e con i quali ci consoliamo- ma nel servire Dio con giustizia, fortezza d'animo e umiltà. […] Non dobbiamo preoccuparci affatto di non sentire devozione, ma ringraziare il Signore che ci permette di essere desiderosi di accontentarlo, anche se le nostre opere sono fiacche”. E nel “Castello interiore”, aggiunge che “amare non consiste nel maggiore piacere spirituale, ma nella maggiore determinazione di cercar di accontentare Dio in tutto, di fare ogni sforzo possibile per non offenderlo, di pregarlo per il trionfo costante dell'onore e della gloria di suo Figlio e per l'incremento della Chiesa cattolica”.
Tuttavia, per camminare nella vita spirituale quando siamo privi di consolazioni, servono allora dei “fari”, che ci orientino per non perdere la bussola nel momento in cui ci viene a mancare quella delizia interiore che magari ci ha, in passato, invogliati alla preghiera, in vista della nostra ricompensa.
San Giovanni afferma che, innanzitutto, occorre seguire la ragione: “Dà ascolto alla tua ragione per compiere ciò che essa ti dice nelle vie di Dio, Ciò ti varrà, presso il tuo Dio, più di tutte le opere che fai senza tale riflessione e più di tutti i gusti spirituali che vorresti provare”.
Questa frase ci consente di cogliere un aspetto importante del pensiero di del mistico carmelitano: l'uomo è fatto di ragione e, sebbene essa non possa comprendere totalmente Dio, tuttavia possiamo, per mezzo di essa, capire cosa sia un bene o un male nella vita spirituale. 
Questo potrebbe essere un consiglio molto utile specialmente per chi si trovi agli  inizi del cammino  di conversione e non abbia ancora una “fede” forte, solida...e rimanga quindi esposto al rischio di tornare indietro, alla prima difficoltà!
L'essere umano non va considerato come composto di “parti” separate, bensì guardato come un unicum.
In questo nostro essere complessi, ma unitari, la ragione ci guida, facendoci comprendere che il culto al Signore vada reso non solo quando siamo animati da buoni sentimenti, lontani dalle tentazioni, immersi nelle gioie spirituali, ma anche e soprattutto quando, pur non sentendo nulla, possiamo e dobbiamo impegnarci per continuare a camminare come sempre. 
San Giovanni ci mette in guardia, in questo modo, dall'errore di associare l'idea della fede al sentire. 
La fede è atto di volontà, che pur sapendo di non poter penetrare, con la mente umana, nei misteri insondabili di Dio, vuole ugualmente amarLo in ogni circostanza. 
E questo atto di volontà diventa fondamentale nel momento in cui, tramite la ragione, capiamo che dobbiamo continuare a dimostrare il nostro amore verso Dio, anche quando il sentimento piacevole abbandona il nostro pregare, il nostro compiere la carità, il nostro dedicarci alle pratiche di pietà. 
Il Signore ci “alimenta” allo stesso modo, sia quando nel rendergli lode noi sentiamo qualcosa, sia quando siamo nell'aridità più grande. 
Pensiamo a quando ci sediamo a tavola: non sempre sentiamo uguale appetito, a volte mangiamo svogliatamente....ma non disdegniamo comunque di nutrirci, perché sappiamo che il cibo ci è necessario per compiere le nostre attività quotidiane. Ci fornisce la “benzina” energetica senza la quale il nostro motore umano non potrebbe agire. 
La preghiera, i Sacramenti, la Parola, la carità, ci alimentano alla stessa maniera ed è nostro dovere impegnarci in esse anche quando non ne sentiamo “appetito” o quando il cibo che ci viene offerto non ci cagiona alcun gusto sensibile.
“L'amore non consiste nel sentire grandi cose, ma nell'avere grande nudità di spirito e nel soffrire per l'Amato” e “se un'anima mostra maggior pazienza nel soffrire e più tolleranza nella privazione dei gusti, è segno che fa grandi progressi nella virtù”.
Nudità di spirito è progresso nella virtù vanno di pari passo nel pensiero di San Giovanni della Croce: se noi non ci spogliamo di noi stessi, del nostro attaccamento “sensibile” a cose, persone, emozioni, non potremo mai andare alla ricerca del vero bene che è Dio e lasciare così crescere in noi le virtù, che sono necessarie per la vita cristiana.

Fine della seconda parte

domenica 28 marzo 2010

Luci spirituali e aridità, nella dottrina di San Giovanni della Croce e Santa Teresa d'Avila -PRIMA PARTE-



“L'anima che, malgrado le aridità e le prove, si sottomette a ciò che detta la ragione, è più gradita a Dio di quella che, senza seguirla, fa tutte le sue cose con piacere”. (San Giovanni della Croce, Detti di luce e di amore)




San Giovanni della Croce, mistico carmelitano, incoraggia con queste parole, quanti decidano di intraprendere un cammino di conversione e preghiera e sprona allo stesso tempo coloro che già abbiano cominciato a percorrere questa strada di cambiamento interiore.
Con semplicità , il santo spagnolo rammenta che la vita spirituale non è sempre allietata da luci e consolazioni, al contrario, il Signore spesso ci priva di esse, con l'unico scopo di temprarci, stimolarci, mettere alla prova la nostra fede e “purificarci”, rendendoci capaci di amarLo per Sé stesso e non per i doni che, di tanto in tanto, Egli ci offre.
Anche il Santo Padre ci ha ricordato che la nostra fede non deve basarsi esclusivamente su questi “regali spirituali”, affermando, prima dell' Angelus del 28 febbraio, che “la Trasfigurazione ci ricorda che le gioie seminate da Dio nella vita non sono punti di arrivo, ma sono luci che Egli ci dona nel pellegrinaggio terreno, perché Gesù solo sia la nostra Legge e la sua Parola sia il criterio che guida la nostra esistenza”. 
Le parole del Papa ci indicano dunque con chiarezza le basi solide della nostra esistenza di cristiani: Gesù e l'insegnamento che ci viene dalla Sua Parola.
Il Vangelo ci presenta il Figlio di Dio sempre immerso nella preghiera, in un “a Tu per Tu” con il Padre. 
E questa è una modalità del rapporto con Lui che non ha “stacchi”, ma si realizza in un “flusso” ininterrotto, con l'invito, ai cristiani di ogni tempo, ad  una preghiera costante, incessante, a prescindere dalle circostanze. “Pregate incessantemente, senza stancarvi, in ogni necessità”, esorta San Paolo.
Il Vangelo non manca tuttavia di sottolineare, in alcuni momenti particolari, anche  il “salire sul Monte”, o il “ritirarsi a pregare”; tra le due “fasi” della preghiera, non vi è però mancanza di “continuità”: noi possiamo e dobbiamo fare della preghiera una sorta di costante “immersione” in Dio e nell'adorazione, nella lode, nel ringraziamento, anche nell'espressione a Lui dei nostri bisogni. 
Ma, in alcune fasi della nostra vita -anzi, quotidianamente- c'è la necessità di isolarci, per fare della preghiera un momento di maggiore intimità con Dio. 
E' quello che capita a chiunque sia innamorato: l'amato, l'amata, sono sempre presenti nel nostro cuore, qualunque cosa facciamo, dovunque andiamo, non cessiamo di custodire nel cuore la persona   a noi più cara. In certo modo, quell'amore che noi proviamo, ci è di stimolo all'agire, ci rende più “vitali”. Potremmo dire metaforicamente, che quel sentimento “ci anima”. Ma una vera relazione esige anche un momento di solitudine, l'incontro con l'amato in cui poter raccontarsi e ascoltarsi in piena libertà, lontano dagli sguardi degli altri, in totale sincerità.
 Ed è quello che accade anche nella relazione di preghiera personale.
L'esempio degli innamorati può essere utile, oltre che per comprendere la dimensione continua della preghiera, anche  il discorso di San Giovanni sulle aridità spirituali.
L'innamoramento, inteso come fase “iniziale” di un rapporto, è pregno di una forte carica emotiva. Tutto appare nuovo, meno difficoltoso del solito, perché ci sentiamo ricolmi di amore e, soprattutto amati. 
Ma “l'innamoramento” non dura per sempre, o meglio, esso può (e forse dovrebbe!) mantenersi nel tempo laddove fosse inteso come uno scoprire continuamente nell'altro qualcosa che non ce lo faccia apparire come “noioso, piatto e privo di interesse”. 
Ma ad esso deve affiancarsi anche l'amore, ossia quel sentimento che consenta ad una relazione di essere stabile indipendentemente dall'emozionalità del momento. 
Gli sposi, che stanno insieme da molti anni, sapranno di certo meglio di me, che nella vita di coppia si affrontano momenti difficili, in cui occorra dare maggiore spazio alla razionalità, piuttosto che al sentimento. Situazioni in cui il vero traino diventa la volontà, anche quando particolari difficoltà portino a non “sentire” in maniera sensibile l'euforia vitale dell'amore. 
Non per questo, in quei momenti, farsi trascinare dalla volontà di amare l'altro e non semplicemente dall'amore sensibile, significa amare di meno. 
Al contrario, si ama di più, perché si mantiene fede all'impegno assunto nel matrimonio, anche quando il sentimento non viene percepito con i sensi. I matrimoni in cui i coniugi riescono a capire ed attuare questo concetto, sono quelli che riescono ad affrontare e superare lo scoglio del tempo. Quelli in cui, invece, si è convinti che la “passione” sia il termometro della vita di coppia, rappresentano le relazioni in cui la colonnina del mercurio scoppia presto. Finita la passione, finito l'amore. Per chi ragiona in questi termini, la volontà non ha spazio e l'amore viene erroneamente identificato con il “sentire a pelle”.
Per spiegarci meglio, prima di analizzare direttamente le parole di San Giovanni riferite al rapporto con Dio, si potrebbe portare anche un altro esempio.
Un genitore, a volte, è costretto a ricorrere, con i proprio figli, alle “punizioni”. Non mi riferisco a quelle corporali, ma anche ad una “imposizione” che abbia lo scopo di far maturare il figlio, facendogli prendere coscienza del proprio sbaglio e rendendolo quindi in grado di non cadere più nel medesimo errore.
Un padre  e una madre saranno di certo più soddisfatti di un figlio nel momento in cui lo vedranno -per affetto filiale, che si manifesta anche nella giusta obbedienza- mettere in pratica quanto richiesto, sottostare alla punizione, che di certo non eseguirà per amore di ciò che fa, ma con la volontà di rispettare il genitore, che in questo modo lo aiuta a crescere.



Ecco, Dio, che è “Padre Nostro”, ci dice San Giovanni della Croce, è più contento di noi quando agiamo mossi non dalle consolazioni spirituali che a volte ci offre, ma dalla ragione e dalla volontà di amarLo, testimoniandoGli questo nostro amore a maggior ragione nel momento in cui la preghiera, la vita spirituale, non ci offrano particolari “emozioni” sensibili e quindi non ci diano una “immediata” ricompensa.



Fine della prima parte

Buona Settimana Santa



La Settimana Santa comincia e si conclude con due "ingressi" trionfali di Gesù: quello in Gerusalemme e quello nella Gloria dei Cieli, a resurrezione avvenuta.
Ma prima di giungere alla resurrezione, Nostro Signore affronta, nell'orto degli Ulivi e poi sulla Croce, la tremenda prova delle aridità e finanche dell'apparente "abbandono" di Dio Padre. Questo senso di "solitudine" si esprime nel grido di Gesù: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato"? 
E' la notte "oscura" dello spirito, che richiede più che mai un atto di fiducia, la fiducia di chi si "riversa" ugualmente nelle braccia del Padre, che è puro Amore. 

Di questa notte, di queste "tenebre" interiori, tanti santi hanno fatto esperienza.... ma chiunque di noi si trova spesso a "lottare" contro una serie di aridità che, pur non essendo minimamente paragonabili all'esperienza mistica della "notte", a volte mettono in seria difficoltà la nostra vita spirituale e di preghiera.
La Settimana Santa, che ci mostra un Gesù sofferente, che passa anche attraverso queste prove interiori, può allora essere l'occasione giusta per riflettere insieme sulle luci spirituali che a volte Dio ci concede e sulla mancanza di consolazioni "sensibili" che, molto più spesso, connotano l'esperienza della vita interiore, tesa alla ricerca e all'unione con il Padre.
Auguri di una fruttuosa settimana, uniti nella preghiera, più che mai necessaria, in questo momento, per la Chiesa tutta e per il Santo Padre.


lunedì 22 marzo 2010

Una rilettura, di ampio respiro, della lettera pastorale di Benedetto XVI alla Chiesa d'Irlanda

La lettera pastorale di Papa Benedetto XVI alla Chiesa d'Irlanda si offre come un testo che -pur nella sua specificità- presenta un carattere “generale”, di monito  non solo alla comunità cui si rivolge, ma anche a tutto il popolo cristiano cattolico, spesso troppo imbevuto di una “cultura” secolarizzata che ha fatto dimenticare o stravolgere alcuni dei suoi principali connotati.
La missiva contiene infatti -come era giusto che fosse- un'analisi lucidissima delle concause che hanno purtroppo fatto degenerare un clima di “superficialità” in crimini e peccati orrendi,  l'umilissima espressione dei sentimenti di dispiacere e turbamento del Papa (e della comunità cattolica intera!) a fronte della  “conoscenza di questi atti peccaminosi e criminali e del modo in cui le autorità della Chiesa in Irlanda li hanno affrontati”
In essa vi è, allo stesso tempo la giusta e sacrosanta distinzione delle responsabilità di alcuni, dal discredito -in termini di immagine e di fiducia- che la Chiesa intera ne ha ricevuto. Le parole del Pontefice verso chi si è macchiato di tali crimini e verso chi non ha applicato a dovere le norme del diritto canonico, sono ferme, dure. Eppure, permane, a fondo di tutto il testo, la speranza. Una speranza che si offra come “rinascita” nella fede per quanti siano stati ingiustamente vittime di abusi; speranza anche per chi, pur essendosi macchiato di tali atti, rimane pur sempre “atteso” dalla misericordia di Dio. Una misericordia che passi però per il pentimento, e anche attraverso le strade della giustizia umana, che si snoda attraverso leggi e tribunali, nonché, attraverso la giustizia interna alla Chiesa.
Speranza che renda capaci di distinguere il male che c'è stato -c'è e ci sarà sempre su questa terra- nella Chiesa, dal bene che è stato, è, verrà attuato.

Il discorso del Papa, tuttavia, potrebbe d'altro canto leggersi anche come un invito a ripensare, a ricostruire, non solo la dimensione “spirituale” (oltre che materiale) di una comunità, quale quella irlandese, ma l'intera comunità cattolica che ha forse perso-parzialmente ed in misura diversa da luogo a luogo-  la sua identità di comunità “orante” e penitente che vive di Sacramenti.
Insomma, seppure la missiva nasca da una problematica drammatica e “localizzata” con particolare “accanimento” in una terra specifica, credo che sia cosa utile per tutta la comunità cattolica cercare di rileggerla in un'ottica più ampia, perché in essa vi sono indicazioni precise per evitare una deriva spirituale che in vario modo, una parte di essa sta già vivendo e che in futuro -senza correre tempestivamente ai ripari- potrebbe aggravarsi.
Si badi bene: qui non si tratta dello specifico discorso della pedofilia, ma di un monito che il Papa lancia al riguardo alla Chiesa d'Irlanda, ma che al resto della comunità cattolica può essere di grande ausilio per una riflessione profonda sul suo modo d'essere Chiesa, di vivere la sua dimensione “interiore” sia a livello personale che collettivo e per  adottare eventuali misure atte ad evitare di “snaturarsi” ancora di più. 
Le parole di Benedetto XVI sottolineano infatti una situazione di “degrado” spirituale che si potrebbe applicare, per analogia, a tante Chiese locali: “molto sovente le pratiche sacramentali e devozionali che sostengono la fede e la rendono capace di crescere, come ad esempio la frequente confessione, la preghiera quotidiana e i ritiri annuali, sono state disattese”.
Per verificare quanto il quadro sia veritiero, non occorre arrivare fino in Irlanda. 
Basta fare un giro in tante parrocchie, in tante case - nelle comunità “nostrane” dunque- per toccare con mano il problema dolente del ricorso al sacramento della riconciliazione o della preghiera e dei ritiri, delle catechesi, troppo spesso assenti o inadeguate per tempi e durata. 
In giro per le bacheche parrocchiali è facile imbattersi in avvisi con  orari delle confessioni che lasciano fortemente perplessi: mezz'ora prima della Santa Messa pomeridiana, quando si è “fortunati”, in altri casi, i trenta minuti sono magari messi a disposizione solo al week-end.  Comprensibile da un lato che in molte Chiese locali si avverta con maggiore pressione la difficoltà di pochi sacerdoti -spesso girovaghi di parrocchia in parrocchia- di riuscire a far tutto, ma condensare in così poco tempo lo spazio per l'amministrazione di un Sacramento così importante, sembra davvero eccessivamente riduttivo. 
In altri casi ancora, meno fortunati anche dei precedenti, si può incappare nella malasorte di chiedere -fuori orario stabilito- una confessione al sacerdote intravisto in Chiesa. Capita di sentirsi dire di no, perché non c'è il tempo. Eppure, il Catechismo della Chiesa Cattolica, sentenzia: “i sacerdoti devono incoraggiare i fedeli ad accostarsi al sacramento della Penitenza e devono mostrarsi disponibili a celebrare questo sacramento ogni volta che i cristiani ne facciano ragionevole richiesta”.
Non si vuole questionare su casi di reale impedimento del sacerdote.....ma cosa fare qualora le risposte negative siano invece motivate dal sentire la confessione come un sacramento....un po' in “disuso”, meno importante rispetto ad altri impegni (neppure sempre pastorali, ma a volte da “burocrati”)?
 Una bella riflessione su questi aspetti, aiuterebbe a recuperare la dimensione corretta del sacramento della penitenza, che in questo anno sacerdotale è tasto dolente per molti, tasto non a caso suonato dal Papa, che sa bene quanto, un po' dappertutto, la musica della confessione si ascolti come uno strimpellamento stonato.  Si badi bene: non solo dai sacerdoti troppo presi da altri impegni, o poco abili nel districarsi fra i vari incarichi pastorali, ma anche dai fedeli. Quei fedeli che prendono magari alla lettera l'indicazione di confessarsi una volta l'anno, a Pasqua.
Quei fedeli che assaltano i confessionali e le Chiese durante la settimana Santa, costringendo i sacerdoti ad orari impossibili, a sedute lunghe di ascolto e consiglio che richiederebbero poi -forse- una disintossicazione al pari di quella che praticano periodicamente gli psicologi....
Quei fedeli che, insomma, non solo percepiscono come note stonate la musica del confessionale, ma a volte non la odono proprio, fingendo che non serva preparare una bella tovaglia bianca (l'anima!) su cui adagiare il Corpo e Sangue di Gesù che si riceve nella Santa Comunione.
Anche qui, un bel mea culpa da parte dei fedeli, servirebbe. Alimentato magari dalla catechesi (non per forza curata dai sacerdoti, ma anche da laici preparati!), per far comprendere che la confessione annuale sia prescritta per assicurare il “minimo indispensabile” della vita sacramentale in materia, ma non quello a cui un cristiano dovrebbe aspirare. Anzi, il CCC invoglia proprio alla confessione frequente, anche dei peccati veniali, in quanto, “sebbene non strettamente necessaria, la confessione delle colpe quotidiane è tuttavia vivamente raccomandata.[...] ci aiuta a formare la nostra coscienza, a lottare contro le cattive inclinazioni, a lasciarci guarire da Cristo, a progredire nella vita dello Spirito. Ricevendo più frequentemente […] il dono della misericordia del Padre, siamo spinti ad essere misericordiosi come lui”.

Altro tasto dolente che il Papa ha volutamente battuto, è quello della preghiera.
I Vangeli non fanno altro che presentarci un Gesù che prega....prega....e ancora prega.
Prega di notte, prega di giorno, prega prima degli eventi importanti della sua esistenza terrena.  Gesù  invita i suoi discepoli (non solo i 12, ma i discepoli di ogni tempo!) a pregare come Lui ci ha insegnato, nel segreto del proprio cuore, in un a tu per Tu continuo. 
 San Paolo ci esorta a pregare incessantemente, in ogni necessità.
Oggi invece, la dimensione della preghiera si è quasi smarrita. O meglio, si è “ribaltata”. 
Si è fatto della televisione, del pettegolezzo, del lavoro, del divertimento, il nuovo libro delle preci.
La dimensione della preghiera in famiglia si è smarrita quasi completamente. 
Famiglie che si dicono cristiane cattoliche, che pure partecipano alla Messa domenicale, molte volte non snocciolano assieme neanche un'Ave Maria o una più semplice (e breve!) preghiera di ringraziamento e benedizione dei pasti.
 Eppure, in tempi nemmeno troppo lontani, i nostri nonni chiamavano a rapporto figli e nipoti...e tutti a recitare -volenti o nolenti- il Santo Rosario assieme. In una scuola di preghiera che aveva lo scopo di unire la piccola Chiesa domestica nella lode e nella supplica a Dio. 
 Il Rosario moderno è il grande fratello. La nuova Bibbia è lo scambio di informazioni sul calciatore pagato tot miliardi di euro o sull'ultima scappatella del famoso personaggio. 
Anche qui, un bel ripensamento da parte di quanti si professano cattolici, ma non hanno ancora afferrato il giusto significato della preghiera, si impone come necessario. Altrimenti si rischia di andare in Chiesa per ricevere, come ai tempi del fascismo si riceveva il pane razionato, Confessione e Comunione come fossero un atto dovuto, da compiere per “mettersi l'anima in pace” e guadagnarsi così, semplicemente, il premio eterno.
No, il significato della preghiera non è questo: deve accompagnare la giornata di un cattolico, anche quando non è fatta con formule standard, anche quando viene spontaneamente dal cuore, in quel rapporto fra amici che si deve instaurare con Dio. E con gli amici si parla, ci si racconta, ci si ascolta. La preghiera è esattamente questo: un dialogo, in cui parla il fedele e parla anche il Signore, sebbene con parole che non si ascoltano con le orecchie, ma nel cuore, con l'udito della nostra coscienza.

Uno degli ultimi punti della lettera del Santo Padre, affronta infine il discorso della “penitenza” quaresimale e del particolare valore (sempre “penitenziale”) di ogni venerdì.
Tasto spesso dolente -anche questo- in molte comunità.  E' inutile negare che già a livello generale (non solo con specifico riferimento ai tempi forti ecclesiali) il concetto di “penitenza” abbia subito uno stravolgimento. 
Va bene la “penitenza” delle diete rigorose, dei digiuni per dimagrire. Va bene sottoporsi a lunghe sedute di palestra, ad interminabili ritocchi del chirurgo plastico....alla noiosamente lunga saga dei grandi fratelli che ormai si susseguono ed al chiacchericcio sempre identico nella sostanza, sui tradimenti di Tizio, Caio e Sempronia. Ma non va bene il digiuno in quaresima, non piace sentire parlare di astinenza delle carni al venerdì,  così come è quasi svanito il concetto della rinuncia per ricavarne un vantaggio spirituale. E così come poco a volte si “pratica” la penitenza, altrettanto poco se ne parla.
Il Papa riporta l'attenzione (mi auguro non solo degli Irlandesi), su un tema che oggi si potrebbe dire scottante. Ossia, su quello del sacrificio. Noi cristiani abbiamo un Maestro del Sacrificio, Colui che ha sacrificato sé stesso per noi, eppure abbiamo smarrito il senso di questa parola, abbiamo accantonato la pratica della mortificazione nei suoi vari aspetti. E così facendo abbiamo dimenticato che la nostra speranza nasce dal “chicco di grano” che muore per dare frutto.
Ecco, quei “modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari” che il Santo Padre menziona nella sua lettera, valutandoli negativamente quando ad adottarli siano proprio i sacerdoti e i religiosi, senza ancorarli ad un “sufficiente riferimento al Vangelo”, hanno impregnato in realtà non solo i religiosi, ma anche i laici, i laici cristiani cattolici, che ogni Domenica si recano in Chiesa per prendere parte al Sacrificio di Cristo, a quel Sacrificio che si rinnoverà fino alla fine dei tempi.

La missiva agli Irlandesi è ricca di spunti per chiunque, non solo per i diretti destinatari, ma per i cattolici di tutto il mondo. 
Alla luce di quanto il Papa afferma, sorge pressante l'esigenza di guardarsi dentro, per analizzare il personale modo di vivere la fede -singolarmente ed in comunità, come laici o  consacrati, religiosi o sacerdoti-, e chiedersi se lo smarrimento che Benedetto XVI denuncia con riferimento ad una specifica realtà ed un grave crimine, quale quello della pedofilia, non sia in realtà un pericolo strisciante anche all'interno delle comunità locali, delle singole esperienze di fede.
La missiva pubblicata sabato scorso non è dunque solo un testo per la Chiesa d'Irlanda, è un prezioso invito al rinnovamento anche per ogni fedele, per diocesi, per ogni parrocchia, per ogni singolo cattolico. 
Che possa veramente far riflettere e instillare il desiderio concreto di voltare pagina, lasciandosi alle spalle il senso di “abitudinarietà e comodità” di una fede che richiede invece sforzo, fatica costante, sacrificio, in vista di un premio che non è di questo mondo, ma che già qui -ora, in questo tempo- abbiamo il dovere (e il potere!) di  conquistare.

venerdì 19 marzo 2010

SAN GIUSEPPE: modello di sposo “perfetto” anche per l'uomo contemporaneo


San Giuseppe, padre putativo di Gesù e vero sposo di Maria Vergine, pregate per noi e per gli agonizzanti di questo giorno e di questa notte.


San Giuseppe, vero sposo di Maria Vergine, il Santo che festeggiamo quest'oggi, si offre -all'uomo contemporaneo- come il modello perfetto di sposo cristiano.
Ai coniugi di oggi (e a quanti sono chiamati alla vita familiare!) insegna, in primo luogo, a lasciarsi guidare da Dio nella ricerca della persona con cui costruire una santa famiglia, sul modello di quella di Nazareth. 
E come cercare di seguire il suo esempio? 
Innanzitutto con la preghiera, secondariamente, provando a non dare ascolto solo agli impulsi dell'attrazione fisica, nel momento in cui cerchiamo il/la compagno/a della nostra vita.
San Giuseppe “riceve” in sposa Maria, modello perfetto di sposa cristiana, che in cima ai suoi pensieri, alle sue azioni, pone sempre Dio. 
Nell'accogliere questa sposa che il Signore gli concede, Giuseppe sa di andare sul sicuro: un matrimonio che si costruisce sul fondamento della fede (o dell'impegno a crescere insieme nella fede, qualora uno dei due non sia cristiano o fervente praticante!), ha una garanzia in più. Dio stesso fa da garante, ma spetta a noi accordarGli fiducia e impegnarci nel faticoso (ma bellissimo!) cammino in ascesa della santità nel matrimonio. 
Gesù Bambino, che Giuseppe e Maria educano, ne è il frutto più bello. 
Verissimo che Gesù non sia figlio “naturale” di Giuseppe, ma un padre “terreno” non è semplicemente colui che genera, ma colui che cresce, che dona amore, che trasmette i veri valori della fede e della vita secondo giustizia e carità.

San Giuseppe è anche l'uomo del silenzio. 
I Vangeli non ci riportano una sola parola da lui pronunciata. Finanche quando Gesù Bambino viene ritrovato nel Tempio, il falegname di Nazareth lascia che sia Maria a parlare. “Figlio, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. (Lc 2,48)
Che dire di questo atteggiamento? Un semplice “delegare” alla Madre di Gesù? Un “disinteresse”?
Niente affatto!
Prima di tutto, c'è una grandissima delicatezza dello sposo nei confronti della sua sposa.
Egli ne riconosce il privilegio e l'autorità, in quanto Madre del Figlio di Dio (madre reale, non putativa!) e, nel fare “un passo indietro”, le dimostra un amore senza pari. E' un atto di squisitezza estrema, pieno di attenzione per la propria sposa, un'attestazione anche di stima, di fiducia. 
Giuseppe si fida di Maria in quanto Madre e Sposa. Non teme che lei dica cose fuori luogo, eccessivamente dure o eccessivamente deboli. Il padre putativo di Nostro Signore dimostra una “sintonia” di pensiero e di azione con la propria sposa, nell'educare il bambino Gesù. Non c'è nemmeno bisogno di “accordarsi” prima, di lanciarsi un'occhiata, di scambiarsi qualche cenno di intesa.
No, la fiducia di Giuseppe è concessa a priori, proprio perché è basata sull'amore. E l'amore è fiducia. 
Ecco un bellissimo insegnamento che arriva, per l'uomo contemporaneo, dal falegname di Nazareth: fiducia fra coniugi nella vita sponsale, fiducia nell'educazione dei figli. 
Ma, attenzione: la fiducia di Giuseppe non è a senso unico. Maria Santissima ne dimostra altrettanta  in lui, nel momento in cui ne riconosce a sua volta l'autorità, anteponendolo a sé stessa, nel muovere rimprovero a Gesù: “Tuo padre e io”
In un rapporto di vera stima e di vero rispetto, chi fa un passo indietro, per “lasciare spazio” all'altro, si vede a sua volta venire incontro il proprio coniuge. E in questo modo, non c'è mai distanza fra marito e moglie!
In secondo luogo (non in riferimento a questo episodio in particolare) si potrebbe dire che San Giuseppe coltivi il silenzio alla stessa maniera di Maria Santissima.
Molto spesso, nei Vangeli, si dice di quest'ultima che “serbava tutte queste cose nel suo cuore”.
Ecco, San Giuseppe sembrerebbe fare la stessa cosa: custodisce in silenzio tutto ciò che attraversa la sua vita (vita straordinaria, essendo chiamato ad essere lo sposo di Maria ed il custode di Gesù!) per  ascoltare Dio, che, in quel silenzio, dispiega la Sua presenza nelle varie vicende della sua personale esistenza. 
Ed in questo silenzio l'orecchio di Giuseppe si fa attento, si affina.... e il Signore gli si rivela anche nel “silenzio” della notte, attraverso i sogni che fanno per lui da “bussola” quando è angustiato dalla notizia della gravidanza di Maria e poi ancora quando viene invitato a proteggere, scappando in Egitto, Gesù dal piano diabolico ordito da Erode. Ecco, Giuseppe è l'uomo del silenzio che ascolta Dio, dal quale riceve le “giuste ispirazioni” per guidare e proteggere la propria famiglia, per essere degno sposo di Maria Vergine e degnissimo “custode” di Gesù.

Certamente la vita del nostro Santo non è stata sempre facile: ha dovuto compiere un “salto nel buio”, dando fede alle parole dell'Angelo circa il concepimento verginale di Maria Santissima, è fuggito in Egitto per mettere in salvo Gesù, ha faticato nell'umile lavoro di falegname. 
Il suo coraggio e la sua forza sono venuti da Dio, sicuro dell'esistenza di un Suo progetto, anche  se imperscrutabile ed altrettanto sicuro del sostegno che avrebbe sempre trovato nella sua sposa.
Preghiamo San Giuseppe di intercedere per noi, affinché possiamo ottenere e nutrire quella fede che ci rende sempre fiduciosi davanti ai disegni divini, specialmente quando ci appaiano difficili da comprendere, da affrontare, da vivere.
Che sull'esempio della santa famiglia di Nazareth, anche le nostre famiglie possano essere piccole Chiese domestiche ricolme dell'amore di Dio Padre, fondate sul rispetto reciproco, sulla fiducia, sulla lealtà. 
Che in esse possa germogliare il frutto sincero della fede comune che fa ascendere alle vette della santità, come nella santa famiglia si fortificò il frutto del Si di Maria e del Si di Giuseppe, rappresentato dal Figlio di Dio che vuole “abitare” anche in mezzo a noi.
Buona festa di San Giuseppe a quanti oggi festeggiano l'onomastico e a tutti i papà !

AUGURI, SANTO PADRE!

Amatissimo Santo Padre, 
auguri di buon onomastico, nella certezza che San Giuseppe -custode di Gesù- veglierà sempre su di Lei, che custodisce amorevolmente la Santa Madre Chiesa.

Grazie!

OREMUS PRO PONTIFICE 

Dominus conservet eum, 
et vivificet eum, 
et beatum faciat eum in terra, 
et non tradat eum in animam inimicorum eius

lunedì 15 marzo 2010

Sostegno a Benedetto XVI




Ho appena scoperto una bella iniziativa -cui ho prontamente aderito- di supporto al nostro Papa, ingiustamente e vilmente attaccato dai media, come ben sappiamo. 
Invito anche voi a leggere la lettera di sostegno (in francese, ma chi non conosce la lingua può usare il traduttore di google!) e a sottoscriverla!


Eccovi il link : Sostegno a Benedetto XVI
 

sabato 13 marzo 2010

I sassolini contro la Chiesa. Quando le mine vaganti rimangono ciottoli che non scalfiscono il diamante




C'è chi non ama riempirsi le tasche di caramelle e cioccolatini, spezzafame e leccornie varie. 
E non di certo perché siamo in quaresima, tempo di digiuno e di penitenza.
No, a qualcuno piace trascinarsi dietro una zavorra di sassolini, di quelli che a vederli sembrano carini, colorati, quasi affascinanti.
Quei ciottoli che si raccolgono in riva al mare, ai piedi delle strade di montagna e dei sentieri di campagna, per poi dipingerli in maniera artistica, riscoprendovi forme strane, che paiono richiamare fattezze animalesche o addirittura umane.
De gustibus, si potrebbe dire. Ossia, i gusti sono personali.
Tuttavia, la moda di oggi non è fare collezionismo di sassi dipinti, bensì ricercare accuratamente i sassolini migliori, appuntiti, ruvidi e leggeri. 
Quei ciottoli che a vederli paiano innocui, facili da lasciare penzolare dalle tasche ricolme, che all'apparenza non appesantiscano il passo di chi se li porta appresso.
Quegli stessi sassi che, una volta scagliati, siano però in grado di entrare in corpo come proiettili, danneggiare organi vitali, lasciare ferite che non si cancellino neanche col tempo.
E l'intento vero dei ricercatori di queste pseudo-pepite (nemmeno poi d'oro), è proprio di trasformarli in "arma bianca" facendo un uso completamente inappropriato e fortemente diseducativo.  
Quell'uso che mette la ragione tragicamente sotto le suole delle scarpe e utilizza il sapere e la scienza per fare gratuitamente del male. 
Un male non semplicemente personale, ma soprattutto sociale, collettivo.
Quello che il Vangelo chiama, in una sola parola, "scandalo". 
Quel male che fa realmente toccare con mano quanto l'essere umano sia capace di poter ascendere alle vette sublimi della santità o trascinarsi nel fango della cattiveria, dell'odio, di quei sentimenti che fanno meno uomini e più bestie.

Uno di questi "sassolini nello stagno" è stato lanciato nel mare della Chiesa qualche giorno fa, quando intorno alla manipolata (giornalisticamente parlando) vicenda della pedofilia ratisboniana, si è dato avvio alle fasi finali del lungo percorso di "avvicinamento" al Papa, ultimo bersaglio da colpire con uno di questi "ciottolini".
Il cerchio dello stagno ha quindi preso a percorrere un moto inverso rispetto a quello che di norma -se la scienza per qualcuno non è un'opinione, come tante altre cose lo sono- esso realizza.
Non un sasso che vada dritto al centro e poi disperda il suo moto verso l'esterno, ma, al contrario, un sasso che parta dal cerchio più largo, per poi arrivare fino in Germania...passare da Ratisbona....e, guarda caso, arrivare nientemeno che a Monaco! 
Ovviamente, in questa "dispersione" di energia cinetica molti hanno agito come piloti di formula 1: tutti a seguire la scia dello Schumacher di turno, per guadagnare velocità senza grossa fatica.
E qualcuno ha lanciato così il secondo sassolino: vuoi vedere che -prima o poi-  si comincerà a ricercare qualcosa anche nella diocesi di Monaco, retta dall'allora Mons. Ratzinger?
La domanda formulata dal giornalista di turno, suonava più o meno così.
Per chi è ormai amaramente pratico di queste cose, il giochetto di finto stupore e di ipotetica previsione sul futuro, non ha lasciato spazio a dubbi. 
Lo sparaneve era già pronto dietro l'angolo e preannunciava bufera.
E la tormenta è scoppiata ieri sera, quando si è cominciato a divulgare la notizia di un prete pedofilo che si trovava nella diocesi di Monaco proprio negli anni della gestione Ratzingeriana.  Fortunatamente (Deo gratias!) la sala stampa Vaticana ha prontamente  chiarito i fatti, sottolineando la completa estraneità del Santo Padre alla vicenda e la piena responsabilità dell'allora Vicario Generale. Non solo, ma a dispetto di quanto ieri sera si leggeva e si ascoltava, non sono stati perpetrati abusi negli anni in cui il Papa era Arcivescovo nella diocesi "incriminata". 

Ma facciamo un passo indietro e torniamo ai nostri ciottoli, sassi e macigni.
Tutti questi sassolini che hanno preceduto il "masso" scagliato ieri sera, potevano ricordare i famosi sassi lanciati dai cavalcavia, quelli che facevano "scuola" e invogliavano molti -specialmente giovani ed evidentemente con poco sale in zucca- a concedersi cinque minuti di pericolosa ebrezza, gettando pietruzze più o meno grandi contro le auto che sfrecciavano sotto le loro teste, con il rischio di provocare seri danni alle persone o,addirittura, di  ammazzarne qualcuna.
Ma fanno anche ritornare con la mente ad un famoso motivetto degli anni 40, che ancora oggi si canticchia: 

 Ho un sassolino nella scarpa, ahi,
che mi fa tanto tanto male, ahi.
Batto il piede in su, lo batto in giù,
giro e mi rigiro sembro Belzebù"

Verba volant, scripta manent
Oggi, a distanza di 70 anni, questa strofetta di una canzonetta "leggera" sembra calzare a pennello al disgustoso gioco di distorsioni informative e di diffamazione anticattolica che qualcuno trova tanto divertente. Un gioco pericoloso dietro il quale c'è indubbiamente l'opera del maligno, satana, il diavolo, chiamiamolo come vogliamo. 
Perché l'artefice del male, il bugiardo per eccellenza, altri non è, se non proprio lui.

E questo "sassolino nella scarpa" fa male, davvero tanto. 
E non mi riferisco al "dolore" dei calunniatori, degli invidiosi, dei "rivoluzionari", dei "burattini delle finte ideologie religiose, politiche e sociali" che si fanno strumento (più o meno consapevolmente, se proprio volessimo lasciare uno spazio di "ragionevole dubbio") di "Belzebù" e non riescono a trovare pace finché non abbiano sputato il rospo.
No, mi riferisco al dolore sincero e vero di quanti sono costretti a guardare la barca della Chiesa trascinata in una tempesta costruita ad arte. E al dolore dei diretti interessati, delle vittime degli abusi realmente commessi, o di quanti vengano chiamati in causa senza colpa.
Una bufera in cui si ricorre allo sparaneve artificiale, per scatenare tempeste che altrimenti la natura non potrebbe "produrre".
I fatti di Monaco lo dimostrano, i dati concreti, reali, testimoniano la completa estraneità del Santo Padre alla vicenda e dunque siamo davanti al maldestro tentativo -delle varie categorie sopra citate- di inscenare un cataclisma che, come tutte le cose non veritiere, ha le gambe corte. 
Ovvio: il male ha sempre delle ripercussioni, anche nascoste, apparentemente invisibili. Scatena il dubbio, la fragilità delle convinzioni, istiga alla mormorazione, al pettegolezzo, occulta la verità.
Aziona il meccanismo già descritto del "sasso nello stagno". 
Tuttavia davanti a questa continua, maniacale campagna antipapale (prima ancora che antiecclesiale!) probabilmente i più svegli o anche i più semplici, sicuramente apriranno gli occhi. 
Forse suonerà loro strano che qualcuno non abbia niente di meglio da fare che andare a cercare il solito pelo nell'uovo e sempre nello stesso pollaio. 
Qualcun'altro si stuferà di star dietro a queste continue polemiche e smetterà di leggere queste notizie palesemente diffamatorie.
E si spera che in altri -fino ad ora rimasti un pò sonnecchianti- si risvegli il desiderio di una maggiore criticità, che porti a voler ricercare il vero che c'è dietro tutto questo polverone sollevato ad arte contro il Santo Padre.

Per ora, quello che rimane sotto gli occhi di tutti, quello che anche i giornali sono costretti ad ammettere -magari a denti stretti, magari non nei titoloni sparati a caratteri cubitali- è una verità "scientifica": i sassi rimangono sassi e i cristalli, cristalli.
Così, senza fare voli pindarici -ma rimanendo nel campo della scienza tanto decantata da laicisti, atei e gnostici di tutti i tempi- si può affermare con certezza che mentre gli aggregati minerali scagliati contro il Papa rimarranno sassi brutti e opachi, al timone della barca della Chiesa rimane un minerale di ben diversa fattezza. 
Un cristallo trasparente, senza macchie scure (i famosi scheletri nell'armadio che qualcuno cerca di tirar fuori dai cilindri magici!), bello a vedersi nella sua brillantezza, nelle sue sfaccettature che non hanno la superbia di trattenere la luce per sè, ma che se ne fanno generose dispensatrici.
E potremmo azzardare un'analisi gemmologica ancora più qualitativa: signori e signori, siamo davanti ad un diamante! 
L'unico materiale che non si lascia scalfire da nessun altro, ma è viceversa in grado di scalfirli tutti.
Chissà, forse tutta questa ignobile campagna antipapale a qualcuno aprirà finalmente gli occhi, riempiendoli di stupore per la lucentezza di questa gemma che oggi guida la Chiesa Cattolica. 
Non tutto il male viene per nuocere: senza tenebre, i più ciechi, non riescono a scorgere la luce abbagliante.



venerdì 12 marzo 2010

OBBEDIENZA. La parola dimenticata -Seconda parte-



Qui potete leggere la prima parte


Se tanto alta è la “dignità” che ci conferisce il corretto equilibrio tra libertà e obbedienza, allora occorre ricercare la causa dell'insofferenza umana alla “sottomissione” proprio nell'errato modo di concepirla, che spesso l'uomo “fabbrica”. Papa Benedetto XVI, infatti, scrive: “l'uomo che intende la libertà come puro arbitrio di fare quello che si vuole e andare dove si vuole vive nella menzogna, perché, secondo la sua stessa natura, egli è parte di una reciprocità, la sua libertà è una libertà da dividere con gli altri; la sua stessa natura porta in sé disciplina e norma; identificarsi intimamente con queste, ecco la libertà”.
Le false libertà di oggi sono purtroppo molte: la sete smodata di potere, la lussuria senza freno, la prematura “indipendenza” giovanile, la deviata “autonomia” nel matrimonio, l'autocrazia (non solo politica), la smania di controllare ogni cosa con la scienza, arrivando anche a “ricreare” l'uomo. Ciascuna di queste schiavitù conduce l'essere umano al rinnegamento di quei limiti entro i quali si deve invece sviluppare l'autonomia, riconoscendo di non essere soli nel mondo, ma di dover rispettare anche le libertà altrui, creando un equilibrio in cui si contemperino ordine e creatività, individualismo e collettività. Portare all'eccesso i propri desideri non è vera libertà, è irrazionalità. Il libertinaggio (intellettuale, legale e via dicendo) rende l'uomo meno umano e più “bestia”, perché impedisce il contemperamento tra i due estremi della persona: il desiderio di indipendenza totale e la necessità di autocontrollo.
Per i cattolici, il discorso dell'obbedienza si fa più ampio, non meramente discorso socio-culturale o politico, ma anche e soprattutto discorso di fede che consente poi di animare le realtà terrene. Obbedire significa riconoscerci esistenti solo nell'ambito di un rapporto di figliolanza con il Padre e dunque, come dice anche il Santo Padre, “comporta l'abbandono dell'autonomia che si chiude in se stessa; include ciò che Gesù intende con la parola del diventare bambini”. In una parola: obbedire ci fa realmente comprendere di non essere isole deserte, ma di avere sempre al nostro fianco altre persone, da cui imparare, a cui dovere rispetto...anche a cui insegnare qualcosa. L'esempio che ci viene da Nostro Signore è proprio questo: obbediente fino alla morte di Croce, ma anche “totalmente sottomesso al Padre in quanto Figlio”, sottomissione carica di frutti perché fa vivere “proprio per questo totalmente nell'uguaglianza con il Padre”.
La libertà ci rende ugualmente liberi, concede il giusto spazio a tutti, conduce ad un sistema di interscambio non interessato, non auto-celebrativo, non egoistico. Consente a ciascuno di dare del proprio all'altro e contestualmente, rende capaci di accogliere il dono che se ne riceve. Ci rende disponibili all'ascolto vero, l'unico che porti ad un ridimensionamento dell'io -nel dono reciproco di sé stessi- e ad un incremento di Dio in noi.
Santa Teresa d'Avila così scrive nel “Castello interiore” : dall'obbedienza “dipende il progresso nella virtù e l'acquisto graduale dell'umiltà; nell'obbedienza sta la sicurezza contro il timore di smarrire la strada del cielo, timore che è bene sia sentito da noi mortali finché dura questa vita; nell'obbedienza sta la pace così apprezzata dalle anime che desiderano piacere a Dio. Se infatti con tutta sincerità esse si sottopongono a questa santa obbedienza e vi assoggettano l'intelletto,il demonio cessa di assalirle procurando continue cause di agitazione. Parimenti cessano i nostri inquieti movimenti volti sempre a farci agire in base alla nostra volontà e ad asservire la ragione a ciò che è di nostra personale soddisfazione, perché ci ricordiamo di aver decisamente sottomesso il nostro volere a quello di Dio, assoggettandoci a chi ne fa le veci”. L'Imitazione di Cristo sposa questo stesso concetto: “molti vivono nell'ubbidienza più per necessità che per amore; sono insofferenti e facilmente mormorano. Essi, però, non guadagneranno la libertà dello spirito, se non si sottometteranno con tutto il cuore per amore di Dio”.
Bisogna tuttavia fare una precisazione: l'obbedienza intesa in questi termini non va confusa con una semplicistica e poco ragionata “sottomissione” a persone, istituzioni, situazioni ingiuste ed immorali. Una concezione errata dell'obbedienza conduce appunto all'estremismo della disobbedienza che sfocia nella falsa libertà.
La vera libertà che precede e anima l'obbedienza “rende l'uomo responsabile dei suoi atti, nella misura in cui sono volontari”, afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica. Dunque, se è vero che -come recita sempre il CCC- “siamo tenuti ad onorare e rispettare tutti coloro che Dio, per il nostro bene, ha rivestito della sua autorità” (come i genitori o le autorità civili) è altrettanto vero che, da una parte, anche queste stesse persone che hanno autorità su di noi non siano soltanto titolari di “diritti”, ma anche di doveri nei nostri confronti e che sia lecito non prestare obbedienza nel caso in cui vengano imposte decisioni irragionevoli o immorali.
Ad es. nell'ambito familiare “il rispetto filiale si manifesta anche attraverso la vera docilità e l'obbedienza”, ragion per cui “per tutto il tempo in cui vive nella casa dei suoi genitori, il figlio deve obbedire ad ogni loro richiesta motivata dal suo proprio bene o da quello della famiglia” e “agli ordini ragionevoli dei loro educatori e di tutti coloro ai quali i genitori li hanno affidati”. Tuttavia “se in coscienza sono persuasi che è moralmente riprovevole obbedire a un dato ordine, non vi obbediscano”.
I genitori hanno inoltre il dovere di educare i propri figli, e “rispettarli come persone umane […] provvedere ai loro bisogni materiali e spirituali” lasciarli liberi di “scegliere la propria professione e il proprio stato di vita”.
Parimenti, anche nel rapporto tra individuo e istituzioni, sussiste la stessa relazione tra diritti-doveri ed è necessario il ricorso ad un obbedienza non meramente servile, ma contemperata con la libertà personale e collettiva. Infatti “l'esercizio dell'autorità mira a rendere evidente una giusta gerarchia dei valori al fine di facilitare l'esercizio della libertà e della responsabilità di tutti” e “i poteri politici sono tenuti a rispettare i diritti fondamentali della persona umana”, dunque “coloro che sono sottomessi all'autorità considereranno i loro superiori come rappresentati di Dio, che li ha costituti ministri dei suoi doni”, ma , proprio per questo, “la leale collaborazione dei cittadini comporta il diritto, talvolta il dovere, di fare le giuste rimostranze su ciò che a loro sembra nuocere alla dignità delle persone e al bene della comunità”. Inoltre, “il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti sono contrari alle esigenze dell'ordine morale, ai diritti fondamentali delle persone o agli insegnamenti del Vangelo. Il rifiuto dell'obbedienza alle autorità civili, quando le loro richieste contrastano con quelle della retta coscienza, trova la sua giustificazione nella distinzione tra il servizio di Dio e il servizio della comunità politica”.
Obbedire quindi non vuol dire né buttare alle ortiche la propria intelligenza (al contrario! Implica il riconoscere quelle limitazioni necessarie al bene comune, oltre che al proprio!) né il proprio Credo (che comporta il rispetto della persona umana, del Vangelo -per noi cristiani-, della morale e dell'etica) . Soltanto comprendendo questo è possibile obbedire realmente, senza sentirsi né “manichini” né “animati dal desiderio di evasione”.
Ritornando al consiglio che viene dispensato dalla mistica carmelitana e riapplicandolo in un contesto prettamente spirituale, è ovvio poi che esso trovi le sue radici in quello che viene direttamente dal Figlio di Dio: “Padre Nostro....sia fatta la Tua volontà, come in Cielo così in terra”.
Papa Benedetto XVI, spiegando la lettera di San Paolo ai Galati, così si esprime: la libertà “ è libertà per il bene, libertà che si lascia guidare dallo Spirito di Dio e proprio questo lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio è il modo per arrivare a essere liberi”.
La “nuova obbedienza” che Gesù ha portato nella storia dell'uomo è quella che ci consente di entrare “nella famiglia di coloro che a Dio dicono Padre e possono dirlo nel noi di coloro che con Gesù e mediante l'ascolto a Lui prestato sono uniti alla volontà del Padre e così stanno nel nuvleo di quell'obbedienza a cui la Torah mira”.
Proviamo a ripartire dalle semplici -ma ricchissime- parole della preghiera che Gesù ci ha insegnato. Sono parole che ripetiamo quotidianamente, magari senza grande fervore, presi dall'abitudinarietà. Facciamo più attenzione al significato di quello che chiediamo a Dio Padre, nel momento in cui consegniamo a Lui la nostra volontà, per fare soltanto la Sua. Guardiamo al modello concreto del Figlio di Dio, non solo nelle grandi prove della vita, ma anche in quelle apparentemente più “piccole”. Teniamo bene in mente quello che ci dice Luca, nel suo Vangelo, sull'atteggiamento di Gesù successivo alla sua apparente “disobbedienza” ai genitori (l'episodio narrato in Lc 2, 41-52): “Partì dunque con loro e stava loro sottomesso […] e cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”.
Troveremo la forza spirituale e psicologica necessaria per “prestare ascolto” alla voce di Dio, che ci parla anche attraverso gli uomini e per crescere spiritualmente -attraverso la pratica dell'obbedienza- come fece Nostro Signore, rendendoci così veramente degni del nostro chiamarci “figli di Dio”.