sabato 16 aprile 2022

Pensieri per lo spirito

 SILENZIO E PAROLA

L'ossimoro del Sabato Santo



Pietro Lorenzetti, Discesa agli inferi (XIV sec.), Assisi, Basilica inferiore


COMMIATO
(Giuseppe Ungaretti)

[...]
poesia
è il mondo l'umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso


Silenzio e parola è l'ossimoro del Sabato Santo, il contrasto che riassume tutte le contraddizioni apparenti della parabola terrena di Gesù di Nazaret.
Perché questo è il giorno in cui il Verbo giace nel silenzio del sepolcro; la vita è soffocata dalla morte; la luce è inghiottita dalle tenebre.
Ma veramente questo è ciò accade dietro la pietra sepolcrale?
O la Parola, la Vita, la Luce fermentano nel silenzio, nella morte, nel buio, preparandosi all'esplosione finale?
Silenzio è certamente assenza di rumore, derivando da silēre - tacere. Il silenzio è, almeno nel suo significato principale e immediato, mancanza di parole, di suoni udibili, piacevoli o meno che siano.
E a questo punto si pone un dilemma che ricorda quello dell'uovo e della gallina: ma viene prima il silenzio o la parola?
Se si dovesse rimanere su un piano puramente "verticale", teologico, certamente Dio come Parola esiste da sempre, ma poi l'esperienza dell'amore (e Dio è amore) ci insegna che, su un piano "orizzontale", terreno, umano, l'amore si declina anche attraverso silenzi di vicinanza, di affetto, di stupore, di miseria, di incredulità, di dolore... silenzi che sanno raccontare molto più delle parole stesse. E finanche nel rapporto con Dio che è Parola, in questo incrocio fra il verticale e l'orizzontale, fra il Cielo e la terra, occorre trovare degli spazi di silenzio, imprescindibili per ascoltare Dio stesso, ma anche perché impossibile è comprendere totalmente la pienezza del suo mistero. Proprio ieri, in un'intervista su Rai 1, abbiamo "ascoltato" il silenzio del Papa davanti alla domanda su come vivere nel Venerdì Santo, l'ora delle 15:00, quella in cui Gesù muore. Davanti a certe cose che ci superano si può solo tacere. Ogni parola sarebbe aggiunta superflua, quasi ridicola, che poco potrebbe dire, tanto potrebbe anche "rovinare" la perfezione, la sublimità, la grandezza del momento.
L'esperienza del silenzio nel rapporto con Dio Padre l'ha vissuta anche Gesù: quando si ritirava solo, a pregare, durante la notte, avvolto anche dal silenzio della natura e dell'umanità che riposava; quando nella sofferenza del supplizio finale il Padre taceva; quando, nel momento della morte, nella conclusione, sulla Croce, della sua esperienza terrena, la vita "umana" ha cessato di essere, e la pietra ha poi sigillato il suo sepolcro, lasciando che i morti andassero coi morti. O almeno così era sembrato a quanti lo avevano conosciuto e amato... oppure odiato.
Ma il ricordo di quanto accaduto, in seguito, nel giorno di Pasqua ci dice  che quel silenzio non era la fine della Parola, che quella morte non era la fine della vita, che il buio del sepolcro non era la sepoltura della luce.
Sì, è vero, Gesù è sceso in un "abisso", parola che ci richiama l'idea delle profondità, della mancanza di luce. Lo recitiamo nel Credo, lo deduciamo dalla Scrittura. 
Ma la sua discesa agli inferi è avvenuta per la liberazione delle anime dei giusti che lo avevano preceduto. Ed era una discesa che precedeva un ritorno, quello della Risurrezione, vita piena, irruzione di luce, Verbo fattosi Carne per l'eternità.
Cosa può dire, allora, a noi discepoli di Cristo, questo apparente contrasto fra il silenzio e la parola? Cosa può dire la discesa negli inferi? Cosa può dire il ritorno alla vita?
«Il dizionario etimologico latino faceva risalire il significato nascosto della parola silentium per via di metatesi (inversione sillabica) al termine exilium. Cioè dalla parola exil-ium, si è passati a silex (l'austerità e la durezza del deserto di roccia?) e da qui a silentium. Anche se questa etimologia è dubbia, il significato è davvero suggestivo. Il silenzio è un esilio volontario nei meandri della nostra coscienza. Di questo l'epoca contemporanea ha davvero bisogno, e a tutti i livelli!» [1].
Senza silenzio non possiamo ascoltarci. Tante volte siamo portati a giustificarci inventandoci mille scuse per rendere plausibili le nostre azioni, i nostri pensieri, i nostri modi di fare, i nostri sentimenti, le nostre cattive inclinazioni, i nostri talenti.
Senza silenzio non possiamo vederci. Troppe volte cerchiamo di dipingerci migliori o peggiori di quelli che siamo, presi dalla paura del giudizio degli altri, delle loro aspettative, dei loro standard.
Senza silenzio non possiamo vivere. Spesso ci lasciamo soffocare da quello che il mondo vuole, impone, offre... e così facendo rischiamo di mettere a tacere i nostri veri desideri, ma soprattutto il progetto di Dio su ciascuno di noi.
Perché senza silenzio non possiamo ascoltare, vedere e vivere di e in Dio.
Solo nell'abisso del nostro stesso io possiamo e dobbiamo essere onesti con noi stessi, trasparenti nei confronti di Dio, lasciando che la sua Paola ci inabiti, ci guidi attraverso la voce della coscienza e il soffio dello Spirito.
Solo scendendo nei nostri stessi inferi possiamo vedere il nostro personale "inferno", la nostra "morte" interiore, spirituale, che ci sta cucita addosso perfettamente, e desiderare con tutto il cuore l'arrivo di Gesù, il Salvatore che ci tende la mano per salvarci e liberarci, facendoci risalire da questo abisso.
Solo scendendo nei nostri abissi possiamo trovare le parole vere, non il vuoto totale, e lasciarci "scavare", plasmare, modellare dalla Parola.
Nel silenzio, lasciando spazio solo alle parole di verità e alla Parola di Verità, possiamo imparare a dire parole che profumano di Vangelo; possiamo rifiorire nella Parola; possiamo imparare ad amare e a farci amare.
È quanto basta per risorgere.


[1] Alberto Fabio Ambrosio, Il silenzio necessario

venerdì 15 aprile 2022

Pensieri per lo spirito


"IO SONO"

La Verità che mette al tappeto






Giotto, Il bacio di Giuda (1303-1305), Padova, Cappella degli Scrovegni


In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». 
Disse loro Gesù: «Sono io!». 
Vi era con loro anche Giuda, il traditore. 
Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra.  
Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
(Gv 18,1-11) 



Siamo all'inizio della scena che l'Evangelista Giovanni allestisce per la Liturgia del Venerdì Santo, nel "set" di un giardino; nel buio della notte Giuda arriva da Gesù insieme alle guardie che di lì a poco cattureranno il Maestro. È tutto un frastuono di rumori metallici di armi, crepitio di fiamme delle fiaccole, e bastoni branditi per aria o picchiettati sulle mani... 
Impossibile non accorgersi del loro arrivo. Le presentazioni non vanno per il sottile, si punta dritti all'essenziale. Cercano il Nazareno, e Gesù, senza giri di parole, risponde «Sono io». Immediatamente le guardie (e anche Giuda?) cadono a terra.
Per un attimo il frastuono diventa tonfo e poi silenzio. Eppure Gesù non ha puntato un solo dito contro i suoi prossimi carcerieri, non ha sfoderato nessuna spada, non ha minacciato di fare loro del male con del fuoco, non ha brandito alcun bastone per aria. 
È la semplice parola di Gesù che mette al tappeto questo plotone, che stende a terra quanti erano venuti armati da capo a piedi.
Ed è solo la parola di Cristo che può fare questo, perché la sua è Parola di verità, Parola di vita. Parola che ci mette con le spalle al muro, rivelandoci l'identità di Dio e la nostra identità... identità di creature fragili, peccatrici, spesso cieche...
Non è un caso, infatti, che le parole di Gesù siano «Sono io»: nel testo originale greco «Io sono».
Sta in queste parole la chiave di interpretazione di quanto accade: Cristo risponde alla ricerca delle guardie rivelandosi come Dio, col nome stesso di Dio. Perché Gesù Nazareno è il Cristo, il Figlio di Dio, l'Unto del Signore, il Verbo fatto Carne.
È ed è potente questa rivelazione, come sempre (che lo ammettiamo o meno) è la verità, quando senza addolcire la pillola ci fa comprendere (almeno interiormente) chi siamo noi, chi è l'altro che ci sta dinanzi, quale sia la nostra condotta e quella dell'altro.
Ma è una rivelazione che lascia sempre intatta la libertà dell'uomo: e gli uomini armati, come per niente stupiti da quanto loro accaduto, si rialzano, per continuare a fare il loro dovere, ciò per cui erano venuti, ossia arrestare Gesù, colui che ha osato farsi proprio "figlio di Dio".
Quante volte, anche noi, nelle nostre vite, facciamo orecchie da mercanti, fingiamo di non vedere, di non capire?
Dio non gioca a nascondino, si presenta nella sua interezza, senza i chiaroscuri, i compromessi che tanto spesso caratterizzano invece le nostre condotte anche dinanzi a quelli a noi più vicini.
Per questo la Parola di Verità proietta sempre una luce, una forza su di noi... cerca di scuoterci, di risvegliarci: ma siamo sicuri di avere le orecchie pronte per ascoltarla, gli occhi aperti per vederla, lasciandoci disarmare da Essa di tutte le nostre false certezze, di tutte le nostre inutili difese, di tutte le nostre finte luci? Perché la Verità, in fondo, è scomoda, quando ci obbliga a mettere in questione ciò che stiamo facendo, la direzione che stiamo prendendo, le decisioni che stiamo portando avanti...
Attenzione, dunque, perché corriamo il rischio di essere come le guardie: sbalzati a terra dalla Verità, ma incapaci di rialzarci per cambiare rotta; messi al tappeto, ma incapaci di riconoscere che ci siamo sbagliati, che non avevamo capito niente, che la realtà dei fatti è un'altra. 
Ogni volta che la Verità ci viene incontro siamo dinanzi alla possibilità di rinascere, di rivivere in un nuovo giardino, nuovo Paradiso già qui in terra: lasciamoci guarire dalla Parola che ci atterrisce, sì, nel metterci dinanzi all'immensità di Dio e al nostro niente, ma che ci offre anche la mano per rialzarci, grazie alla sua Misericordia, che in Cristo si è fatta Carne.

giovedì 14 aprile 2022

Pensieri per lo spirito

    PORGERE L'ALTRA GUANCIA

Allenarsi al perdono





Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri». Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».  
(Gv 13,1-15) 




È difficile porgere l'altra guancia. Arduo perché contrappone la gentilezza alla violenza, la delicatezza alla mancanza di tatto; sfiancante perché chiede di metterci (letteralmente) la faccia, di offrire la nostra carne – quanto di più "sensibile" abbiamo... anche il cuore è di carne! – a chi non saprà maneggiarla con cura; duro perché allo stimolo della violenza, dell'ingiustizia, del dolore è connaturale la reazione istintiva della difesa, non quella della ri-offerta.
Che sia estremamente "complicato" porgere l'altra guancia non ce lo dice solo l'esperienza personale, ma lo raccontano anche le cronache – e purtroppo pure quelle di questi giorni, in cui anche i gesti simbolici di una Via Crucis diventano oggetto di rimostranze e indignazioni.
Perché porgere è semplice e faticoso allo stesso tempo: semplice nella sua grazia di movimento gentile, complesso nel bagaglio interiore che va elaborato per arrivare alla delicatezza di questo gesto.
Porgere è allora un verbo garbato e "ragionato", che non tradisce istinto nel senso comune del termine; non trasmette ansia, fretta; non ispira crudezza. Porgere è il verbo di un gesto cordiale e cortese – raffinato se si vuole –, frutto di una riflessione interiore più che della natura stessa dell'uomo, conseguenza di una sequela che si articola non solo in belle parole, ma nei fatti del momento presente, di quello in cui la Passione di Cristo si ripete (in tante, mille forme, piccole e grandi, singole o collettive) nelle nostre vite, chiedendoci di offrire non qualcosa di esteriore, ma la nostra "pelle".
Mi piace pensare che porgere l'altra guancia sia il frutto di un allenamento, e in questo senso va anche l'etimologia della parola, che si compone di por- "in avanti" e rĕgĕre "dirigere in linea retta": ci si allena, allora, a porgere l'altra guancia, ci si prepara lungo il cammino guardando avanti, procedendo verso la meta, o correndo, come direbbe san Paolo.
Non si può, insomma, improvvisare – salvo una grazia speciale –, perché porgere l'altra guancia implica la capacità di perdonare, pacificare, costruire... 
Guardando all'esperienza di Cristo non si può che dire che anche per Lui, nella sua esperienza umana, è stato così: Egli è venuto per la sua "ora", si è preparato per essa. È l'Ora di Gesù è il momento culmine della sua vita terrena, quello in cui veramente, davanti al tradimento, alla condanna a morte, al supplizio, agli insulti sulla Croce e alla morte stessa, è chiamato a porgere l'altra guancia nella maniera più ampia e totale possibile. Dirà al Padre di perdonare i suoi crocifissori perché non sanno quello che fanno; perdonerà il ladrone pentito; si abbandonerà al Padre, pur sentendosi abbandonato da lui.
Ma già nel Giovedì Santo, guardando oltre, muovendosi idealmente "in avanti", Cristo porge l'altra guancia: il gesto della lavanda e quello dell'offerta del boccone sono, infatti, per tutti i suoi discepoli. 
Per Pietro, che lo rinnegherà poi per ben tre volte; per Giuda, che di là a breve lo consegnerà – con un bacio – in mano agli aguzzini; per quei suoi seguaci che davanti alla croce fuggiranno per paura... per tutti noi, che quotidianamente lo rinneghiamo, lo abbandoniamo, lo eliminiamo dalle nostre vite.
La vita è, in fondo, un saper porgere in anticipo l'altra guancia: perché colui che oggi ci è amico ci potrebbe tradire un domani; perché la gentilezza deve abitare anche i rapporti con la persona che ci sta antipatica; perché il garbo non deve abbandonarci quando l'altro diventa offensivo; perché, come siamo soliti dire tante volte, il mondo è pieno di sciacalli...
Gesù ci insegna una legittima difesa disarmata, che tenta di prevenire i mali peggiori; che condanna il peccato ma lascia aperto lo spiraglio della pacificazione col peccatore; ci mostra la via in cui è possibile che i giochi di potere fra le diverse fazioni (politiche, religiose – come non Pensare a Pilato, Erode, gli scribi, i farisei, i dottori della legge) non intacchino i rapporti fra i singoli (lo si vedrà bene quando Giuseppe d'Arimatea andrà a prendere con cura il corpo di Gesù per deporlo nel suo giardino nuovo); Cristo Signore ci indica un percorso in cui conoscere la debolezza dell'essere umano non ci impedisce di scommettere sulla pace nei nostri rapporti, sulla condivisione, sull'aiuto reciproco, sul perdono vicendevole.
Gesù, insomma, porgendo l'altra guancia spalanca la porta del ritorno per chi ha sbagliato o per chi può intuire che tradirà la sua fiducia. L'altra guancia – la carne, il cuore, la mano – è il simbolo della possibilità che offriamo all'altro di ricominciare, di tornare a incontrarmi nel profondo. Ed è anche il segno di una pace che si deve portare prima di tutto nei nostri cuori, per poter superare i rancori, gli odi, le debolezze, e capire che rimettersi in gioco con l'altro non è semplicemente umano, ma è indice del divino che abita in noi, di quel Dio che è si fatto come noi per farci come Lui. Cioè capaci di sperare, di attendere il cambiamento dell'altro mentre cambiamo anche noi, sollevandoci sulle nostre negatività; capaci, mentre aspettiamo, di continuare ad amare, rimanendo aperti alla possibilità della riconciliazione. 
Capaci, come Gesù nella notte del tradimento, di porgere l'altra guancia, di offrire tutta la propria Carne, tutto se stesso, per la riconciliazione con l'altro.

domenica 3 aprile 2022

Pensieri per lo spirito

 IL CONDONO E LA CONDANNA

Gesù e l'adultera





In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 
Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. 
Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. 
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, 
la posero in mezzo e gli dissero: 
«Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 
Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. 
Tu che ne dici?». 
Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. 
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. 
Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: 
«Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». 
E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 
Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». 
E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».  
(Gv 8,1-11) 




Condonare e condannare sono parole simili: basta cambiare una vocale e aggiungere una consonante per passare dall'una all'altra. Sono parole che sanno l'una di leggerezza, liberazione, pacificazione – come quella che Gesù offre alla donna adultera – e l'altra di pesantezza e morte, proprio come le pietre che gli scribi e i farisei di questa pagina di Vangelo sono pronti a scagliare contro la peccatrice.
Condonare e condannare condividono anche il suffisso con, quella proposizione semplice che sembra appoggiarsi al dono e al danno con estrema facilità, dipende tutto dagli occhi con i quali valutiamo la scena, i suoi attori protagonisti... e noi stessi, spettatori o registi che siamo.
Quel con, tanto semplice, a ben vedere, non è: ci sbatte in faccia il fardello della responsabilità, la verità dell'essere come l'altro; oppure ci offre la possibilità di farci portatori di bene, della capacità di graziare l'altro, di essere solidali, generosi con lui.
Non c'è mai nessuno che possiamo veramente mettere «in mezzo» senza metterci in mezzo, in gioco, anche noi.
A condannare l'altro, infatti, in fin dei conti si condanna anche se stessi: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Gesù ha il coraggio di ricordarci che nel peccato, purtroppo, siamo tutti "con" l'altro... in perfetta "compagnia". 
Attenzione, allora, a giudicare nel senso condannare senza appello, perché qualcun altro può a ragione "rinfacciarmi" (e nel migliore dei casi almeno ricordarmi) che nemmeno io sono un santo. Il danno che io voglio fare all'altro ritorna allora su di me, la pietra che voglio scagliare verso il peccatore mi si ritorce contro, come un boomerang... Perché la condanna è denuncia del peccato senza possibilità di salvezza, senza misercordia, senza compassione, cioè senza capacità di patire-con
Il condono, a differenza della condanna, esprime invece la capacità di riconoscere il peccato, e di farlo riconoscere a chi ha sbagliato, ma offrendo la possibilità del cambiamento, della conversione. «Va' e non peccare più» sono le parole con cui Gesù offre il dono della rinascita alla donna colta in flagrante adulterio.
In questo con-dono Gesù non sta dando semplicemente una parola, una prospettiva di vita nuova, un'assoluzione: sta dando il per-dono, se stesso, il dono di sé come amore capace di salvare il peccatore. Gesù è "con" la donna perché sta dalla sua parte: la salva da morte certa, le indica dove ha sbagliato, la invita a prendere la strada giusta della conversione.
Nel condono vero possiamo offrire all'altro qualcosa di noi, la nostra capacità di amare superando i rancori, i giudizi, le etichette che facilmente affibbiamo al nostro prossimo, la nostra ostinazione nel non ammettere deroghe; nel condono non mi ergo più sul trono del giudizio, ma mi metto allo stesso livello dell'altro, gli offro il mio perdono. Proprio come fa Gesù con questa donna, Lui che è pur non conoscendo il peccato si è fatto peccato per tutti noi, «perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» 2Cor 5,21)
Siamo chiamati a usare una grammatica della sottrazione: passare dalla condanna al condono. Solo così potremo poi, nuovamente moltiplicare: dal condono al perdono.
 
***

Sulle pagine web di Note di Pastorale Giovanile sono sempre online alcuni miei lavori sul tema dell'Adultera nell'arte.

«Cristo e l'adultera». Escursioni pittoriche 
Un doppio processo (dipinto di V. Polenov)
Gesù e la legge (dipinto di G. Brusaferro)
La forza lapidaria della verità (dipinto di Brueghel il Vecchio)
Perdonare di vero cuore (bassorilievo di E. Barberi)

«Cristo e l'adultera». Rappresentazioni artistiche nei secoli
Dal IX al XV secolo

Il XVI secolo
Dal XVII al XVIII secolo
Il XIX secolo
XX e XXI secolo