domenica 4 aprile 2021

Auguri!





Il Cristo risorto di Rubens


«La fede non è un repertorio del passato, Gesù non è un personaggio superato. Egli è vivo, qui e ora. Cammina con te ogni giorno, nella situazione che stai vivendo, nella prova che stai attraversando, nei sogni che ti porti dentro. Apre vie nuove dove ti sembra che non ci siano, ti spinge ad andare controcorrente rispetto al rimpianto e al “già visto”. Anche se tutto ti sembra perduto, per favore apriti con stupore alla sua novità: ti sorprenderà». (Papa Francesco)

Auguri di buona Pasqua! 

sabato 3 aprile 2021

Pensieri per lo spirito

DISCENDERE PER RISALIRE
Meditazioni per la Settimana Santa





Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 
(Is 52,10) 

Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c'è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell'ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione. Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell'inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un'unica e indivisa natura. 

(Ufficio delle Letture del Sabato Santo)



Discendere, scendere, risorgere.
Il Sabato Santo è il giorno in cui si incontrano l'abbassarsi e il risalire, il Cielo e la Terra, il buio e la luce, la morte e la risurrezione.
Il verbo discendere, nella sua etimologia, contiene già la radice del salire: descèndere, composto da de e scàndere, di e salire. Senza discesa non c'è risalita, perché senza chicco che muore nella terra non c'è spiga che sale verso il cielo, senza vita che si perde nel tempo non c'è vita che continua nell'eterno.
Il futuro dell'umanità è tutto racchiuso in questi verbi di movimento, ma – e soprattutto – nella discesa e risalita di Cristo. La sua discesa: quella dalla condizione di Dio per farsi Uomo-Dio; quella dalla gloria terrena di Messia osannato alla fama di malfattore appeso a una croce; quella dalla vita alla morte; quella dal sepolcro fin negli inferi, per liberare chi era in catene.
Da questa discesa, compiuta per amore degli uomini e in obbedienza al Padre, il sangue di Cristo origina la sua discendenza, la discendenza dei redenti in Lui, la discendenza dei salvati dal peccato e dalla morte. Una discendenza di risorti in Cristo.
Scendere non è necessariamente, infatti, sinonimo del percorrere l'ultima tappa, dell'arrivare alla fermata finale. A volte la discesa è un trampolino di lancio, per raggiungere traguardi più alti. 
Così è la discesa di Cristo:  necessaria per spiccare il salto della risurrezione, dell'ascesa al Cielo, della riconquista della gloria che da sempre Egli aveva quale Verbo di Dio; della rinascita dell'intera umanità.
E la discesa di Gesù ci ricorda che ogni uomo ha la sua "personale" discesa nella morte, il salto senza il quale non si può raggiungere la vita eterna. E ogni uomo ha pure le sue personali piccole discese del vivere quotidiano: quelle dell'umiliazione, dell'ingiustizia, dell'indifferenza subite, a volte anche dell'odio ricevuto... Proprio come nell'esistenza terrena del Maestro, esperto di discese tramutate in rampe di lancio.
Queste nostre umane, sofferte, temute discese non sono però dei salti nei buio: Gesù le ha percorse prime di noi, vivendole nella loro interezza, nella loro mistura di paura e dolore, di affidamento e tentazione, di angoscia e speranza. E come ad Adamo, anche a noi quel Cristo disceso negli inferi ricorda la grande, stupefacente verità che la Pasqua è: la Croce non è la fine, ma l'asta per raggiungere il Cielo; non siamo stati creati per essere prigionieri degli inferi, ma abitanti della luce, delle Altezze... atleti del salto in alto, pronti a spiccare il volo verso il traguardo che non ha fine. 

venerdì 2 aprile 2021

Pensieri per lo spirito

ORECCHI PER INTENDERE
Meditazioni per la Settimana Santa




Particolare dal Bacio di Giuda (XIV sec.) di Giotto 


 Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?». 
Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono». Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?». Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
(Gv 18,10-11; 25-27)




Malco, Pietro e Gesù. Le figure del Venerdì Santo. L'una protagonista assoluta, l'altra  coprotagonista... l'ultima, quella di Malco, personaggio secondario. O, almeno, così sembra, all'inizio della scena.
Perché proprio questo Malco, che viene catapultato nell'Orto degli Ulivi solamente per essere mutilato del proprio orecchio da parte di Pietro (e, in Luca, anche guarito da Gesù), scompare solo all'apparenza, rimanendo in verità come un'ombra che  "insegue" lo stesso Pietro fino nel cortile della casa del sommo sacerdote. 
È qui che il discepolo del Maestro sosta mentre per Gesù cominciano le ore drammatiche del processo, delle torture e della morte in Croce; all'inizio Pietro rimane vicino alla porta, timoroso d'entrare, ma in ansia per le sorti dell'amico e Maestro; poi entra dentro, richiamato da un altro discepolo; e infine si ferma per scaldarsi attorno al fuoco. Spera di essere una presenza in incognito, in attesa di notizie su Gesù, ma la sua non è un'apparizione inosservata: non solo la portinaia e altri lo rammentano come uomo al seguito di Cristo, ma uno dei presenti lo riconosce espressamente perché «parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l'orecchio». Uno, dunque, che la faccia dell'aggressore del proprio familiare se l'era ben impressa in mente, probabilmente perché profondamente "toccato" dall'ingiustizia subita da Malco. 
Non era quello, infatti, un gesto qualsiasi: «Tagliare l'orecchio destro di una persona era all'epoca un marchio di infamia» [1]. E forse Pietro lo aveva fatto veramente nell'intento di "marchiare" a fuoco quel servo, e ciò che esso, di fatto, rappresentava, nel mancato riconoscimento di Gesù.
Infatti, «nel testo greco dei Vangeli, Malco è sempre definito "il servo del sommo sacerdote", con l'articolo determinativo τόν, tón, "il": ciò fa pensare che non si trattasse di un semplice inserviente, bensì di un collaboratore personale e importante del sommo sacerdote» [2].
L'atto "violento" di Pietro ha il sapore di una sorta di "vendetta d'onore". Ma sebbene nell'Orto degli Ulivi egli sia baldanzoso, temerario, impavido nel prendere le distanze da ciò di cui Malco è un simbolo, un rappresentate, non così sarà poi quando veramente per Gesù si avvicinerà l'ora della condanna.
E attorno al fuoco, nel cortile della casa del sommo sacerdote, è Pietro a sembrare il vero mutilato. Quel Pietro tanto umanamente spaventato per quanto potrebbe accadere anche a lui, per la sola "colpa" di aver seguito Gesù; quel Pietro così poco coraggioso, sul momento, di subire la stessa sorte del Maestro per amore della Verità; quel Pietro che di impavido, ormai, ha conservato solo il ricordo.
Pietro è il vero "mutilato": è "senza orecchi" per intendere. Alla domanda «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?» egli prende allora in prestito le "orecchie da mercante", e risponde con una menzogna, negando di conoscere il Cristo.
Gesù, d'altronde, lo aveva detto, non solo nel preannunciare proprio a Pietro il suo triplice tradimento, ma anche quando, più in generale, aveva affermato: «Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello» (Mc 7,5).
Pietro, evidentemente, non aveva ancora misurato le proprie forze. Aveva ben pensato di farlo con quelle degli altri, di giudicare il fratello che stava dall'altra parte, di reagire al rifiuto della Verità con la negazione della Verità (perché la violenza non è mai la Verità). 
La lezione del triplice canto del gallo che suggella, con precisione certosina, la sua debolezza, già prevista dal Maestro, gli è necessaria per comprendere che dentro il suo occhio c'è una grande trave, una trave di umanità non ancora modellata nella forza dello spirito. Perché per Pietro né la carne né lo spirito, in questo momento, sono ancora talmente tanto forti da sopportare la prova finale, la sequela definitiva sulla via della Croce.
L'orecchio di Malco, come la trave nell'occhio, sono il monito alla nostra coscienza. Nel mare del nostro essere navigano sempre travi impastate di umanità non ancora fortificate dallo e nello spirito. Ogni giorno bisogna rendersi attenti per scorgerle e levarle via di mezzo. Sempre le nostre orecchie corrono il rischio di diventare deboli ricevitori della verità, perché perse fra i molti suoni, canti di sirene che cercano di sedurci. Ricordarci della nostra debolezza, come di quella di Pietro, ci farà allora del bene. Ci aiuterà a riconoscere che il cammino cristiano è un continuo percorso di purificazione interiore, per imparare a vedere e sentire meglio Dio che passa nelle strade delle nostra vita. Anche quando ci chiede di seguirlo su un cammino di piccole e grandi croci quotidiane. 


[1] Voce Malco, Enciclopedia Telematica Cathopedia. 
[2] Ibidem


giovedì 1 aprile 2021

Pensieri per lo spirito

UNA VESTE NUOVA
Meditazioni per la Settimana Santa





 Depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli 
e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.
Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».
(Gv 13 4-5; 12-15)





Deporre le vesti, servire, riprendere le vesti.
Ma in quali vesti il Giovedì Santo ci presenta Gesù? 
Prima di tutto Egli appare come il "capotavola": è lui che ha voluto l'Ultima Cena, è lui che ha indicato ai discepoli come fare per organizzarla, è sempre lui che "dirige" la serata. 
Ma poi Cristo indossa anche l'abito del servo, di colui che si "abbassa" al gesto della lavanda dei piedi, tipico dei servi verso i padroni, delle mogli verso i mariti, dei figli verso i padri. Un gesto che aveva una sua precisa funzione pratica, non simbolica, nel mondo dell'epoca: ripulire i piedi che, percorrendo le polverose strade del tempo, e rivestiti dei soli sandali, raccoglievano tutta la sporcizia su di essi. Certamente, la "potenza" non materiale del gesto stava nel fatto che esso ribadiva la gerarchia del tempo: a doverlo compiere era chi, socialmente, "rivestiva" una posizione inferiore, e nel caso di Gesù è proprio questo che scandalizza i suoi, di cui Pietro si fa palesemente portavoce.
Ma la deposizione delle vesti, così volontaria, così spontanea, anche così semplice nella sua stranezza di quel momento, Gesù la compie senza battere ciglio, come qualcosa di "dovuto", ma soprattutto di "sentito". Gesù è colui che volontariamente ha accettato di spogliarsi della condizione divina – lo rimarcherà poi san Paolo – non ritenendo un privilegio l'essere come Dio. Gesù è colui che liberamente ha deciso di assumere la condizione di servo, diventando simile agli uomini... e umiliandosi fino alla morte di Croce.
Non è solo il gesto dello spezzare il pane e del condividerlo, allora, che rimanda alla Croce. Già la lavanda dei piedi è il simbolo forte di quello che avverrà sul Golgota, quando Gesù verrà spogliato della sua tunica e crocifisso: «Gesù portò la Croce vestito (Mt 27,31; Mc 15,20: "lo vestirono con i suoi indumenti e lo condussero alla crocifissione"). Dopo la crocifissione furono divise le sue vesti. I Romani in ciò si adattarono al senso di pudore dei Giudei. È da concludersi da ciò che anche sulla Croce Gesù portasse un leggero rivestimento. Ma i Padri, attenendosi alla consuetudine romana, ritenevano che Gesù fosse nudo sulla Croce» [1].
E su quella Croce, rivestito forse solo di un semplice panno, Gesù ripulisce i peccati dell'umanità con il proprio sacrificio, con il sangue, il sudore, il dolore di cui si impregna proprio quel semplice panno che lo riveste.
A questo punto della storia, agli occhi del mondo, Gesù sembra però essere pienamente rivestito solo della sua umanità: un condannato qualunque, un "pazzo" qualunque che si è creduto Figlio di Dio ed è rimasto sconfitto nel grande gioco della fede e della politica.
D'altro canto, però, la deposizione delle vesti può far pensare anche a un altro momento, non più doloroso, ma di speranza e di gioia: quello in cui Giovanni e Pietro, il mattino di Pasqua, arrivando di corsa al sepolcro dopo l'annuncio delle donne, troveranno la pietra rotolata e «i teli posati là, e il sudario - che era stato sul suo capo - non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte» (Gv 20, 5-7).
Gesù ha nuovamente deposto le vesti, ma questa volta per indossare quelle che fin dal principio gli erano consone, quelle che da sempre avevano già rivestito la sua persona divina: Gesù è ora il Risorto, il Figlio di Dio glorificato, l'Uomo-Dio che non conoscerà più la morte. La parabola del Maestro non è terminata con le vesti umane, terrene, indossate sulla Croce. Quello era il momento del servizio, della "lavanda" dei peccati degli uomini. Ora è il momento in cui, finalmente, Gesù riprende le sue vesti, le vesti nuove, candide della risurrezione, per sedere definitivamente a fianco del Padre, laddove la morte non ha più alcun potere.
Ma questo Gesù, che sarà con noi fino alla fine del mondo, e nell'eternità, ci lascia in consegna il "mistero" del servizio: anche il discepolo è chiamato continuamente a deporre le proprie vesti "gloriose" di figlio di Dio, per rivestire quelle del servo di Dio, perché solo servendo come Gesù, il servo dei servi di Dio, la deposizione delle nostre vesti di egoismo, indifferenza, comodità, ci farà guadagnare una veste migliore, una veste cucita tutta d'un pezzo, intessuta di fili d'oro, incorruttibile. La veste dell'eternità, cucita dall'amore di Dio, Padre buono e misericordioso.



[1] Urban Holzmeister,  Voce «Croce», in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948-1954, vol. IV, coll. 951-956, in Paulus 2.0


mercoledì 31 marzo 2021

Pensieri per lo spirito

 METTERE LE CARTE IN TAVOLA

Meditazioni per la Settimana Santa



Ultima Cena (IX sec.) nell'Abbazia di Sant'Angelo in Formis (Caserta)


 Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!». Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto».
(Mt 26, 20-25)





Mettersi alla stessa tavola e mettere le mani nello stesso piatto
Sono i gesti che si compiono fra amici e familiari, sono gesti attraverso cui si dovrebbe declinare un atteggiamento più profondo del semplice mangiare: la condivisione degli stessi intenti, dei medesimi valori, di un affetto profondo. La mensa e il piatto diventano il luogo dello scambio di idee, preoccupazioni, premure e aspettative. La mensa come una tavola rotonda attorno a cui discutere delle piccole e grandi cose della vita; il piatto come una bilancia su cui pesare la qualità degli affetti, lo sviluppo delle relazioni, l'intensità e la verità del vivere assieme. La tavola come simbolo della decisione di stare con qualcuno per un tratto del cammino, per condividere un'esperienza di vita, per seguirlo, mangiando lo stesso pane di fatiche e successi, delusioni e gioie, ideali e fini.
Chi si siede attorno alla stessa mensa, chi mangia nello stesso piatto, lo fa sempre con qualcun altro, un qualcuno a cui non può rimanere indifferente: la dinamica che si viene a creare è necessariamente quella della relazione. Scelgo o accetto di  sedermi alla stessa mensa di qualcuno. Scelgo di percorrere la mia esistenza in solitaria oppure scelgo o accetto di camminare assieme a un'altra persona.
A sottolinearlo è anche il fatto che Matteo aggiunga un altro dettaglio, identificato dalla preposizione con: Gesù si mise a tavola con i suoi così come il traditore metterà la mano nel piatto con Gesù. 
Gesù ha chiamato, e i discepoli hanno risposto. Ha risposto anche Giuda, ma il suo camminare non è stato sincero, o non lo è diventato da un certo punto in poi; così la tavola diventa proprio il luogo in cui si svelano i pensieri del suo cuore. «Mettere le carte in tavola» recita un modo di dire. Questo chiede Gesù a Giuda, quando afferma che uno dei dodici lo avrebbe tradito; quando indica apertamente il "segnale" per riconoscere il traditore; quando, ancora, invita il discepolo a fare presto quello che vuol fare. Sembra che il Maestro lo inviti a venire fuori, alla luce del sole, a chiarire apertamente la sua posizione. Gesù, come farà in seguito, chiamandolo ancora "amico", dimostra a Giuda che, pur "sapendo", lo ha accolto comunque alla propria mensa, ha accettato di mangiare assieme, gli sta dando ancora una possibilità. Una possibilità di riguadagnare la sua fiducia, di fare un passo indietro, di cambiare idea. Perché la tavola può essere anche il luogo della riconciliazione, della pace fatta, del perdono chiesto e ottenuto... come nella parabola del Figlio prodigo.
Ma, si sa, la tavola può diventare anche il luogo del disaccordo, il palcoscenico dell'inganno e del tradimento.
Perché nel piatto in cui si mangia si può anche sputare. E Giuda sembra dimenticare le tavole comuni, i piatti condivisi, il discepolato vissuto alla sequela di Cristo. Piuttosto che sputare il rospo della verità preferisce sputare nel piatto in cui aveva mangiato, rinnegando quanto aveva vissuto assieme al suo Maestro, dimenticando la Verità, preferendo il denaro all'amicizia.
Anche la nostra vita è fatta di mense comuni e piatti condivisi, di relazioni e di cammini percorsi assieme. L'Ultima Cena ci invita a non dare queste "mense" per scontate, e ci sprona a preferire il dialogo sincero alle intricate trame dell'inganno e del silenzio.
Perché ogni tavola è quella in cui, nella relazione con l'altro, si gioca anche la nostra relazione con l'Altro, con Colui per il quale giochiamo sempre a carte scoperte... attorno alla tavola del nostro cuore.

martedì 30 marzo 2021

Pensieri per lo spirito

 USCIRE CON LA VESTE MIGLIORE

Meditazioni per la Settimana Santa




Nikolai Nikolaevich Ge, L’ultima Cena (1863)


 I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». Rispose Gesù: «È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò». E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariòta. 
Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. 
Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte.
(Gv 13, 22-27; 30)





Mangiare, entrare, uscire. 
I verbi cardine del Martedì santo potrebbero essere questi. Tre verbi di movimento ricchi di significati e di risonanze bibliche, tre parole che richiamano altre parole di Gesù, altri ammonimenti per i discepoli; tre verbi che rimandano alle condizioni esistenziali dell'essere umano, e a quelle più profondamente spirituali.

Mangiare è innanzitutto un gesto di vita: il cibo è energia, forza. Rimanerne senza è pericoloso. Perché di fame, letteralmente, si muore.
Mangiare, ancor di più, è un gesto "sacro" di vita: la sua sacralità gli deriva dal fatto che il cibo è dono di Dio. Nelle primissime pagine della Bibbia è il Creatore a "piantare" alberi da frutto nel giardino dell'Eden, e a creare gli animali della terra e dell'acqua, affidati alle cure dell'essere umano. Tutto deve essere "pronto", "apparecchiato" per l'uomo prima che questi faccia la sua apparizione.
Mangiare è poi un gesto così sacro da essere scelto da Gesù come ultimo atto di condivisione coi suoi; e mangiare è il gesto sacro che Egli stesso ha voluto per rimanere sempre con noi, diventando culmine e  fonte della vita cristiana in un pezzo di pane: l'Eucaristia.

Ciò che si mangia entra nell'uomo: il boccone che Gesù porge a Giuda passa attraverso le mani del Maestro, poi quelle del discepolo, ed entra infine in lui attraverso la sua bocca.
Mangiare è verbo che richiama – in senso lato – l'adorare, ad orare, portare alla bocca. Si "santifica" ciò che si mangia se nell'atto stesso del nutrirsi ci si ricorda che il cibo è un dono di Dio, oltre che delle mani dell'uomo. Il cibo è "sacro", perciò non va sprecato... lo abbiamo sentito ripetere tante volte dai nostri genitori e forse ancora di più dai nostri nonni, da quelli che di più hanno faticato per ricavare il cibo dalla nuda terra. Il cibo è sacro, e ci permette di adorare Dio nella sua bontà di Padre che si premura anche nel donarci il nutrimento per il corpo. 

Che sentimenti e quali atteggiamenti provoca allora in noi il nutrirsi? Di ringraziamento nel poco come nel molto, o di rabbia verso chi ha di più, nei confronti di chi fa sperequazione con le risorse della terra, o, ancora, di inquietudine per il futuro?
Cosa "esce" del nostro cuore in relazione a quest'atto simbolico e materiale del mangiare?
Abbiamo fiducia nella Provvidenza di Dio, quel Padre a cui Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno il "nostro pane quotidiano"? Abbiamo la stessa fede e capacità di condivisione della vedova di Sarepta di Sidone, che credendo alle parole del profeta Elia, prepara una piccola focaccia con quel poco che aveva in casa, e ha di che sfamarsi, lei e tutti quelli di casa e il profeta stesso, per diversi giorni; abbiamo la stessa fede dei discepoli, che sulla parola del Maestro distribuiscono i cinque pani e due pesci di un ragazzo a migliaia di persone, raccogliendone alla fine anche dodici ceste di avanzi?
Oppure siamo come il ricco epulone, comodamente seduto attorno alla sua mensa imbandita, che non ha compassione per il povero Lazzaro, che si sarebbe accontentato solo delle briciole di quella tavola? «Pancia piena non crede a chi è a digiuno»... per dirla con un detto popolare. Solo a pancia vuota, nell'Aldilà, il ricco si accorgerà, infatti, (ma in ritardo) del male fatto.

Non è ciò che entra in noi a renderci impuri, ma ciò che coltiviamo nel nostro cuore (cfr. Mc 7, 18-23), da questo dipende che la sazietà non ci accechi; che l'abbondanza non ci renda sempre più avidi; e che il dono anche di un semplice boccone – come quello che Giuda riceve da Gesù – non perda il suo valore "simbolico" oltre che materiale, ma che conservi tutto il suo valore, anche "affettivo"... quando ci viene da una persona cara.
Mangiare è un atto sacro, eppure può diventare anche una tentazione. Ma rispondere a questa è in potere di ognuno di noi. Adamo ed Eva cedono alla seduzione del serpente e si nutrono del frutto dell'albero che non dovevano toccare; Gesù, invece, alla tentazione nel deserto di trasformare le pietre in pane risponde ricordando a ognuno di noi che «non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).
In conclusione, ciò che esce da noi non è diverso da noi. il Verbo di Dio era Dio, la Parola del Padre,  ed è "uscito" dalla sua dimensione di totalmente Altro per essere la Parola incarnata. Ma nella sua esistenza umana ha deciso di ribadire ogni giorno questo suo sì, nutrendosi nel profondo di Dio Padre.
Non possiamo incolpare altri o altro del nostro agire e del nostro essere. Siamo noi stessi a "uscire" fuori per quello che intimamente abbiamo deciso di essere, buoni o cattivi, giusti o ingiusti, credenti o increduli. A volte si può mentire, ma la menzogna non dura per sempre. Giuda, dopo aver fatto entrare in lui il boccone uscì: uscì allo scoperto, col piano di tradimento che fino ad allora aveva progettato. E se anche in quel momento era notte, Gesù già "sapeva", e sapeva il discepolo prediletto... e tutti gli altri l'avrebbero scoperto, più tardi. Perché il tempo della finzione, per quanto sembri solo un luogo comune, ha sempre i minuti contati.

Mangiare-entrare-uscire devono diventare i verbi del cuore. 
Con cosa nutriamo il nostro cuore, per renderlo migliore, più buono, più generoso, più fedele? Permettiamo a Dio di entrare in esso non dall'esterno, ma dal profondo della nostra anima, perché lo trasformi a sua immagine e somiglianza? Solo un cuore abitato da Dio uscirà fuori, allo scoperto, con la sua veste migliore: la veste dell'amicizia, della fedeltà, dell'amore.

lunedì 29 marzo 2021

Pensieri per lo spirito

 QUANTO DURA UN PROFUMO?

Meditazioni per la Settimana Santa






Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo. Allora Giuda Iscariòta, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. 
Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». 
(Gv 12, 3-8)





Il Lunedì Santo è il giorno del profumo, del nardo "prezioso", che letteralmente, in greco, è definito "fedele". Una fragranza costosissima, che Maria sparge sui piedi di Gesù, attirando l'ammirazione di Cristo, ma anche lo scontento di Giuda, desideroso di fare altro con l'equivalente in denaro di quell'essenza.  
Vale tanto quanto pesa, quel nardo. Trecento grammi per trecento denari. Una perfetta equivalenza di un denaro al grammo, e di grammi e denari che sembrano volatilizzarsi, dissolvendosi solo in una scia, nel momento stesso in cui il profumo assolve al suo scopo. 
Ma dopo la perfetta matematica, nel brano di Giovanni arriva il momento dell'enigma, l'enigma del profumo: nelle parole di Giuda esso sembra essere stato tutto, irrimediabilmente, incoscientemente sprecato... in quelle di Gesù pare invece che ce ne sia ancora, e che vada destinato alla sua sepoltura.
L'evangelista o Gesù o Giuda sono forse impazziti? No, è la chiave di comprensione sta in quella parola iniziale, in quell'attributo "fedele", che evidentemente Giovanni non usa a caso.
In effetti il nardo è stato "fedele" a se stesso: proprio come il servo inutile della parabola ha fatto quello che doveva fare (cfr. Lc 7,10). Maria l'ha usato per lo scopo per il quale era stato creato: profumare. Il profumo, che è una "cosa", è stato fedele, ed è tanta la "stranezza" di questo aggettivo che le traduzioni lo riportano come "puro" o "genuino"... Eppure proprio la fedeltà del nardo – la fedeltà di una "cosa" –, stride con l'infedeltà di Giuda – l'infedeltà di una "persona". Una persona che parla del bene dei poveri mentre in verità ha in mente solo la propria avidità; una persona che dice il falso; una persona che agisce con malizia.
Il parallelo del nardo è invece Gesù, l'immagine del Dio fedele, che non può mai rinnegare se stesso, tanto che – lo dirà san Paolo  se l'uomo smette di essere fedele, Dio no, non può mai essere infedele, perché Egli non può rinnegare se stesso: Dio è la fedeltà, e in Gesù è la fedeltà in persona (cfr. 2 Tm 12,13).
E la fedeltà non contempla i concetti di spreco, parzialità, calcolo, termine. 
La fedeltà è generosa, così come dimostra il nardo, che non solo riempie di sé i piedi di Gesù, ma abbraccia tutta la casa. La fedeltà è generosa quasi fino a dare l'impressione di essere incomprensibile, irrazionale, assurda... agli occhi di molti anche un po' "stupida".
E questo perché essa sembra portare all'esaurimento: il nardo si consuma sulla carne e nell'aria esattamente così come la vita di Gesù si consumerà sulla croce.
Ma lo "spreco", in realtà, è solo apparente: il profumo, infatti, non è solo per chi lo indossa, ma allieta chiunque passi accanto a chi si è profumato; così la morte di Gesù non è solo meritoria per lui stesso, Figlio fedele al Padre, servo obbediente fino alla morte... ma è una morte che diviene fonte di salvezza tutti per gli uomini.
Ecco il "ritorno", il "guadagno" della fedeltà, quello di cui poi scriverà san Paolo, dicendo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (Cor 9,22).
L'egoismo è il vero spreco che ci toglie il "fiuto" per il guadagno della fedeltà, e la pazienza per aspettarlo... 
Sul legno issato sul Golgota il Maestro sembra porre  termine – quasi come fosse una meteora – alla sua piccola parabola di gloria di quando era stato osannato come un profeta, un guaritore, il Messia. Come il nardo, la cui fragranza finisce con l'evaporare nell'aria al passaggio del tempo, Cristo sembra scomparire nel momento della morte, e la sua chiusura nel sepolcro pare cancellarlo agli occhi del mondo.
Ma la Domenica di Pasqua racconterà un'altra storia: non tutto ciò che sembra invisibile, impalpabile, etereo è destinato a durare per poco, a finire, a essere dimenticato.
Il profumo si imprime sulla pelle, nelle narici di chi lo sente, nella sua memoria: così tanto da poterlo ricordare per anni, forse anche per tutta la vita. Allo stesso modo Dio ha voluto imprimere su di sé la nostra carne umana, diventando uno di  noi; di più: ha voluto imprimere Lui in noi, donandosi fedelmente agli uomini, pegno di una donazione eterna, perché dovunque essi vadano veramente possano dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,22). 

domenica 28 marzo 2021

Pensieri per lo spirito

L'UOMO CHE VENIVA DALLA CAMPAGNA

Meditazioni per la Settimana Santa








 Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo
(Mc 15,21)





La Settimana Santa si apre non solo con l'ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, ma anche con quello, per nulla glorioso, di una figura secondaria che si immette sulla scena della Passione: Simone di Cirene, detto anche il Cireneo. 
Marco ne tratteggia l'identikit in pochissime parole, contenute in una sola frase: tornava dalla campagna, era padre di Alessandro e di Rufo, è costretto dai soldati romani a portare la croce di Cristo. Di questo personaggio minore che fa il suo ingresso, all'apparenza, in modo così rapido da non sentirlo più nominare, la cosa che per prima l'evangelista fa balzare ai nostri occhi è che egli era "un tale" che passava, "un certo" Simone di Cirene. 
È una sorta di spersonalizzazione letteraria, che quasi contrasta con le preziose informazioni che lo stesso Marco fornisce poco dopo. Ma è un espediente che mette in risalto quanto possa variare, a seconda dei punti di vista, il "valore" di un uomo: per i romani, e nel grande gioco della storia, Simone di Cirene è uno qualunque... il primo che passa, quello che capita sotto tiro per risolvere il problema di un condannato a morte (anche lui uno qualunque) che stenta a reggersi in piedi sotto il peso del legno.
Ma per Marco no, il Cireneo non è uno qualunque e per questo ci dice qualcosa di lui, l'essenziale: tornava dai campi, e dunque era allora certamente era uno che curava i propri affari; e poi è padre di Alessandro e Rufo, quindi è uno che ha famiglia, che ha sicuramente per la testa anche il benessere dei propri cari, ed è anche uno del quale qualcun altro si preoccupa...
Forse, quel giorno, il Cireneo rincasava dai campi con la fatica del lavoro caricata sulle  spalle, magari anche col pensiero delle cose da sbrigare nel corso della giornata, e con tante preoccupazioni familiari per la testa. Simone di Cirene lo si può immaginare, in questo senso, davvero come "un tale", quel "certo" Signor X, quell'uno qualunque: uno come noi, una persona normalissima, la cui vita era fatta di fatica quotidiana, impegni ordinari, progetti, ansie per il futuro, amore e aspettative per i propri familiari.
Questo Simone di Cirene, che piomba sulla strada della Croce mentre si sta facendo "i fatti suoi" è improvvisamente costretto a farsi anche "i fatti degli altri": quelli dei romani, a cui nessuno può dire di no; ma soprattutto e principalmente quelli di Gesù, un condannato, uno di cui il Cireneo, nella sua vita di tutti i giorni, avrebbe potuto (e magari anche voluto) benissimo fare a meno. 
Ma non così in quel momento, in cui le loro strade si incrociano; non in quell'istante in cui Gesù è "costretto", dalla spossatezza per le torture già subite, a "lasciare" la croce... e Simone, per la sola "fatalità" di essere passato per quella via, è "costretto" a prenderne addosso il legno. 
Ed è questo il Cireneo che compare e scompare in un lampo, come se in un istante Marco ce ne presentasse la vita per poi identificarlo totalmente con la croce che gli caricano addosso. Ma proprio per questo (e non solo perché ancora oggi ne leggiamo il nome nella Scrittura) Simone di Cirene è un uomo che entra "per caso" nella storia del Figlio di Dio incamminato verso la fine della propria parabola terrena, e diventa l'uomo  associato per sempre alla storia della redenzione.
Perché se Simone è costretto a "impicciarsi" delle cose di Gesù, allora anche Gesù si deve "impicciare" delle sue. Tanto che ancora oggi, noi, per bocca di Marco, ci "impicciamo" di questo signor nessuno, di questo "tale" passato per caso lungo la strada verso il Calvario. L'interesse di Marco è l'interesse di Gesù, e deve diventare anche il nostro interesse per questa figura tanto fugace quanto carica di inviti a riflettere.
La sua è una presenza così discreta da sembrare realmente quella di uno che si può dimenticare in fretta, ma proprio per ed in questo Simone di Cirene ricorda al cristiano il grande mistero della sofferenza in cui la Croce di Gesù è la nostra croce e la nostra croce è quella di Gesù. È il mistero che ci permette di rivedere Gesù nel fratello che oggi porta sulle spalle il pesante legno della prova, nelle sue mille sfaccettature, sapendo che il Figlio di Dio, a sua volta, già ha portato quel legno nella sua Passione e continua misticamente a portarlo anche oggi. È un mistero di identificazione che rende carico di valore ogni dolore umano e che per questo richiede di accostarsi a esso con rispetto, delicatezza, condivisione. Sapendo che l'altro che aiutiamo nel momento della sofferenza, l'altro accanto al quale stiamo, l'altro al quale asciughiamo una lacrima, non è soltanto "uno qualunque", un tale il cui nome non ha importanza, ma reca impresso nella sua croce il nome stesso di Gesù, il sofferente, Colui che si è caricato delle sofferenze di tutti.



giovedì 14 gennaio 2021

Nuova pubblicazione

PREGARE COME DON BOSCO, 
CON DON BOSCO
Due testi




Pubblicazione disponibile su Amazon


Pubblicazione disponibile su Amazon



Il mese di gennaio è tradizionalmente, nelle case e parrocchie salesiane, dedicato a don Bosco. Un santo che ha sempre fatto della preghiera uno dei capisaldi del suo sistema educativo, ma anche e soprattutto della propria vita. La sua era, tuttavia, una preghiera quasi "invisibile": preso dalle mille occupazioni quotidiane a contatto con la gioventù piemontese del suo tempo, per qualcuno don Bosco non avrebbe avuto il tempo per pregare. Questo fu uno dei punti chiave del processo di canonizzazione, ovviamente portato avanti da quello che in gergo tecnico funge da "avvocato del diavolo". 
Il quesito "Quando pregava don Bosco?" si tradusse però alla fine in "Quando, don Bosco, non pregava?", perché nella sua vita tutto era preghiera. 
Questo è un tema che ho affrontato nello specifico nella prima delle due pubblicazioni indicate, attraverso un excursus nella vita del santo, ma anche attraverso delle concrete proposte di preghiera con meditazioni tratti dagli scritti o dalla vita di don Bosco. Si tratta di un volume per chi vuole, oltre che pregare, approfondire l'argomento della preghiera nell'esperienza di don Bosco.
Il secondo testo è invece un triduo, una proposta per chi, durante questo mese, ma non solo, vuole affidarsi all'intercessione di don Bosco, a partire da alcune meditazioni che fanno approfondire il tema dell'accoglienza familiare nelle vicende che vedono protagonista Giovanni Bosco, prima da fanciullo e poi da sacerdote a capo di una nuova famiglia religiosa.

sabato 9 gennaio 2021

Pensieri per lo spirito

UN CAMMINO VERSO L'ALTRO
Riflessioni sul Vangelo della Domenica del Battesimo del Signore (Anno B)



Particolare del Battistero nella Chiesa dell'Immacolata a Catanzaro


 In quel tempo, Giovanni proclamava: 
«Viene dopo di me colui che è più forte di me: 
io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. 
Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». 
Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea
e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. 
E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli 
e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. 
E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: 
in te ho posto il mio compiacimento». 
(Mc 1,711)





Il Vangelo di questa domenica si connota per il dinamismo dei verbi "venire" e "discendere". Sono verbi di movimento, che apparentemente indicano una sola direzione, ma nell'insieme la Parola presenta invece un moto reciproco. Un venirsi incontro, si potrebbe dire. Un andare reciprocamente verso l'altro/Altro che connota la dimensione reale del battesimo.
Inizia Giovanni, che dice di Gesù: «Viene dopo di me colui che è più forte di me».
Giovanni aveva ricevuto anche lui una missione da Dio. Giovanni battezzava, e anche Gesù battezzerà. Ma Giovanni riconosce di non essere il più grande, sa che la sua missione non è per mettere al centro se stesso, ma Dio. Giovanni sa che il suo compito è fare da apripista a Gesù.
È un monito per ogni discepolo di Cristo, e aiuta a ricordare che nessuno di noi è il centro del proprio essere cristiani – figli di Dio –, perché solo Dio deve stare al centro; è anche come un richiamo, sempre utile, all'umiltà. Per quanto Dio possa averci colmato di talenti, carismi e doni, c'è sempre chi è più grande di noi; c'è sempre chi è più avanti nelle vie dello Spirito e fa fruttificare in maggiore pienezza i doni del Battesimo; c'è sempre chi può diventare per noi un modello, una guida, un aiuto. 
A questo primo rimando di Giovanni segue quello rintracciabile nel venire di Gesù: «Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni». In questo cammino terreno di figliolanza ciascuno di noi deve decidersi per Dio, muovendosi verso di Lui. Inizialmente hanno deciso per noi i nostri genitori, quando ci hanno fatto dono del Battesimo attraverso una loro scelta, ma il passaggio all'età adulta ci coinvolge personalmente: siamo noi a dover scegliere se continuare o meno nel cammino di fede.  Un cammino in cui spesso sono altri ad aiutarci, a fare da "tramite", ad avvicinarci maggiormente a Dio. Nessuno di noi, come cristiano, "viaggia" da solo. Abbiamo sempre bisogno di quell'andare "a due a due" che dalla Genesi fino al Vangelo ritorna tante volte nella Scrittura. Siamo figli nel Figlio e figli di un unico Padre, quel Padre che non è solo "mio", ma "nostro", come Gesù stesso ci ha insegnato, ammaestrandoci attraverso una preghiera, quella più bella, che Egli stesso ci ha consegnato. 
Il Battesimo ha/è certamente una dimensione personale, ma non solo: ha/è anche una dimensione comunitaria, perché ci immette in una relazione con Dio che è sì esclusiva, nel senso di unica per ciascuno di noi, ma che può realizzarsi pienamente solo se amiamo Dio (che non vediamo) nei fratelli (che vediamo). Siamo chiamati per amarci gli uni gli altri, come Dio ci ha amati e ci ama. A questo ci invita la consapevolezza del Battesimo ricevuto.
Infine è Dio che opera il suo "venire": «Gesù vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo». Questo accade mentre Gesù compie un'altra azione di movimento: «Uscendo dall'acqua». Quel Dio che ci ha amati per primo, e prima ancora che nascessimo, aspetta e rispetta la libertà dell'uomo per colmarlo sempre più dei suoi doni. Il Battesimo apre la porta del nostro essere allo Spirito, e se decidiamo di lasciarlo agire, uscendo da noi stessi, morendo a noi stessi, accettando di essere fatti "per l'Altro e per gli altri", allora sarà Lui a trasformarci, a darci quanto ci occorre per rispondere al progetto che Dio ha su ciascuno di noi. E avremo la forza di essere veramente figli nei quali il Padre possa riporre il suo compiacimento, figli dei quali andar fiero, nei quali trovare "ristoro", soddisfazione, gioia.