lunedì 31 marzo 2014

TRIDUO A SAN FRANCESCO DI PAOLA - secondo giorno: l'ascetica è forza liberatrice da esercitare verso gli altri


TRIDUO A SAN FRANCESCO DI PAOLA, IL SANTO DELLA QUARESIMA
Secondo giorno: "L'ascetica è forza liberatrice da esercitare verso gli altri"


O Dio, con la vita povera di Cristo, 
Santuario di San Francesco di Paola,  Paola (Cs)




ci hai voluto arricchire dei beni 
celesti: 

concedici che, 
sull'esempio del nostro protettore
san Francesco, 

possiamo vivere col cuore distaccato 
dai beni di quaggiù 

e rivolto sempre ai beni del tuo Regno.

AMEN



Dal libro "Scritti su San Francesco di Paola" di Mons. Giuseppe Morosini:
«La vera forza liberatrice dell'ascesi S. Francesco di Paola l'ha esercitata nei confronti degli altri.
La sua umanità, l'accoglienza esercitata verso tutti, la sensibilità dimostrata verso i problemi e le difficoltà degli altri, sono state frutto di quella purificazione interiore che l'ascesi porta con sé: "Il digiuno rende il cuore contrito ed umiliato", ha scritto nella Regola per i frati.
Il culto dell'umiltà, legato a filo doppio con il digiuno, rende capaci "di essere benigni, modesti ed esemplari", "di onorarsi a vicenda nella carità", "di perdonarsi scambievolmente fino a dimenticare il torto ricevuto": sono le semplici ma grandi racomandazioni lasciate da S. Francesco nelle sue Regole per costruire la comunione nella comunità.
S. Francesco non si tira indietro e accetta la sfida della vita, superando gli spazi angusti della solitudine contemplativa per prendere il largo della storia, interpretando l'incalzare degli avvenimenti come il segno di una missione che Dio gli affida.
L'umile e austero eremita si trasforma in profeta severo, esigente, coraggioso, non disponibile a compromessi.
Il cronista di corte francese nota questa trasformazione, anche se solo da un punto di vista umano: "Si muoveva come uno educato da sempre alla vita di corte"»  
L'ascesi apre il cuore agli altri, rende capaci di stare "meglio" con tutti, trasforma la capacità "qualitativa" dell'essere con Dio e con il prossimo, chiunque esso sia.
Guardando al modello, che è Cristo, si ritrova esattamente in Lui questa capacità di vivere il rapporto interpersonale in maniera molto naturale, spontanea: Cristo sa stare con tutti e così Lo ritroviamo a pranzo con pubblicani, peccatori, come pure dagli sposi di Cana, dagli amici Marta, Maria e Lazzaro, con i Suoi discepoli e con le folle, come nell'episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Gesù Signore sa come relazionarsi con il Padre nella preghiera solitaria, così come in quella collettiva (il Padre Nostro, l'istituzione dell'Eucaristia); è capace di parlare con i capi religiosi del Suo tempo, con i poveri, con i ricchi.
Per ciascuno ha modi, sfumature linguistiche e psicologiche differenti, ma non in base ad un capriccio personale, ma tenendo conto di quanto l'altro necessita per essere avvicinato a Dio, ora con una parola dolce, ora con un rimprovero.
Qual è il "segreto" che nasconde l'ascesi, come rende possibile tutto questo?
Credo che occorra tornare alla derivazione etimologica già chiarita ieri: ascesi-esercizio, esercitarsi.
L'ascesi esercita nella vicinanza sempre maggiore a Dio e, attraverso il distacco dalle cose non necessarie, anche ai bisogni degli altri.
E' in sostanza un progressivo allenamento alla "Verità": più si avanza nel percorso ascetico, maggiormente si percepisce l'intensità e la forza di questa Verità.
Solo in nome della Verità e dalla Verità, l'uomo trova la forza di "denunciare" il male, senza temere di parlare davanti al ricco, al potente, al dotto.
Solo per amore della Verità si impara a stare con tutti, in ogni ambiente, nella certezza di essere tutti fratelli in Cristo, e di avere la responsabilità di condurre a Lui chi è ancora lontano.
Solo attirati dalla Verità è possibile sentire slanci d'amore verso i derelitti, i più poveri, i più abbandonati, chinarsi sulle miserie umane come hanno fatto tanti santi, da S. Francesco d'Assisi al nostro Santo paolano, fino a Madre Teresa di Calcutta.
L'ascesi diventa allora necessario pane quotidiano per tutti, perché solo coltivando in noi uno spazio per l'unica ricchezza, che è la Verità, è possibile imparare a sentirsi sorretti da Dio in ogni ambiente e a portare Lui in ogni luogo, a persone di ogni ceto, a portare l'Amore anche ai non credenti.

  

domenica 30 marzo 2014

TRIDUO A SAN FRANCESCO DI PAOLA - primo giorno: l'ascetica è forza di liberazione


Carissimi amici,
quest'oggi comincia il triduo a San Francesco di Paola, santo a me particolarmente caro, in quanto calabrese.
Per le meditazioni di quest'anno ho deciso di ricorrere ad un testo di Padre Giuseppe Fiorini Morosini, paolano, minimo e attualmente vescovo di Reggio Calabria.
Il tema centrale sarà la "spiritualità quaresimale" in San Francesco, quale spunto di ascetica giornaliera accessibile a tutti noi.
Buona lettura e buona preghiera!




 TRIDUO A SAN FRANCESCO DI PAOLA, IL SANTO DELLA QUARESIMA
Primo giorno: "L'ascetica è forza di liberazione"


O Dio, con la vita povera di Cristo, 
Santuario di San Francesco di Paola,  Paola (Cs)




ci hai voluto arricchire dei beni 
celesti: 

concedici che, 
sull'esempio del nostro protettore
san Francesco, 

possiamo vivere col cuore distaccato 
dai beni di quaggiù e 

rivolto sempre ai beni del tuo Regno.

AMEN
 Dal libro "Scritti su San Francesco di Paola" di Mons. Giuseppe Morosini:

"S. Francesco di Paola è il Santo della quaresima.
E' chiamato così perché ha scelto di seguire Gesù, facendo propri per tutta la vita gli ideali evangelici, che la Chiesa propone durante la quaresima.
Di S. Francesco di Paola si dice che era austero con se stesso, ma umano con gli altri e che era dedito alla contemplazione.
Tre indicazioni che esprimono al meglio il suo mondo interiore e la sua proposta di imitare Cristo.
Egli non fugge, ed è anche in funzione di questo mondo che vive la sua austerità, secondo le parole della Scrittura: Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oprressi e spezzare ogni giogo? (Is 58,6)

L'ascetica cristiana è forza di liberazione, che rinnova l'uomo e lo libera da quei condizionamenti che impediscono di realizzare un rapporto autentico con se stesso, con Dio, con gli altri, con la natura che ci circonda.
Se percorriamo la vita di S. Francesco alla luce di questa verità, ci accorgiamo come egli abbia coltivato in se tale forza e l'abbia dimostrata nei suoi comportamenti".


E' curiosa l'etimologia della parola "asceta": "askètes" da "askèo". "Chi fa gli esercizi"-"esercitare".
L'etimologia ci riporta all'essenzialità della mortificazione implicata dall'ascetica.
Esercitarsi...fare esercizio.
Allenarsi, potremmo dire.
Ma esercitarsi per cosa? Per riuscire bene in quale attività?
La risposta ce la offre questo testo di Padre Morosini: l'austerità cristiana è anche orientata in funzione del mondo.
Questa è stata anche la caratteristica della "grandezza" spirituale di San Francesco di Paola.
Denunciare, non solo con le parole, ma anche con i fatti, l'ingiustizia di un sistema sociale in cui la ricchezza dei nobili era spesso il frutto dell'oppressione dei poveri.
Impegnarsi, concretamente, nel perorare la causa dei più deboli.
Pregare, sorretto da questa forza interiore frutto dell'ascesi, per la pace in un contesto di forte minaccia e di assetti incerti (non va dimenticato che le invasioni turche erano ancora minaccia seria nella Calabria del tempo e che vi erano molti giochi di potere per il possesso sulle varie terre, anche da parte delle potenze che regnavano al Sud).
Dimostrare, con il proprio esempio, che "non di solo pane vivrà l'uomo"....(Lc 4,4)

Come applicare tutto questo nella vita "ordinaria" di un credente?
San Francesco ci lascia questo insegnamento: l'ascesi non è rinchiudersi in una cella "povera", in un convento "povero" ed in un paese "povero", in una preghiera solitaria per chiudere gli occhi sui problemi del mondo.
L'ascesi è vivere rinunciando all' "attaccamento ossessivo" che ci distoglie dalle vere necessità dei fratelli e dalla capacità di denunciare gli egoismi del mondo. 
"Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e, 
vedendo il suo fratello in necessità, 
gli chiude il proprio cuore, 
come rimane in lui l'amore di Dio"? 
(1 Gv 3,17)
San Giovanni ci dà la chiave di lettura di questa prima meditazione su San Francesco: ascetica è anche fare "esercizio" di spoliazione per comprendere quanti vivono ordinariamente quella stessa situazione di mancanza - ma in modo perenne - di un qualcosa che, nella vita, normalmente si dà per scontata.
In questo senso, l'ascesi la si può e la si deve praticare sempre, non solo in quaresima.
In questa ottica, l'ascetica cristiana diviene il mezzo per "aprire" gli occhi sui bisogni dei meno "ricchi" (in tutti i sensi: i meno ricchi di beni materiali, come di quelli affettivi!).
L'ascetica, che ci svuota del non necessario, ci riempie di Dio che è l'unica Vera Libertà e Ricchezza.
Allora sarà possibile, come lo fu per San Francesco, riuscire a toccare il cuore di quanti, vivendo lontani da Dio, schiacciano sotto il loro giogo di potere i più deboli.
Proprio come diceva Sant'Agostino: "con il tuo amore stai rimproverando il vuoto della sua vita".
 

sabato 29 marzo 2014

HUMILITAS ET JUSTITIA.... - riflessioni a margine del Vangelo di oggi -


«Due uomini salirono al tempio a pregare: 
uno era fariseo e l’altro pubblicano. 

Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé:
 “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 
Digiuno due volte alla settimana 
e pago le decime di tutto quello che possiedo”». 

(Lc 18, 11-12)



L'etimologia della parola "umiltà" riconduce fino a "humus" - "terra" e così, già nella sua radice, rammenta di cosa è fatto l'uomo e da dove è venuto Adamo, il nostro progenitore.
La Genesi narra di come Dio lo plasmò  impastando del fango e questo - spaziando fino al "nuovo Adamo" che è Gesù Cristo - dovrebbe aiutare l'essere umano a rimanere veramente "basso", come dice in prima battuta la derivazione etimologica di "umile".

Dio si fa Uomo per fare dell'uomo una creatura "divina", ma in questo mondo nessuno può dirsi già arrivato: "la carne ha desideri contrari allo Spirito" (Gal 5,17)  e la lotta che si ingaggia per la vittoria spirituale dura quanto dura tutta la vita.
 Il primo Adamo e la sua caduta, la misericordia di Dio Padre che invia il nuovo Adamo per redimerci, stanno a significare che il cammino terreno dell'uomo è sempre intriso di questa lotta tra l'uomo vecchio e l'uomo nuovo che è in noi.
Solo l'umiltà consente di trovare il giusto equilibrio per non vivere sui due estremismi dell'autosufficienza e della disperazione.
La prima porterebbe la creatra a credere di non aver bisogno di Dio, dunque di essere già sulle vette delle perfezione; la seconda abbatterebbe l'uomo in una totale sfiducia nella capacità di salvarsi, riducendo Dio ad un Padre che non tenga conto, nel suo giudizio misericordioso, anche della naturale debolezza umana.

Ed è proprio davanti ad un caso di "autosufficienza" che ci pone il Vangelo di oggi : il fariseo che prega contento di non essere "come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano"  vive una spiritualità autoreferenzialista.
Crede di essere "sufficientemente" giusto da potersi concedere il lusso di sostituirsi a Dio: disprezzare gli altri, criticare in cuor proprio il pubblicano, è sostituirsi al giudizio divino, l'unico che "vede" il cuore dell'uomo.
Ma chi è l'uomo veramente giusto?
La Bibbia non disdegna di ricorrere a questa terminolgia, indicando in tal modo che sì, possono esserci, ci sono anzi, degli uomini giusti.
Leggiamo infatti espressioni come:

"se il giusto cade cade sette volte, egli si rialza" (Pro 24,16)

"Davvero sterminerai il giusto con l'empio"? (Gn 18,23)

"Giuseppe, poichè era uomo giusto" (Mt 1,19)


Il Papa Emerito Benedetto XVI-Joseph Ratzinger, nel suo libro "L'infanzia di Gesù" con riferimento all'ultima pericope, scriveva:

"Se si può dire che la forma di religiosità presente nel Nuovo Testamento si riassume nella parola  «fedele», l'insieme di una vita secondo la Scrittura si compendia, nell'Antico Testamento, nel termine «giusto».


Il Salmo 1 offre l'immagine classica del «giusto».

Quindi possiamo considerarlo quasi come un ritratto della figura spirituale di san Giuseppe.



Giusto, secondo questo Salmo, è un uomo che vive in internso contatto con la Parola di Dio; che   «nella Legge del Signore trova la sua gioia» (v.2).

E' come un albero che, piantato lungo corsi d'acqua, porta costantemente il suo frutto.

Con l'immagine dei corsi d'acqua, dei quali esso si nutre, s'intende naturalmente la Parola viva di Dio, in cui il giusto fa calare le radici della sua esistenza.

La volontà di Dio per lui non è una legge imposta dall'esterno, ma «gioia».



La Legge gli diventa spontaneamente  «vangelo», buona novella, perché egli la interpreta in atteggiamento di apertura personale e piena di amore verso Dio, e così impara a comprenderla e a viverla dal di dentro.

Se il Salmo 1 considera come caratteristica dell' «uomo beato» il suo dimorare nella Torà, nella Parola di Dio, il testo parallelo in Gemeria 17,7 chiama  «benedetto» colui che  «confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia».

Qui emerge, in modo più forte che non nel salmo, il carattere personale della giustizia -il fidarsi di Dio, un atteggiamento che dà speranza all'uomo.

Questa immagine dell'uomo, che ha le sue radici nelle acque vive della Parola di Dio, sta sempre nel dialogo con Dio e perciò porta costantemente frutto, questa immagine diventa concreta nell'evento descritto, come pure in tutto ciò che, inseguito, si racconta di Giuseppe di Nazaret.

Dopo la scoperta che Giuseppe ha fatto, si tratta di interpretare ed applicare la legge in modo giusto.

Egli lo fa con amore: non vuole esporre Maria pubblicamente all'ignominia.

Non incarna quella forma di legalità esteriorizzata che Gesù denuncia in Matteo 23 e contro la quale lotta san Paolo.

Egli vive la legge come vangelo, cerca la via dell'unità tra diritto e amore.

E così è interiormente preparato al messaggio nuovo, inatteso e umanamente incredibile, che gli verrà da Dio". 
L'uomo giusto è dunque l'uomo che vive ed applica la Legge di Dio con Amore.
Non a caso, l'etimologia di "giusto" riporta a Justus, da Jus, Legge.
Giusto è chi applica la Legge.
Ma Dio, che è la Giustizia Stessa, il Giusto per eccellenza (e la Bibbia lo sottolinea molte volte!), come esercita il Suo Diritto?
Una bella risposta viene dal profeta Geremia (Ger 23,5-6): 
"Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore -
nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto,
che regnerà da vero re e sarà saggio
ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra.
Nei suoi giorni Giuda sarà salvato
e Israele vivrà tranquillo,
e lo chiameranno con questo nome:
Signore-nostra-giustizia".
 
Spostiamo lo sguardo fin sulla Croce, trono su cui Dio Figlio viene innalzato: la Sua Giustizia viene esercitata come Giustizia di Misericordia!
Il ladrone pentito viene perdonato e per tutti gli altri, si squarcia un velo di Misericordia che non toglie al Padre il giudizio finale, ma lascia aperta una speranza, nel giudizio di un Dio che tiene conto anche delle debolezze umane e che è pronto ad accogliere anche un pentimento dell'ultimo minuto: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno". (Lc 23,34)

Questa è l'applicazione della Legge con Amore di cui ha scritto Papa Benedetto XVI, è quella che ci esorta ad applicare anche Papa Francesco, allorché ci invita a riconoscerci peccatori, ma a non essere corrotti: è la corruzione che veramente ci impedisce la salvezza perché allontana completamente il nostro cuore da Dio e dai fratelli.

L'errore del fariseo è proprio questo: ragiona, agisce, "prega" non da uomo veramente giusto - come uno che ritenga di essere impegnato nella pratica della Legge, ma di poter e dover fare di meglio con l'aiuto di Dio - non come uomo veramente misericordioso verso gli altri e fiducioso nella Misericordia di Dio.
Il fariseo prega una preghiera "corrotta", con cuore corrotto e con parole corrotte.
Ancora una volta ci viene in aiuto l'etimologia: corrotto rimanda ad "alterato, guastato".

Scriveva Papa Francesco-Jeorge Bergoglio in "Guarire dalla corruzione":

 
«I farisei elaborano la dottrina del compimento della Legge fino ad un nominalismo esacerbato che li porta a disprezzare i peccatori.

..."e neppure come questo": 

il corrotto ha sempre bisogno di paragonarsi ad altri che appaiono coerenti con la loro stessa vita (anche quando si tratta della coerenza del pubblicano per giustificare il proprio atteggiamento. 

In fondo, il corrotto ha necessità di autogiustificarsi, anche se non si accorge di farlo».



Il cuore del fariseo è un cuore distorto, non segue veramente Dio.
Pensa di farlo, ma non ha compreso quel Padre che invita a non ritenersi sicuri soli delle proprie forze, ma a confidare in Lui e a non giudicare gli altri.
Il fariseo non applica la Legge: vìola il primo, facendo di sè stesso la divinità giudicante e così facendo viene meno anche al secondo, perché il suo pregare è un nominare invano il nome dell'Altissimo;
vìola il quinto che sentenzia "non uccidere" ed invece egli sta praticamente mandando all'inferno tutti gli altri uomini ed in particolar modo il pubblicano.
Vìola anche il settimo, nella sua menzogna sullo stato della propria anima (e di quello degli altri).
Potremmo dire che, metaforicamente, sta violando anche l'ultimo: il fariseo ritiene di essere cos' santo da potersi appropriare anche del Paradiso al posto di tutti gli altri esseri umani.
Desidera un Paradiso "vuoto" di fratelli e pieno solo del proprio "io".
Il fariseo vive di parole vuote, di quel "Signore, Signore" (Mt 7,21) che non conduce alla salvezza, se non si accompagna alle opere del Padre. 

Oggi il Vangelo ci invita a guardare nei nostri cuori, ad interrogarci sul nostro stile di preghiera che riflette il nostro modo di vivere e di amare-non amare gli altri.
Mettiamo noi o Dio al centro del nostro pregare?
Affidiamo con misericordia i bisogni altrui?
Riconosciamo di avere ancora tanta strada da percorrere verso la santità?

Il Signore ci aiuti a realizzare questa opera di "introspezione" nel segreto del nostro cuore: Egli solo conosce veramente tutto ciò che è occulito forse finanche a noi stessi.
Egli solo può condurci alla vera umiltà che è "procedere nella verità". (Santa Teresa d'Avila, Castello Interiore cap.10, par 7)

venerdì 21 marzo 2014

CHI CONTRO CHI? - riflessioni a margine del Vangelo di oggi -


Il Vangelo di oggi (Mc 21, 33-43; 45-46) ci pone davanti ad uno scenario ancestrale: nella figura di capi dei sacerdoti e farisei che comprendono che Gesù "parlava di loro" è facile, in un certo senso, quasi rivedere lo spettacolo di angeli e demoni che si fronteggiano.
Gesù parla di uomini che uccidono, percuotono, lapidano altri uomini.
Parla infine di uomini che ammazzano senza pietà il figlio del padrone della vigna, per timore di perdere l'eredità che a questi spetterebbe.
E qui, i dotti e pii comprendono che il Maestro si riferisce a loro.

Ci si potrebbe chiedere: di chi sono realmente invidiosi questi sacerdoti e questi farisei? Di un Gesù che è Dio?
Esatto: hanno timore di perdere la "loro" eredità....quelle frange, quei filatteri, quei primi posti nelle sinagoghe a cui tanto tenevano e che in verità, altro non erano, se non la loro ricompensa attuale, quella che toglieva la possibilità di averne una anche in Cielo.

Per questo se la prendono con poi gli uomini di Dio che parlano e agiscono secondo Dio: qualunque mentalità diversa dalla loro, rischia di compromettere quell'insieme di "elementi sociali" che ne facevano una casta importante, ossequiata e soprattutto anche economicamente molto potente.

La storia, se ci si pensa, è vecchia quanto il mondo.
Quando Lucifero si ribella, e dunque diviene il capo dei demoni, ed assieme a lui si scagliano contro Dio anche i suoi angeli caduti, contro chi si pone questa schiera di creature di puro spirito?
Di chi hanno "invidia" i diavoli?

Qualche fonte dice che la caduta degli angeli cattivi fu scatenata dal loro rifiuto alla creazione di creature non puramente spirituali, quali gli esseri umani; quale che ne sia l'origine, i Padri sono però concordi nell'affermare che il peccato di Satana consistette nell'orgoglio di voler essere "come" Dio, non riconoscendo che la loro stessa chiamata all'esistenza non era un "autoproduzione", bensì frutto del volere divino.

Il demonio allora si scatena contro Dio, tanto che non a caso, San Michele, il principe delle Milizie Celesti che difende dal Maligno, porta un nome che significa "Chi come Dio"?
Ma il diavolo si scatena anche contro gli esseri umani: li assoggetta al suo giogo, ne fa schiavi, per spingerli alla perdizione eterna.

Attenzione, sembra dirci il Vangelo di oggi: quando giochiamo al gioco dei farisei e dei falsii pii, non seguiamo Dio, ma Satana.
Quando condanniamo Dio perchè "offusca" quello che noi crediamo di essere e di valere, facciamo ancora una volta il gioco del diavolo, peccando di questo orgoglio malsano che ci fa dimenticare d'essere creature e non Creatore.
Quando uccidiamo, calunniamo,calpestiamo gli altri...non seguiamo la strada del Vangelo che è via di amore vicendevole.
Seguiamo la strada del demonio, che con la falsità attira gli uomini, che finge di essere amico dei suoi seguaci, ma in realtà odia tutti, perché egli stesso è male e odio allo stato puro.

E' un monito forte, questo che oggi ci giunge dal Vangelo... non ci chiede di analizzare la nostra vita solo se abbiamo compiuto grandi imprese o ricoperto ruoli importanti.
Scegliere se stare con Dio o contro Dio è questione di ogni giorno, di ogni attimo, per un credente.
La Quaresima, con questo suo insistere sul concetto di bene e di male, di Dio e del demonio (anche in forme "sottointese", come quella di oggi), vuole spingerci ad un serio esame di coscienza, ad una seria analisi della nostra vita e del nostro modo di operare verso il Signore e verso i fratelli.

mercoledì 19 marzo 2014

SOLENNITA' DI SAN GIUSEPPE



In occasione della solennità di San Giuseppe, vi propongo un testo estratto da un commento al Vangelo del giorno di Mons. Joao Scognamiglio Cla Dias, Ep.
Il testo integrale lo trovate a questo link.
Auguro un sereno onomastico a quanti portano il nome di Giuseppe, estendendo poi gli auguri a tutti i papà!


 O Dio    onnipotente, 
che hai voluto affidare gli inizi della nostra redenzione 
alla custodia premurosa di san Giuseppe, 
per sua intercessione concedi alla tua Chiesa 
di cooperare fedelmente 
al compimento dell'opera di salvezza.

AMEN

GRANDEZZA DI SAN GIUSEPPE ALLA LUCE DEL VANGELO

di Mons. Joao Scognamiglio Cla Dias

  In questi brevi versetti risulta chiaro quanto San Giuseppe è padre legale di Nostro Signore, poiché il santo Patriarca ha esercitato di fatto questo incarico, al punto che, nel Vangelo di San Luca, Maria menziona Giuseppe come padre di Gesù, trovandoLo nel Tempio: “Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo” (Lc 2, 48).
  Infatti, il matrimonio realizzato tra la Madonna e San Giuseppe è stato interamente valido, secondo la Legge. E come ogni matrimonio, essendo un contratto bilaterale, dipendeva dall’assenso di entrambi. 
È anche una verità ammessa da tutti i Padri e teologi che tanto Maria come Giuseppe erano vincolati a un voto di verginità. 
Certamente, Lei gli avrà comunicato questo proposito fatto e lui lo ha accettato, infatti anche lui avrà fatto lo stesso voto, per cui i due hanno concordato di mantenerlo all’interno del matrimonio. 
Pertanto, Lei è stata Vergine con la conoscenza e il consenso del suo sposo, che è rimasto legato per libera e spontanea volontà a questo impegno.
  Come sappiamo, secondo la Legge antica l’uomo diventava padrone della sua sposa, in modo che “la donna israelita costumava chiamare suo marito con i termini baʻal – ‘padrone’ e ‘adôn – ‘signore’, come facevano gli schiavi col loro padrone e il suddito col suo re”.
A partire dal momento in cui i due si sono uniti, San Giuseppe è diventato signore di Maria, di conseguenza, signore di tutto il frutto di Lei. San Francesco di Sales spiega questa situazione per mezzo di una bella allegoria: “Se una colomba [...] porta nel suo becco un dattero e lo lascia cadere in un giardino, non diremmo che la palma che verrà a nascere appartiene al proprietario del giardino? Ora, se questo è vero, chi potrà dubitare che lo Spirito Santo, avendo lasciato cadere questo divino dattero, come una divina colomba, nel giardino ben chiuso della Santissima Vergine (giardino sigillato e attorniato da tutti i lati dal recinto del santo voto di verginità e castità tutta immacolata), la quale apparteneva al glorioso San Giuseppe, come la donna o sposa appartiene allo sposo, chi dubiterà, dico, o chi potrà dire che questa divina palma, i cui frutti alimentano per l’immortalità, non appartenga al grande San Giuseppe?”.
  Per l’Incarnazione era indispensabile che la Madonna concepisse entro le apparenze di un matrimonio umano, al fine di non creare una situazione incomprensibile, che intralciasse
la missione del Messia. Dunque, la gestazione di Gesù nel seno di Maria Santissima aveva in
Giuseppe il sigillo della legalità, in modo da garantire che il Bambino venisse al mondo in condizioni di normalità familiare, al fine di operare la Redenzione dell’umanità.


Il “fiat” di San Giuseppe

  Questa prerogativa di San Giuseppe, della paternità legale del Bambino, brilla ancora con maggior fulgore quando constatiamo che, essendo suo il frutto di Maria, egli avrebbe potuto rifiutare l’invito dell’Angelo nel sogno, ma non lo ha fatto. 
In questo modo, parallelamente al “Fiat!” della Madonna in risposta a San Gabriele nel momento dell’Annunciazione, anche lui ha pronunciato un altro fiat sublime, accettando, con la fede, di essere padre adottivo di Nostro Signore Gesù Cristo.
  Una volta che lui ha acconsentito a mantenere lo stato di verginità e ha accettato il mistero della concezione del Bambino Gesù in Maria, San Giuseppe deve esser considerato, anche, padre verginale del Redentore poiché ha avuto un grande legame con l’Incarnazione, sebbene estrinseco. Egli è stato necessario affinché ci fosse l’unione ipostatica, ed è stata volontà di Dio che partecipasse anche a quest’ordine ipostatico, in forma estrinseca, morale e mediata.



Uno sposo all’altezza della Madonna

  Fatte queste considerazioni, ricordiamoci di un altro principio enunciato da San Tommaso d’Aquino: “Quelli che Dio sceglie per un compito speciale, li prepara e li dispone in modo che siano idonei alla loro missione”.
Infatti, da tutta l’eternità, San Giuseppe è stato nella mente di Dio con la vocazione di essere capo della Sacra Famiglia e per questo è stato creato. Come dice l’Orazione del Giorno della Santa Messa di questa Solennità, a lui sono state affidate “le primizie della Chiesa”.
E ha avuto sotto la sua custodia queste primizie, che sono state il Bambino Gesù e la Madonna. Dobbiamo concludere, allora, che San Giuseppe ha ricevuto grazie specifiche per essere all’altezza della sua missione di sposo e custode di Maria Santissima, e di padre legale e attribuito di Gesù Cristo, ossia, padre di Dio.



Modello di umiltà

  Tuttavia, che cosa traspare riguardo alla personalità di San Giuseppe nei Vangeli? Non consta che fosse loquace, chiassoso o troppo comunicativo. Al contrario, a somiglianza di Maria, Giuseppe si distingueva per la serietà, circospezione e modestia. Certamente seguiva una routine con ore fisse per tutte le sue mansioni e un’applicazione al lavoro notevole per la costanza.
  Ecco un esempio di quanto Dio ami queste virtù e scelga per le grandi missioni coloro che le praticano. 
Per convivere con Gesù e proteggere tutto l’ambiente nel quale Egli avrebbe abitato, al fine di realizzare la più alta opera di tutta la Storia della creazione, la Provvi denza ha preferito due persone, una donna e un uomo, che fossero raccolti, silenziosi e umili…

martedì 18 marzo 2014

TRIDUO A SAN GIUSEPPE - terzo giorno -



TRIDUO A SAN GIUSEPPE - terzo giorno -
La fede condivisa sull'esempio di S. Giuseppe



 O Dio    onnipotente, 
che hai voluto affidare gli inizi della nostra redenzione 
alla custodia premurosa di san Giuseppe, 
per sua intercessione concedi alla tua Chiesa 
di cooperare fedelmente 
al compimento dell'opera di salvezza.

AMEN




Dall'esortazione apostolica "Redemptoris Custos" di Papa Giovanni Paolo II: 


"La fede di Maria si incontra con la fede di Giuseppe. 
Se Elisabetta disse della Madre del Redentore: «Beata colei che ha creduto», si può in un certo senso riferire questa beatitudine anche a Giuseppe, perché rispose affermativamente alla Parola di Dio, quando gli fu trasmessa in quel momento decisivo. 
Per la verità, Giuseppe non rispose all'«annuncio» dell'angelo come Maria, ma «fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa». Ciò che egli fece è purissima «obbedienza della fede» (cfr. Rm 1,5; 16,26; 2Cor 10,5-6).
Si può dire che quello che Giuseppe fece lo unì in modo del tutto speciale alla fede di Maria: egli accettò come verità proveniente da Dio ciò che ella aveva già accettato nell'Annunciazione. 

Di questo mistero divino Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario. Insieme con Maria - ed anche in relazione a Maria - egli partecipa a questa fase culminante dell'autorivelazione di Dio in Cristo, e vi partecipa sin dal primo inizio. 
Tenendo sotto gli occhi il testo di entrambi gli evangelisti Matteo e Luca, si può anche dire che Giuseppe è il primo a partecipare alla fede della Madre di Dio, e che, così facendo, sostiene la sua sposa nella fede della divina Annunciazione. 
Egli è anche colui che è posto per primo da Dio sulla via della «peregrinazione della fede», sulla quale Maria - soprattutto dal tempo del Calvario e della Pentecoste - andrà innanzi in modo perfetto (cfr. «Lumen Gentium», 63)".


Pensare alla coppia "Maria-Giuseppe" in questa ottica di "fede" condivisa, mi fa tornare alla mente tanti uomini e donne che, nella storia bimillenaria della Chiesa hanno condiviso, sostenuto, portato avanti progetti richiesti da Dio in cui poco c'era di comprensibile, umanamente parlando, e tutto era un gettarsi nel volere e nelle richieste di Dio.
Guardo all'opera di don Bosco, sorta "dal nulla":  a nove anni lui sogna quello che sarà, un "educatore di ragazzi, sotto la guida di Gesù e di Maria, in quanto sacerdote. 
E solo a mamma Margherita,  presente a quella piccola riunione familiare in cui racconta il sogno, viene in mente "chissà che tu non abbia a diventar prete".
Più avanti, ormai sacerdote, lo stesso don Bosco vede quello che ancora non c'è: una casa per i suoi ragazzi, una grande Chiesa dedicata a Maria, un bell'oratorio, è sempre Mamma Margherita che molla la campagna, i suoi pochi averi e si fida del "progetto" su don Bosco.
Don Bosco accoglie qualcosa che gli è stato svelato, mamma Margherita ha fede accanto al figlio, in quel "disegno" di Dio.
La storia dei santi è ricchissima di situazioni simili, un po' - con le debite differenze - come quelle di Maria e Giuseppe, laddove uno dei due è il diretto depositario di una rivelazione, di un progetto e l'altro, che pure ne entra a pieno titolo a farne parte, deve quasi fidarsi, oltre che nella propria fede,anche della fede dell'altro!

Questo può essere di sprone a tutti i fedeli ad essere non credenti isolati, ma a professare anche nei fatti, come già si fà nel Credo domenicale, una fede condivisa, in cui ciascuno è supporto dell'altro nei momenti di incertezza, di stanchezza o, semplicemente, di difficoltà.