domenica 20 dicembre 2020

Pensieri per lo spirito

LE PAROLE E IL TURBAMENTO

Riflessioni sul Vangelo della IV Domenica di Avvento (Anno B)



Beato Angelico, Annunciazione di Cortona (particolare, 1430 c.)



 In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
(Lc 1,26-38)





Il Vangelo della IV domenica di Avvento dell'anno B ci riporta indietro rispetto agli eventi narrati nelle precedenti domeniche, ritornando al momento in cui il Natale comincia a prendere forma, in un certo senso, nell'evento dell'annunciazione, quando il consenso di Maria al progetto di Dio rende umanamente possibile l'incarnazione.
La scena è intima, un colloquio a tu per tu fra l'angelo e la Vergine; all'invito alla gioia del primo segue il turbamento di Maria: l'evangelista Luca lo riannoda non all'arrivo della creatura angelica, ma proprio alle parole che egli pronuncia nel salutarla, parole che rivelano un contenuto su Maria e su Dio al di là di quanto Maria stessa potesse sapere, conoscere, intuire di se stessa e di Dio. Sono parole che sottolineano quindi anche la dimensione umana della Vergine, una dimensione di umiltà, di piccolezza non solo in senso relativo (Maria che si sente, che sa di essere piccola) ma anche in senso assoluto (Maria, che pur grande rispetto a tutte le creature, rimane comunque piccola rispetto a Dio, ma viene elevata da Lui). 
È un dettaglio importante per la nostra riflessione, perché rammenta un po' quello che accade anche al credente, quando seriamente si sforza di condurre la propria vita spirituale, senza "tira e molla" con Dio, senza incoerenze (per quanto umanamente si possa), ma certamente con le personali e inevitabili fragilità umane. 
Coltivare la vita interiore fa diventare "sensibili" a quella che normalmente chiamiamo la "voce della coscienza", ma che potremmo anche descrivere come la voce di Dio in noi.  
Ma che cos'è la coscienza? Il Catechismo della Chiesa Cattolica così ne parla, al n. 1776: «Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente parla alle orecchie del cuore. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria».
Sacrario, nucleo segreto, una sorta di "nocciolo", potremmo anche dire. Quello in cui risiede il nostro punto di contatto più profondo fra il nostro io e Dio.
Quando ci si "allena" a sentire questa voce il turbamento, in un certo qual modo, non ha più spazio: diventiamo consapevoli del fatto che davvero la coscienza ci parla, e che in essa il nostro animo può farsi attento e responsivo alla voce di Dio. 
Ma questo non ci rende le cose più facili, perché rimaniamo sempre anche in contatto con la nostra libertà, e perciò con la nostra scelta di renderci o meno docili nel rispondere a quello che Dio ci "suggerisce" di fare o non fare.
Il turbamento, la nostra profonda confusione, la lotta, nascono a volte in noi, ma è un turbamento diverso da quello di Maria, perché il suo è quasi come l'imbarazzo di una giovane timida davanti a un innamorato che ne dichiara le virtù e le bellezze in un modo "sovrumano". Il nostro "imbarazzo" è spesso, invece, il frutto delle nostre "piccinerie" (ben diverse dalla "piccolezza"): non ci riteniamo all'altezza di certe missioni nonostante Dio ci "dica" che si fida di noi; temiamo di metterci in gioco; non vogliamo cambiare i nostri progetti; preferiamo fare soddisfazione maggiore ai nostri egoismi, piccoli e grandi... e quante altre motivazioni si potrebbero ancora elencare!
E così facendo, dando ascolto non alla voce della coscienza-voce di Dio, ma alla nostra personale voce, lasciamo cadere nel vuoto quell'annuncio di cose nuove, di progetti "altri" che Dio ci chiede di attuare, anche nelle piccole cose di ogni giorno. 
Perché il turbamento di Maria si risolve all'assicurazione dell'angelo su ciò che Dio farà in lei; il nostro, invece, spesso non svanisce perché, anche se diciamo di non fidarci di noi stessi, in realtà non ci fidiamo davvero, totalmente di Dio, che può condurci fuori dalle nostre "piccinerie" per farci grandi pur rimanendo "piccoli"!
Sta sempre dunque sempre a noi affinare non solo la capacità di udire la voce di Dio, ma anche quella di dire continuamente il nostro ogni volta che Egli irrompe nella nostra vita con i suoi "annunci." Solo così risponderemo veramente al suo progetto e non perderemo la capacità di avere orecchi capaci di sentire, in maniera sempre più affinata, quanto Egli ci chiede. Solo così potremo essere, come Maria, strumenti, servi del Signore, per il bene nostro e di quanti ci circondano. 
Solo così, facendo della nostra vita quotidiana un "annuncio ben risposto", avrà veramente senso celebrare il Natale come ricordo del "nuovo annuncio" per eccellenza, come inizio "storico" della Buona Novella che in Gesù si è fatta carne.

sabato 12 dicembre 2020

Nuova pubblicazione

COME UN SOLE CHE SORGE IN ETERNO

Novena di Natale







I passi del Vangelo che ci accompagnano ogni giorno dal 16 al 24 dicembre offrono l’occasione, attraverso diverse figure ed espressioni, per riflettere su come Dio ha scelto di manifestarsi agli uomini, dando al mondo la vera luce, 
il sole che sorge, l’astro che rifulge: Gesù, il Salvatore.
Questi brani, però, non ci parlano solo del Bambino nato in una grotta, o dei personaggi che lo attorniano nella storia che lo precede, ma raccontano anche qualcosa di noi, credenti in cammino verso di lui che, a sua volta, procede verso di noi.
L’incontro fra noi e Gesù ci narra, infatti, anche del credente, di come egli possa vedersi alla luce di questo Bambino che viene per portare a compimento il progetto di salvezza di Dio. Se ci lasceremo veramente toccare da questo incontro il nostro amore verso Dio sarà eterno e fedele come il suo. In questo modo sarà Natale tutti i giorni: compimento della promessa antica e sorgere del sole che ci illuminerà qui, ora e per sempre.

N.B. La novena, pensata per una celebrazione comunitaria, può comunque essere facilmente adattata anche per uso personale.

La novena è disponibile in formato E-book su Amazon.

martedì 8 dicembre 2020

Pensieri per lo spirito

          MARIA IMMACOLATA: TRASPARENZA DI DIO



Nelle immagini dell'Annunciazione spesso i pittori inseriscono una finestra attraversata dalla luce: finestra e luce sono elementi chiave, simbolici: un rimando all'Incarnazione che ha luogo nel purissimo grembo di Maria, grembo attraversato dalla potenza di Dio. 
Rincorrevo più o meno questi pensieri quando, qualche mese fa, mi trovavo nella Basilica dell'Immacolata di Catanzaro. Nello scattare alcune foto l'apparire iniziale di quel riflesso mi era sembrato un elemento "indesiderato", di disturbo. Ma nel ricomporsi dell'intera immagine, man mano che mi muovevo alla ricerca di una migliore visuale, esso si è trasformato in un'occasione da sfruttare, in un segnale da recepire, in un elemento che mi diceva dell'altro.
Tante volte siamo portati a vedere l'irrompere di Dio nella nostra vita come un ostacolo ai nostri progetti, ai nostri modi umani di pensare e agire.
Scriveva Benedetto XVI: «Maria Immacolata ci parla della gioia, quella gioia autentica che si diffonde nel cuore liberato dal peccato. Il peccato porta con sé una tristezza negativa, che induce a chiudersi in se stessi. La Grazia porta la vera gioia, che non dipende dal possesso delle cose ma è radicata nell’intimo, nel profondo della persona, e che nulla e nessuno possono togliere. Il Cristianesimo è essenzialmente un “evangelo”, una “lieta notizia”, mentre alcuni pensano che sia un ostacolo alla gioia, perché vedono in esso un insieme di divieti e di regole. In realtà, il Cristianesimo è l’annuncio della vittoria della Grazia sul peccato, della vita sulla morte. E se comporta delle rinunce e una disciplina della mente, del cuore e del comportamento è proprio perché nell’uomo c’è la radice velenosa dell’egoismo, che fa male a se stessi e agli altri» [1].
Maria Immacolata è sempre stata – e sempre sarà – quella finestra di vetro cristallino che non oppone mai resistenze a Dio, ma lo lascia entrare nella propria vita, per farsi illuminare, ma anche per illuminare "di Lui" e per lasciar vedere Lui a chiunque le si avvicini. Questo mi diceva la vetrata della chiesa riflessa sul vetro della nicchia. La Madonna sembrava quasi, circondata dal mosaico che riveste le pareti della nicchia stessa, ritta in preghiera in un angolo della sua casa, in un dialogo con Dio fatto di ascolto e confidenza... così come la si potrebbe immaginare al momento dell'Annunciazione, così come alcuni pittori la colgono, sorpresa ma calma all'arrivo dell'Angelo, animata da un colloquio con il divino improntato alla totale serenità, perché imbastito con il filo della fiducia assoluta.
L'Annunciazione, nell'Immacolata, avviene, in un certo senso, ogni giorno: sempre Maria rinnova il proprio sì a Dio; sempre Maria accoglie in se stessa la Parola del Signore; sempre Maria ripete all'Altissimo: "Eccomi. Si compia in me la tua parola. Sono la serva del Signore".
Il messaggio che consegna a ogni credente è, allora, quello di impegnarsi quotidianamente a essere come lei: trasparenza di Dio, finestre di vetro cristallino che si lasciano attraversare, avvolgere dalla benefica luce del Dio-Amore; finestre attraverso cui mostrare agli altri prospettive di panorami "divini", di quel mondo che non è di questo mondo, ma che già qui impariamo a costruire, giorno dopo giorno, con lo stesso amore che ci ha messo lei, la Tutta Santa, la Tutta Pura, la Tutta Bella.

Buona festa dell'Immacolata!


[1] Benedetto XVI, Discorso, 8 dicembre 2012.

sabato 3 ottobre 2020

Arte e fede

   CATTEDRALI GOTICHE D'EUROPA

Una nuova rubrica sul sito di NPG





 
La cattedrale di Notre-Dame di Reims - Ph Reno Laithienne - Unsplash

Sulla Newsletter e sul sito di Note di Pastorale Giovanile comincia una nuova "serie" di pdf per una pastorale giovanile attraverso la "via della bellezza". Questa volta vi porterò in giro per l'Europa a visitare alcune delle più belle e importanti cattedrali gotiche, veri e propri "merletti in pietra" o "grattacieli di Dio", come alcuni studiosi le hanno ribattezzate. 
Sarà un viaggio nella luce, nell'armonia e nella bellezza grazie alla quale i maestri gotici volevano condurre – e lo fanno ancora oggi – alla conoscenza di una realtà "altra": 
quella di Dio e della sua Grazia.  

Qui il link per seguire.

sabato 26 settembre 2020

Pensieri per lo spirito

  L'OGGI CHE VALE UN'ETERNITÀ

Riflessioni sul Vangelo della XXVI Domenica del T.O.




Ph Boudewijn “Bo” Boer - Unsplash


 Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: 
«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. 
Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. 
Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. 
Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». 
Risposero: «Il primo». 
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute 
vi passano avanti nel regno di Dio. 
Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto;
i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. 
Voi, al contrario, avete visto queste cose, 
ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli». 
(Mt 21,28-32)





Il Vangelo della XXVI settimana del tempo ordinario propone ancora il tema "della vigna" in cui essere operai. Ma stavolta Gesù-Maestro, pedagogo dello spirito, riempie l'argomento di sfumature nuove, per condurre gli ascoltatori a un livello nuovo nella comprensione del Regno.
«Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna», dice il padre ai figli, e in quell'oggi sembra risuonare ancora una volta la parola ascoltata domenica scorsa, quando il padrone era uscito per cercare lavoratori da prendere «a giornata» (Mt 20,1).
In sottofondo alla parabola c'è allora il tema del "tempo" che sembra cristallizzarsi nella dimensione così "breve" (o così "lunga) della giornata, dell'oggi
Da una parte potrebbe spaventare questo senso di "precarietà", di incertezza di un lavoro che per oggi c'è ma domani? E dall'altro questo concetto sembra rimandare anche all'idea della pena che accompagna ogni giorno, della fatica che il lavoro richiede.
In una rilettura "unitaria" del Vangelo sembrano però risuonare due parole di Gesù, che vanno però nella stessa direzione. 
La prima: «A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6,34). 
È inutile affannarsi per il domani, l'importante è impegnarsi qui e adesso, senza pensare alle fatiche del domani. Lavorare è difficile, richiede dedizione, sudore, concentrazione, e quando si lavora nel campo di un altro, in una vigna che non è la propria... è ancora più difficile. Ci si potrebbe far prendere da tanti pensieri sbagliati: l'invidia per la ricchezza altrui, l'indifferenza per il lavoro stesso, la brama del solo guadagno, il desiderio di imbrogliare. È qui che Gesù cerca di far fare un passo avanti a chi lo ascolta: non siamo più davanti a un padrone e ai suoi operai (come nel Vangelo della XXV domenica) ma davanti a un padre con i propri figli. Come in una progressione, la Liturgia della Parola mostra che Dio non è semplicemente un "padrone giusto" che fa delle sue cose quello che vuole, che ricompensa chiunque lavori, anche solo per poche ore, nella sua vigna. Dio è un Padre e chiede di collaborare con Lui nel lavoro dell'amore. Il padre di questa parabola non dice infatti :«Va' a lavorare nella MIA vigna», ma semplicemente «Va’ a lavorare nella vigna”» (v. 28). Non dice nemmeno "nostra", perché da ciascuno dei suoi figli della  dipende il sentirla come "propria". 
Così è anche per ogni discepolo: solo quando davvero ci si sente "a casa di Dio" in qualunque luogo ci si trovi (perché tutto è vigna, tutto è campo in cui agire da cristiani) allora si può rispondere positivamente alla domanda di andare a lavorare, e il lavoro non sarà più un'imposizione, un comando strano (perché a lavorare ci potrebbero andare i servi, non i figli!), ma quel giogo dolce che Gesù stesso ha voluto portare sulle sue spalle, venendo a lavorare nella vigna del Padre. Qui sta la seconda parola di Gesù che sembra essere richiamata dal Vangelo di questa XXVI domenica: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,29-30). 
Questo giogo, questo "dolce" impegno dell'amore da costruire insieme a Dio, si può decidere di portarlo da subito, oppure si può all'inizio dire di no, o avere quelle giornate in cui la risposta all'invito a lavorare "oggi" diventa negativa, nonostante il cammino fatto... ma Dio è un Padre paziente, che sempre aspetta il sì dei suoi figli, che sempre attende che essi, con umiltà, con l'umiltà imparata dal Figlio Unigenito, tornino sui propri passi e vadano a lavorare nella vigna. 
Per oggi, per quell'oggi da costruire giorno dopo giorno, nella consapevolezza che il futuro si gioca adesso, nel momento presente. 
Un momento che può valere un'eternità.

sabato 22 agosto 2020

Pensieri per lo spirito

 LA VOCE DELLO SPIRITO

Riflessioni sul Vangelo della XXI Domenica del T.O.






 In quel tempo, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». 
Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». 
Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 
E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 
A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». 
Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.
(Mt 16,13-20)





«È la voce del sangue»: lo si dice spesso per indicare quel misterioso, ma reale, concreto legame che ci unisce alle persone della nostra famiglia; un richiamo, un affetto istintivo che ci porta verso quelli che sono i nostri genitori, figli, parenti... Una voce che chiama anche quando non si sa che qualcun altro abbia effettivamente con noi un legame parentale, perché il sangue – simbolo di vita, simbolo di ciò che ci è stato trasmesso con la nascita – "chiama" il proprio stesso sangue, ci attira verso coloro ai quali "apparteniamo" e che ci "appartengono".
Anche nella relazione col Padre – in quella famiglia spirituale, ma non per questo meno reale che formiamo con Dio – questa voce del sangue esiste e chiama gli uomini: è la "voce dello Spirito" che parla dentro di noi, che ci spinge verso la Verità, verso l'unico vero Dio.
È anch'essa a volte una voce misteriosa, che agisce nell'io umano in maniere altrettanto misteriose, che non si possono spiegare solo a parole, solo con la ragione, solo con calcoli matematici. Ma se il nostro DNA spirituale è quello di esseri creati a immagine e somiglianza di Dio (come la Bibbia ben sottolinea fin dalle prime pagine della Genesi), allora sì, questo patrimonio genetico "comune" fra noi e Dio si manifesta nello Spirito che parla in noi, e che cerca di illuminarci sul nostro legame con Dio stesso, sulla sua volontà su di noi, sulla via da seguire nell'esistenza di ogni giorno.
A volte si tratta di una voce soffocata nell'irrequietezza della vita, in cui cerchiamo di trovare la felicità e l'appagamento in cose lontane da Dio (e come non ripensare all'esperienza di un sant'Agostino!); a volte è una voce debole perché siamo ancora attaccati ai nostri modi di agire, pensare, vivere e fatichiamo a seguire altre rotte; altre volte è una voce che pian piano iniziamo ad ascoltare e seguire perché cominciamo veramente a credere e a fidarci di quello che ci dice e di Colui a cui ci conduce; spesso, però, proprio come succederà a Pietro, è una voce che ascoltiamo, che "abbracciamo" nell'impeto del momento, anche con una certa risolutezza, ma che poi non manchiamo di rifiutare, andando così incontro al "tradimento" verso Dio, alla caduta, allo sconforto... 
Ma come la voce del sangue non cessa di intonare il suo richiamo, così anche quella dello Spirito rimane sempre in noi e continua a parlarci, dandoci la speranza di poter riconoscere sempre, nonostante tutti i nostri sbagli e le nostre debolezze,  che c'è un Padre che ci ha chiamati alla vita e che ci vuole vivi per sempre... e che sempre può essere il momento giusto per chiedergli perdono, per rialzarsi e ritornare a Lui, per continuare ad approfondirne la conoscenza e per amarlo sempre di più.
Proprio come accade a Pietro, che prima riconosce il Dio vivente e il suo Figlio, e poi lo rinnega... allora vedremo le sue lacrime, il suo pentimento, il riconoscimento della sua indegnità dinanzi a Cristo. E Gesù, il Figlio Unigenito del Padre, Colui che più di tutti ha riconosciuto e ascoltato la voce dello Spirito-la voce del sangue, sarà ancora lì, accanto a lui, a confermargli l'incarico affidatogli come capo della Chiesa nascente.
Perché «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,9) e così l'uomo rimane sempre figlio di Dio nel Figlio prediletto... 
A ciascuno di noi la libertà di riconoscersi figli di Dio e poi di non "rinnegare" il Padre, che senza nostro merito, ci ha amati per primo, ci ha chiamati alla vita, si è reso "Padre per sempre".

sabato 15 agosto 2020

Pensieri per lo spirito

BRICIOLE DI PANE... 
GRANELLI DI FEDE
Riflessioni sul Vangelo della XX Domenica del T.O.






 In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. 
Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». 
Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! 
Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.  
(Mt 15,21-28)




Briciole di pane... granelli di fede. 
Il discorso della Cananea sembra rispondere alla richiesta di Gesù: che gli uomini abbiano una fede grande quanto un granello di senape per compiere grandi cose (cfr Lc 17,5). E non perché la fede debba essere "poca", ma perché essa sia "senza presunzione". Perché sia la fede umile di chi non cerca un Dio che fa tutto ciò che vuole l'uomo, ma che riconosce chi è Dio, affidandosi a Lui e fidandosi totalmente di Lui... qualunque cosa Egli faccia.
«Pietà di me» e poi «Aiutami», dice la donna a Gesù. Prima «pietà» e poi «aiuto», perché è un atto dovuto (a ben pensarci) il riconoscersi bisognosi della misericordia, della compassione di Dio. E perché, in fondo, è questo quello che Dio è: il compassionevole, Colui che "patisce con" l'uomo, Colui che salva facendosi carico con l'uomo dei dolori dell'uomo. 
Ecco il miracolo più grande della fede: vedere Dio, scoprire in Lui la compassione fattasi carne in Gesù. Capire questo è comprendere che allora tutto l'aiuto che viene da Dio non è ne poco né molto: è tutto ciò che serve... o, più semplicemente, è tutto. Una briciola può essere poca in se stessa, non è tutta un pane... ma è pur sempre pane, e come un pane intero ne è fatta della stessa sostanza, ne ha le stesse proprietà, la stessa consistenza, lo stesso sapore. 
La parte per il tutto, il piccolo per il grande... come se Gesù ci dicesse di non guardare alla quantità, ma alla qualità, perché lì sta l'essenza. La Cananea lo ha compreso: non è una donna che "si accontenta", ma una donna che sa chi ha di fronte, che si fida totalmente di Dio. Una briciola della sua misericordia è tutto per l'uomo, e tutto può può operare, trasformare, migliorare.
Questo è accostarsi a Dio senza presunzione sapendo che Egli, quando dà, in realtà dà tutto se stesso, proprio come in ogni briciola di pane eucaristico Egli è interamente presente, dono per ognuno di noi, grande nel piccolo, divino nell'umano, eterno nel finito.

sabato 8 agosto 2020

Pensieri per lo spirito

 «SE SEI TU»!

Riflessioni sul Vangelo della XIX Domenica del T.O.



[Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».
(Mt 14,22-33) 




«Se sei tu»: è qui, in queste tre parole, che si racchiude tutta la paura dell'uomo nei confronti di Dio. Un Dio che nessuno ha mai visto con i propri occhi nella sua nuda e cruda essenza, ma che anche gli stessi discepoli, i contemporanei di Gesù, hanno potuto ascoltare, osservare e toccare nelle sembianze di uno di loro, di un uomo come tutti noi.
Se Dio fosse apparso nella sua magnificenza dell'Altro da noi, nella sua, cioè, totale diversità da ogni cosa creata, sarebbe stato facile, immediato (probabilmente) credere in Lui, fidarsi di Lui, riconoscerlo come Dio.
Ma Egli si presenta invece nell'ordinario della creazione, apparentemente in forma altrettanto ordinaria. È questo che spaventa l'uomo, presentandogli la necessità del "salto nel buio" che la fede richiede.
Quelli che hanno a che fare con Gesù, con l'Uomo-Dio, a un certo punto si trovano davanti all'improrogabile esigenza di balzare giù dalla barca, affrontando il buio della sera, e camminare a luci spente verso Dio. Il progresso verso qualcosa – cioè il progredire, l'avanzare avanti – richiede di rischiare, perché senza rischio non c'è, in verità, sicurezza.
La fede, in fondo, spesso è questo: camminare anche quando non ci si vede bene, lasciando che solo Dio (che parla nella Scrittura, nell'Eucaristia, nei fatti della vita, nella nostra coscienza) sia veramente la lampada al nostro cammino. Accettare di rischiare in nome di qualcosa che non possiamo toccare concretamente con mano, ma a cui crediamo, in cui investiamo, su cui poggiamo... per raggiungere qualcosa di grande, di eterno, di bello, che altro non è che Dio stesso.
Non è allora il mare a spaventare Pietro, non sono le cose che si possono incontrare in questo salto nel buio a terrorizzare gli uomini.
È quell'incertezza sulla meta che a volte ci prende, l'insicurezza matematica dell'esistenza di Dio, il pensiero che alla fine si possa rimanere "a bocca asciutta" a spaventarci a morte, e a rischiare di farci affondare.
In sintesi, è il dubbio sull'esistenza di Dio, sulla vita dopo la morte, sul Paradiso, che alimenta le nostre paure, quel dubbio che come un tarlo a volte si presenta nelle difficoltà dell'esistenza, davanti al dolore innocente, alle catastrofi mondiali.
È il dubbio come resistenza personale prima di lasciarsi andare per credere con la ragione, ma oltre la ragione, ogni volta di nuovo, è la domanda che il Battista fa riferire dai propri discepoli a Gesù, mentre è in carcere, prima di donare la vita per amore della Verità: «Sei tu colui che deve venire o ne dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3).
È il dubbio come incomprensione e timore dinanzi al mistero di qualcosa che a volte ci fa dire, come dicevano quelli che insultavano il Cristo crocifisso: «Salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!» (Mt 27,40) ... perché vorremmo che la risposta di Dio al dolore (nostro e altrui) fosse immediata, come in un gioco di prestigio, dimenticando che il mondo, per volere di Dio, è retto da leggi di libertà, perché l'amore non può che essere libero per essere vero.
Ed è in questa libertà che Gesù stesso è stato messo alla prova, come uomo, nel suo rapporto con Dio. «Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane; Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù» (Mt 4,3;5): con queste parole il demonio lo tenta nel deserto. È una tentazione grande, sulla stessa identità di Gesù come Figlio del Padre, come Salvatore. È la tentazione di voler vedere Dio come il mago dei miracoli, il prestigiatore che cambia le cose per il meglio con un tocco della sua bacchetta.
Ma Dio non è un aggiustatutto secondo le nostre regole. Dio non cambia il mare che dobbiamo attraversare, ma ci dona la forza di percorrerlo, ci aiuta a compiere la traversata. Questo è il miracolo di Pietro che cammina sulle acque. Questo è il miracolo di un Dio che ci tende la mano, quando stiamo affondando fra i problemi e i dolori della vita, e ci aiuta ad andare avanti, nonostante tutto, verso la meta. Non da soli, ma insieme. Insieme a Lui.

domenica 2 agosto 2020

Pensieri per lo spirito

IL RISTORO DELLO SPIRITO
Riflessioni sul Vangelo della XVIII Domenica del T.O.







Avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui». E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.  
(Mt 14,31-21)




Ordinò alla folla di sedersi sull'erba. Ordinò loro di riposarsi. Ordino loro di stare attorno a lui. Ordinò loro di ristorarsi.
Gesù non ordina alla folla di seguirlo, sono invece le persone, di loro spontanea iniziativa, ad andargli dietro... forse nella speranza di ascoltare la sua parola così diversa da quella di tutti gli altri, forse nell'aspettativa di qualche miracolo. E Gesù, sentendo compassione, veramente sazia il desiderio di guarigione di queste persone, sanandone i malati.
Quando si fa sera, quando tutto sembra finito, quando pare che Gesù non debba più fare niente per loro... quelle persone, però, decidono di rimanere. Sono evidentemente come attratte da una forza misteriosa che si sprigiona dal Cristo. Cos'altro si potevano aspettare da Lui, infatti, questi cinquemila uomini (senza contare le donne e i bambini)? 
Forse niente, forse semplicemente volevano "rimanere" ancora con Lui, restare insieme, esprimendo così la loro 
gratitudine, attraverso questa inconscia modalità che li tiene come "incollati" a Gesù, incapaci di ritornare nelle loro case perché "grati", cioè pieni di affetto per Colui che ha elargito tanto bene nei loro confronti.
Com'è strano questo Uomo-Dio, che non impone, ma lascia agli uomini la libertà di seguirlo per ascoltarlo, ma poi comanda a questa folla di mettersi a sedere, di riposarsi, di mangiare!
E d'altronde, non è la prima volta che lo fa! «Venite in disparte e riposatevi un po'» (Mc 6,31) aveva detto ai suoi discepoli, stanchi per la missione fra la gente.
Questo Dio così umano sa che l'uomo è fatto di entusiasmo e stanchezza, di vigore e di debolezza, di forza e di delicatezza; questo Dio così umano è quel Dio per mezzo del quale tutto è stato creato, istituendo però il settimo giorno come giorno del riposo dopo tutte le opere che aveva realizzato.
Riposo: è quello che si fa dopo un'attività intensa, che ci ha stancati, che ci ha fatto spendere energie mentali e fisiche. E perché Gesù, allora, invita la folla a riposare dopo aver beneficiato dei suoi miracoli?
Perché seguire Gesù per tutto il giorno, come lo hanno seguito questi uomini, donne e bambini (ciascuno con la propria storia di malattia, resistenza fisica e delicatezza di costituzione) è stancante per l'uomo, anche quando egli si rende conto dei tanti benefici che Dio opera nei suoi confronti; perché la sequela, quando è vera, è impegnata e impegnativa, cioè faticosa: richiede davvero di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente (cfr. Mt 22,37), di prendere ogni giorno la propria croce per seguire Gesù (cfr. Mt 10,38), di mettere mano all'aratro senza voltarsi indietro (cfr. Lc 9,62), qualunque sia lo stato di vita che abbiamo abbracciato.
La sequela è uno "sport", un'allenamento continuo che fa... bruciare molte calorie! San Paolo più volte, nei suoi scritti, parla addirittura di una "corsa" da portare avanti fino al traguardo, per essere ricompensati con il premio. Ma ogni bravo sportivo sa che non si può andare avanti nell'allenamento costante senza un'adeguata alimentazione.
Così Gesù, il nostro "coach" dello spirito, sa che senza ristoro non possiamo proseguire nella sequela, cammino spesso in salita perché pone l'uomo in lotta costante contro le proprie inclinazioni "sbagliate", contro i propri difetti, contro le vicende storte della vita. La buona battaglia di cui parla san Paolo (cfr. 2Tm 4,8), ma anche, rimanendo sempre sul linguaggio paolino... una sorta di incontro di boxe (cfr. 1Cor 9,26) in cui cerchiamo di mettere Ko tutto quello che ci allontana da Dio.
Il ristoro che Gesù offre, però, non è un allontanarsi da Lui. Gesù non va via mentre i discepoli sfamano la folla. Gesù rimane con tutti loro. Ristorare lo spirito non è staccare una spina per attaccarne una diversa, è semplicemente un modo diverso di stare con il Maestro; non è un "perdere tempo", ma un impiegare diversamente il tempo. È ritagliare lo spazio per la meditazione, per la lettura della Scrittura, per la preghiera personale. È ritagliare il tempo per stare "cuore a Cuore" con Gesù, nel segreto della propria stanza e della propria anima. È parlare con Lui, raccontagli i nostri problemi, le nostre ansie, le nostre speranze, le nostre difficoltà. È cercare il confronto e il conforto in un amico che ci aiuta a camminare nella vita interiore; è fare silenzio dalle attività apostoliche per ritemprarsi in un incontro ancora più intimo con il Signore. È, ultimo ma non ultimo, l'incontro con il Signore vivo e vero nell'Eucaristia, il vero pane che sazia la fame dell'uomo e lo prepara all'incontro definitivo con Lui che avverrà oltre il tempo e lo spazio, dandogliene un anticipo, una caparra, un assaggio.
Riposo è allora vivere le parole del Salmo 131,2: «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia».

Ordinò loro di sedersi. E lo ordina anche a noi, ogni giorno, ogni volta che siamo stanchi, sfiduciati o dubbiosi, confusi sul da farsi. 
Perché solo in questo ristoro possono sedarsi i dubbi, le paure, le crisi; solo in questo ristoro si può ritrovare l'energia necessaria per ripartire e continuare a correre, protesi verso la meta, senza voltarsi indietro, sempre sicuri di ritrovare, ogni giorno, fosse anche solo nella stanza del nostro cuore, quel prato verde su cui sedersi, per stare accanto a Gesù, riposando in Lui.

sabato 25 luglio 2020

Pensieri per lo spirito

IL TESORO NELLA MATRIOSKA
Riflessioni sul Vangelo della XVII Domenica del T.O.






«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». 
(Mt 13,44-52)




Campo, mercato, mare, casa: Gesù sembra dare delle precise coordinate "spaziali" che definiscano l'area in cui si trova il "Regno". Ma si tratti di "luoghi" che diventano metafora di un concetto che anche altrove il Maestro ribadisce: il Regno di Dio è in mezzo a noi, dovunque noi siamo. È nelle nostre realtà, quelle che quotidianamente abitiamo, nelle realtà concrete che ci ospitano. Gesù usa parole che parlano il linguaggio del nostro mondo reale, delle situazioni che conosciamo, dei terreni che abitiamo. Campo, mercato, mare, casa. Realtà che parlano un linguaggio a noi ben noto, il linguaggio della vita che si dipana nella crescita del seme, nello scambio che è di commercio e di culture, nelle acque che sono fonte di vita e spazio del viaggio, nella casa che è l'ambito degli affetti, della sicurezza, del riposo, della gioia.
Sembra tutto quasi organizzato come in una matrioska: il Regno è nel mondo, passa attraverso le diverse situazioni in cui noi lo "abitiamo" e così – per analogia ed estensione – si può concludere dicendo che, come il tesoro sta nel campo e la rete raccoglie i pesci solo quando è gettata nel mare, così il Regno è nella nostra anima che è nostro più intimo terreno, luogo in cui "trattare" con noi stessi per compiere il bene, mare in cui il supremo Pescatore getta la rete per raccogliere pesci buoni...
Scegliendo di incarnarsi, Gesù non ha fatto che mostrare realmente come il Cielo e la Terra siano profondamente legati; quanto questo mondo transitorio e quello futuro ed eterno siano interconnessi; come la realtà spirituale e quella materiale non siano in contrapposizione, a meno che noi non li facciamo entrare in conflitto. Il mondo e noi stessi conteniamo già il Regno, ma esso è nascosto, sepolto sotto molte cose: il male che impedisce di vederlo, gli egoismi, le difficoltà, le distrazioni...
Se sappiamo cercare e "comprare" il campo che contiene il tesoro, se sapremo ciò "padroneggiarlo" per quello che ha di buono, senza puntare a ciò che in esso e negativo e senza farci dominare da esso, allora potremo portare quel tesoro – il Regno – dovunque noi andremo e in questo modo potremo attuare la vera "rivoluzione" che ogni cristiano dovrebbe realizzare: quella di vivere da veri figli di Dio, da "buoni pesci" che alla fine saranno riconosciuti tali per aver operato animati dall'amore di Dio. Perché l'amore è quel tesoro che non si esaurisce mai, da cui si possono trarre sempre cose nuove, in cui non ci si può stancare, annoiare, perdersi... perché «l’amore» – come dice papa Francesco – «per sua natura è creativo», e, fa eco san Paolo, «la carità non avrà mai fine» (1Cor 13,8).

sabato 18 luglio 2020

Pensieri per lo Spirito

COME CRISALIDI
IN ATTESA DI DIVENTARE FARFALLE
Riflessioni sul Vangelo della XVI Domenica del T.O.





 In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo:
«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme
nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, 
seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 
Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 
Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: 
“Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? 
Da dove viene la zizzania?”. 
Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. 
E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. 
No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, 
con essa sradichiate anche il grano. 
Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura 
e al momento della mietitura dirò ai mietitori: 
Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; 
il grano invece riponètelo nel mio granaio”». 
(Mt 13,24-30)

Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli 
è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto,
è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, 
tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
(Mt 13,31-32)




La parabola del grano e della zizzania di primo acchito può trarre in inganno, facendoci sembrare che Gesù sia semplicemente preoccupato di salvaguardare il grano buono... ma una lettura più approfondita di questi versetti fa invece risaltare la grande misericordia di Dio anche e proprio nei confronti di quella che al momento presente sembra la zizzania del campo! Dio, infatti, non fa nulla anzitempo, ma lascia a ogni uomo la possibilità di "portare frutto", perché Egli è il pastore che va in cerca della pecora malata, dispersa, perduta... lasciando intanto le altre 99 «nel deserto» (Lc 15,4), finché, «pieno di gioia» non ritorna anche con la pecora smarrita, caricata sulle proprie spalle.
Si potrebbe tracciare un parallelo fra la parabola del grano e della zizzania e altre due, narrate sempre da Matteo. La prima è quella del padre che aveva due figli, raccontata in 21,28-31. I due figli vengono mandati entrambi dal padre a lavorare nella vigna di famiglia. Il primo risponde subito di sì, presentandosi agli occhi del genitore come il "buono" della situazione... perché l'altro dice invece senza mezzi termini che lui invece no, non sarebbe andato a lavorare! Com'è diversa a volte, però, la realtà, rispetto alle parole! Il primo dei due figli, rimangiando quanto detto poco prima, non mette piede nella vigna; il secondo, al contrario, rimangia anch'egli le proprie parole, ma per agire meglio rispetto a come aveva pensato di fare, e va a lavorare, diventando, di fatto, il vero "buono" della situazione. 
Se il padre della parabola avesse dovuto giudicare i due figli solo sulla base delle loro risposte, dando al migliore "un premio", certamente avrebbe fallito. Sarebbe stato tratto in inganno da una parola non corrispondente ai fatti. Dio però non è un padre di questo tipo, perché non ricompensa chi solamente dice «Signore, Signore» (Mt 7,21), ma chi fa veramente la sua volontà. 
Nel narrare la parabola dei due figli, Gesù non si addentra nella storia di quella famiglia, non si sofferma sul comportamento dei due figli fino a quel momento. Forse uno era sempre sembrato educato e obbediente e l'altro no... un po' come nella parabola del Figlio prodigo (Lc 15,11-32); ma a volte le apparenze ingannano, e nella vita lo si sperimenta molte volte: alcuni agiscono indossando una maschera di bell'aspetto, mentre dentro sono come i sepolcri imbiancati di cui parla Gesù (Cfr Mt 23,27); altre volte qualche persona buona si "perde per strada", deviando dalla via del bene a seguito di imprevisti, disgrazie, o per pigrizia che impedisce di coltivare una vera via di preghiera umile. Altre volte ancora... qualche pecora nera si tramuta in pecora bianca: è il mistero della conversione!
Sradicare la zizzania quando ancora il grano non ha portato frutto significa potenzialmente mozzare la libertà degli uomini: quella di continuare a essere grano buono; di diventare o mostrarsi zizzania; quella di convertirsi, passando dall'essere l'erba cattiva all'essere l'erba buona.
Sradicare la zizzania quando ancora il grano non ha portato frutto significa poter sbagliare nel dare "il premio": ecco che la parabola del grano e della zizzania si lega anche a quella narrata in Matteo 20,1-16. Solo alla fine della giornata il padrone della vigna pagherà gli operai chiamati a giornata, e a tutti, anche a quelli dell'ultima ora, darà la stessa ricompensa, perché si tratta di un padrone buono, che fa delle sue cose secondo il suo volere, che è un volere di bontà, di amore, di misericordia.
Noi siamo il grano e siamo la zizzania. Il tempo della nostra vita è un tempo di lotta continua, e fino alla fine siamo chiamati a dire il nostro sì... da questo dipende cosa saremo alla fine, cosa saremo "definitivamente", se grano o zizzania: felici eternamente con Dio o eternamente disperati senza di Lui.
Ed è confortante sapere che Dio ci ama e ci dona tutto il tempo necessario per scegliere cosa diventare, in cosa trasformarci momento dopo momento, rialzandoci anche dopo le inevitabili cadute. Se dunque Dio agisce così, anche i suoi figli sono chiamati a "sospendere il giudizio definitivo" su ogni creatura. Così, se da un lato a volte siamo spinti a giudicare delle azioni che sono palesemente e inequivocabilmente non buone, dall'altro dobbiamo anche lasciare aperti degli spiragli di cambiamento agli altri, pensando che tutti noi siamo come crisalidi potenzialmente in attesa di diventare delle farfalle; 
sapendo che la conversione è sempre possibile, per via di quel famoso «punto accessibile al bene» di cui parlava don Bosco, e che è presente in ogni essere umano. Quel punto che è piccolo come un seme, un seme da cui può nascere grano buono, un seme da cui può spuntare e crescere il regno di Dio... un grande albero da un piccolo seme. 

lunedì 13 aprile 2020

Pensieri per lo spirito

EMMAUS 4.0
Viandanti in cerca di Dio al tempo della pandemia



James Tissot, I pellegrini di Emmaus in cammino (XIX sec.)




«Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). 
La pagina lucana sull’incontro dei discepoli di Emmaus col Risorto è animata dal sapore del bisogno e del desiderio. Quel desiderio che si percepisce più forte nella solitudine. «Resta con noi»: un invito rivolto al forestiero non solo come preoccupazione per l’altro, non semplicemente perché non prosegua il viaggio nel buio che sopraggiunge, ma perché qualcosa, nel cuore dei due discepoli viandanti, fa percepire loro la necessità del rimanere insieme, dello stare con quel personaggio misterioso proprio nel momento in cui incalza l’incertezza del giorno che si trasforma in oscurità, della luce che lascia spazio alle tenebre, a quella notte – biblicamente simbolo della morte e del peccato – che sta per arrivare. 


Una parola che arriva dritta al cuore

Non lo capiscono adesso, i due senza nome, di avere un bisogno più forte della loro comprensione razionale, ma lo capiranno dopo, ricordando che il loro cuore ardeva nell'ascolto e nella compagnia di quell'uomo che si era rivelato infine come il Cristo. 
Ecco, il segreto di Emmaus è forse proprio questo, quel segreto che rende ancora oggi questa pagina una delle più belle di tutta la Scrittura: l’uomo ha bisogno di Dio, ma è spesso un bisogno così inconscio, ma anche così connaturale all'essenza stessa del Creatura verso il suo Creatore, che in qualche modo tutti cercano di colmare questo desiderio, questa “fame” ancestrale e infinita. A volte gettandosi su bellezze ingannevoli, come sant'Agostino ben esprimerà descrivendo il proprio tumultuoso percorso spirituale: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te» (Agostino, Le confessioni, X, 27,38). 
Ma nelle parole di Agostino c’è già una sottolineatura che ci riporta al centro del brano di Luca: io ti cercavo “fuori” – dice il santo – mentre tu eri “dentro” di me. E anche i discepoli di Emmaus avevano sentito qualcosa proprio “dentro” di loro, nel loro cuore, che ardeva nel petto mentre lo straniero – Cristo – parlava con essi, spiegando le Scritture. «Mi hai chiamasti» – prosegue Agostino, – «e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace» (Ibidem). Se i discepoli di Emmaus avessero ascoltato prima il richiamo del cuore, avrebbero aperto anche prima i loro occhi. E tuttavia, proprio la loro iniziale cecità, e la loro ammissione a posteriori su ciò che “sentivano”, fa comprendere che c’è veramente, come recentemente ha detto il Papa, una sorta di “fiuto” per riconoscere in qualche modo la presenza del Signore anche senza averne piena consapevolezza. «Il popolo che segue Gesù lo ascolta - non se ne accorge del tanto tempo che passa ascoltandolo, perché la Parola di Gesù entra nel cuore […]. Il popolo di Dio segue Gesù … non sa spiegare perché, ma lo segue e arriva al cuore, e non si stanca […]. Il popolo di Dio ha una grazia grande: il fiuto. Il fiuto di sapere dove c’è lo Spirito. È peccatore, come noi: è peccatore. Ma ha quel fiuto di conoscere le strade della salvezza» (Meditazione nella cappella Santa Marta, 28 marzo 2020). 


Emmaus al tempo del Coronavirus 

 In questo tempo di pandemia, i credenti, come i discepoli di Emmaus, continuano a ripetere al Signore: «Resta con noi». Resta con noi, Signore, perché si fa notte nell’impatto violento contro l’idea della morte che potrebbe coglierci per qualcosa fino a ora di sconosciuto, giovani e anziani, ricchi e poveri… senza distinzioni. Resta con noi, perché sopraggiunge la notte nel dolore della perdita dei nostri cari, che non possiamo neanche sfiorare con un dito per accompagnarli in questo difficile passaggio dalla terra al Cielo; resta con noi, perché brancoliamo nel buio di un male ignoto che rende incerto il nostro futuro, interroga la scienza, spiazza programmi, sconquassa i sistemi politici, devasta le sicurezze economiche e affettive. Resta con noi, perché viene la notte in cui ci rendiamo conto di non aver compreso, fino a ora, la nostra fragilità, la nostra pochezza dinanzi a un mondo ben più complesso di noi e che credevamo tuttavia di poter controllare, senza ricordarci che di questo stesso mondo noi siamo custodi e non dispotici proprietari e sfruttatori. 
Ecco allora che, come i “viandanti” di Emmaus, la nostra stessa coscienza (in cui anche Dio ci parla) sembra dirci: «Stolti e lenti di cuore» (Lc 24,25), perché non abbiamo compreso il ruolo che il Creatore aveva affidato all’uomo nel consegnarli le “chiavi” di questo pianeta; perché ci siamo creduti onnipotenti e capaci di bastare a noi stessi nella soddisfazione egoistica di ogni nostro desiderio, mentre la pandemia ci mette davanti agli occhi una grande verità, troppo spesso dimenticata: nessuno si salva da solo. 
Anche noi, dunque, siamo in cammino, con compagni di viaggio proprio come i due discepoli di Emmaus che percorrevano assieme la strada verso un villaggio distante. E il senso di questo camminare a due a due – che diventa cura, attenzione, comprensione, sostegno dell’uno verso l’altro – si declina concretamente in mille sfaccettature che passano dal rispetto delle leggi (soprattutto in questo momento, ricordando anche quanto diceva don Bosco: «Buoni cristiani e onesti cittadini») che ci consentono di aiutare anche chi è lontano da noi (oltre a noi stessi), al fare “chiesa domestica” nelle nostre case; dal condividere tempi di fraternità “virtuale” con gli amici, incoraggiandosi a vicenda, fino al pregare gli uni per gli altri, anche attraverso i moderni mezzi di comunicazione, sperimentando così che l’unione vera è quella del cuori, che non conosce confini geografici e costrizioni spaziali. 
È certamente una quotidianità diversa da quella che conoscevamo, questa che la pandemia ci porta a vivere… ma proprio questo stare nel quotidiano, nel “domestico” in maniera quasi “forzata” e rallentata, ci permette di portare più attenzione alle parole di un Dio che ci parla nel corso della storia, e ci riconduce al momento in cui i discepoli riconoscono il Signore, durante la cena, allo spezzare del pane. In un gesto, cioè, di straordinaria ferialità, di “ordinaria amministrazione”, che però diventa la luce che squarcia il buio e fa finalmente “vedere” in modo nuovo ai due discepoli la realtà che avevano avuto innanzi fino a quel momento. La presenza di Gesù si rivela in un gesto che sì, ha ormai assunto una valenza nuova e suprema nel momento dell’Ultima Cena, ma che rimane anche il gesto semplice di ogni pasto, di ogni condivisione. Un gesto elementare, necessario per vivere, proprio come il pane, alimento base, alimento per la vita. 
E a quel punto, Gesù scompare alla vista dei due. Quasi come a dire: “Adesso sapete come e dove trovarmi”. Se volessimo uscire da una lettura più classica, eucaristica, di questo brano, e calarci in contesto più pratico e quasi più laico, potremmo anche dire che il Maestro invita ciascuno di noi a trovarlo nell’oggi, nel momento presente fatto di cose ordinarie, anzi, in un’ordinarietà che, nel suo essere “imposta” rischia di diventare stucchevole, noiosa… litigiosa, addirittura. Un’ordinarietà che se non compresa nella sua ricchezza può rimanere infruttuosa. Gesù vuole che invece l’ordinarietà sia la nostra “straordinarietà” nel diventare uno dei luoghi dell’incontro con Lui. La stessa incarnazione lo evidenza: il Cristo sta anche nella semplicità della vita che scorre, attraversata da persone ed eventi. Il tempo presente diventa il tempo in cui recuperare questa dimensione quasi dimenticata dell’Onnipresenza di Dio. E senza andare a scomodare concetti teologici per molti difficili, è sufficiente soffermarsi sull’essenziale, così banale che troppe volte lo scordiamo: Dio è nel fratello che mi sta accanto, creato a Sua immagine e somiglianza; è nel gesto di amore con cui posso occuparmi dei miei cari; è nella bellezza del Creato di cui posso godere anche dalla piccola finestra di casa; è nell’impegno di chi si sta prendendo cura dei tanti malati che affollano gli ospedali. Che la sosta di questo nostro oggi a Emmaus ci ricordi allora proprio questo: che Dio per primo è venuto e viene a cercarci. E lo fa là dove siamo, senza schiamazzi, ma nella delicatezza delle piccole cose, nella bellezza pacata della primavera in cui la natura rinasce comunque intorno a noi, nella corporeità delle persone che diventano Sua trasparenza… anche quando non sanno di esserlo. E questo Dio onnipresente ci chiede di portarlo così, con altrettanta delicatezza, nelle vite di chi incontriamo. Proprio come fanno i due discepoli di Emmaus, rientrando a Gerusalemme e annunciando di aver visto il Risorto, narrando «ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane». (Lc 24,35). 
Perché Gesù non ci invita a cercare grandi segni, ma anzi, alla generazione in cerca di segni, aveva risposto che non ne sarebbe stato dato altro se non il segno di Giona (cfr Lc 11,29). Ossia: la sua Risurrezione. È il segno in cui anche papa Francesco ci ha invitato a guardare, pregando in una piazza san Pietro deserta di fedeli in carne e ossa, ma gremita certamente di tanti cuori: «In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza» (Omelia, 27 marzo 2020). Solo nella speranza della risurrezione rimarremo persone in cammino, anche stando apparentemente fermi nelle nostre case, nelle nostre vite che scorrono sempre negli stessi cicli di cose da fare, nei soliti incontri con le solite persone. Solo così saremo davvero viandanti alla ricerca di senso, capaci di ascoltare e vedere con gli occhi del cuore, per annunciare la Buona notizia a quanti raggiungeremo, per essere noi stessi segno di quella Buona novella, di quel Gesù Risorto che è venuto a instaurare il Regno del Padre dandoci una caparra di immortalità, un preludio della Gerusalemme Celeste nell’amore che salva, sazia, disseta.


* Questa riflessione è stata pubblicata anche sul sito della rivista Note di pastorale giovanile