domenica 4 giugno 2023

Pensieri per lo spirito

TRINITÀ, DIO RICCO DI AMORE
«L'amore determina il futuro» (Karol Wojtyla)



La Trinità nell'Horae ad usum Parisiensem (Latin 1176, fol. 186r.), 
Parigi, Bibliothèque Nationale de France
Fonte: gallica.bnf.fr

Il Signore passò davanti a lui, 
proclamando: 
«Il Signore, il Signore, 
Dio misericordioso e pietoso, 
lento all’ira 
e ricco di amore e di fedeltà»
(Es 34,6-7).




È aggettivo di sovrabbondanza il termine "ricco": parola del superfluo, vocabolo dalle sfumature di sicurezza e dalle prospettive di tranquillità a lungo termine.
Così lo intravediamo già nella parabola lucana del ricco stolto (Lc 12,13-21), racconto che, tuttavia, non ha un lieto fine, perché la ricchezza accumulata dal protagonista non procura a quell'anima mia invocata nell'incipit la beatitudine tanto sperata. 
Eppure tale rimane – anche nell'immaginario collettivo – l'idea della ricchezza: un lasciapassare per il futuro, un salvagente per gli imprevisti, una garanzia per la propria pace.
Possedere molti beni diventa forse un antidoto alla paura dell'ignoto: arpionarsi alla ricchezza è quasi scongiurare il pericolo della malattia, della morte, l'avanzare della vecchiaia, l'inevitabilità del consumarsi dell'esistenza. Avere molti beni offre la possibilità di godersi la vita, di arraffare compulsivamente una felicità che, in fin dei conti, ci sembra sempre sfuggente, perché la sappiamo destinata a incontrare un termine ultimo. Almeno nei connotati spazio-temporali del nostro vivere terreno.
Aver accumulato e poter disporre di questo accumulo negli anni a venire sembra allora il palliativo a ogni mancanza d'altro: perché i soldi possono anche anestetizzare l'assenza di affetti.
Ma che la ricchezza materiale non sia davvero il preludio della felicità lo sottolinea sempre la Scrittura, quando Gesù sentenzia senza mezzi termini che «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Mt 19,24).
La conclusione stessa della parabola del ricco stolto ne è segno eloquente: «"Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?". Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,20-21).
La ricchezza è, allora, un'arma a doppio taglio:
 porta spesso all'eccesso, al vizio, al godimento sì, ma senza limiti, senza paletti etici e morali (in una parola: il consumo delle cose porta alla consumazione di se stessi); oppure, quando anche non si raggiungano questi estremi, conduce a delle false sicurezze, a un vivere mascherato di eternità, a una realtà virtuale in cui fingere che non esistano lo scorrere del tempo, la morte, il passaggio da questa a un'altra vita.
Non è, allora, la ricchezza in sé il punto (anzi, Gesù stesso dice che bisogna arricchirsi presso Dio), ma proprio la vita stessa.
Quale vita vogliamo vivere? Quale consapevolezza abbiamo di questa esistenza? Siamo certi che il godimento dell'oggi sia solo un preludio a quello del futuro senza fine? Sappiamo che ogni ricchezza di questa terra è un rimando a un'altra ricchezza più solida, più verace, realmente eterna?
La ricchezza può dunque diventare un simbolo, e lo è nella misura in cui ciò di cui per primo vogliamo arricchirci è l'amore. Non come possesso, ma come capacità incondizionata di donarci agli altri, in un impegno che abbia il sapore della stabilità. In quest'ottica ogni ricchezza materiale non diventa egoistica soddisfazione di bisogni personali, corsa contro il passare degli anni, isolamento nel proprio benessere, ma acquista le sfumature della condivisione, della carità, della cura dell'altro e di se stessi nell'autocoscienza di un compito di amore ricevuto da Dio.
E in questo senso anche il nostro stesso Dio è ricco. Ricco di amore e di fedeltà, come lo descrive il libro dell'Esodo nel brano della prima lettura di questa domenica dedicata alla Santa Trinità.
La vera felicità trinitaria sta tutta qui: in questa ricchezza di amore e di fedeltà, in questa relazione che fa del divino il perennemente innamorato, il perennemente donato, il perennemente fedele. Il perennemente gioioso.
Questa idea di ricchezza rovescia le nostre convinzioni su ciò che ci rende ricchi, e ci riporta all'esperienza che forse tutti noi abbiamo provato, almeno una volta nella vita. Alla felicità che pervade l'animo umano nel momento in cui si è innamorati, al senso di mistero e di eternità che l'amore scava nel cuore umano. Al desiderio di riversarsi per sempre in un altro e di sentire per sempre l'altro in sé. Tutte sensazioni (e realtà) che vanno di pari passo con l'amore.
«L'uomo ha a disposizione una esistenza e un amore» – scriveva Karol Wojtyla nella sua opera teatrale La bottega dell'orefice – «come farne un insieme che abbia senso? La gente si lascia trascinare dall'amore come se fosse un assoluto, anche se mancano le misure dell'assoluto. La gente segue la propria illusione, senza cercare d'innestare questo amore nell'Amore che ha una tale misura. Non hanno neanche il sospetto di questa necessità perché sono accecati non tanto dalla forza del sentimento quanto dalla mancanza d'umiltà. 
È una mancanza d'umiltà verso quella che dovrebbe essere l'amore nella sua vera essenza. Questo pericolo diminuisce se ne siamo coscienti. In caso contrario – il pericolo è incombente; l'amore cede sotto il peso della realtà quotidiana» [1]. 
Innestarsi in Dio, "entrare" nella Trinità, innestare il proprio amore umano nel suo amore. Ecco il segreto, perché «Dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).
La prima ricchezza dell'uomo deve essere Dio, il suo stesso amore. Solo così ogni amore umano potrà essere vero, resistente agli urti del tempo e perdurare per sempre. Proprio come l'amore di Cristo, che nella sua esperienza terrena ha amato di un amore resistente al fardello di ogni prova, anche al pesante legno della Croce.
«Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano». (Mt 6,19-20)
Perché solo «l'amore determina il futuro» [2].



NOTE

[1] Karol Wojtyla, La bottega dell'orefice, Libreria Editrice Vaticana, 1978 (ristampa 2015), pp. 81-82.
[2] Ibidem, p. 28.