mercoledì 27 maggio 2015

QUALE "AMICIZIA"? - riflessioni a margine del Vangelo di oggi



«Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: "Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo". 
Egli disse loro: "Che cosa volete che io faccia per voi?". 
Gli risposero: "Concedici di sedere, nella tua gloria, 
uno alla tua destra e uno alla tua sinistra". 
Gesù disse loro: "Voi non sapete ciò che domandate"». 
(Mc 10,35-38)


Il Vangelo di oggi (Mc 10, ) ci presenta una scena "curiosa", che non è tuttavia nuova nella sua "tipologia": i discepoli pretendono di insegnare a Gesù il mestiere di Dio.
E' veramente ...ridicolo, a ben pensarci, quell'imperativo con cui Giacomo e Giovanni si rivolgono al Maestro: "vogliamo che tu faccia quello che noi ti chiedermo". I servi danno ordine al padrone!
In realtà la pretesa diventa l'innesto per il discorso di Gesù sul vero servizio (quello che noi intendiamo quando ci diciamo costituiti "re" attraverso il Battesimo), ma può essere uno  spunto interessante per affrontare il tema dell'amicizia a largo raggio, e, in modo particolare, quello dell'amicizia con Dio.

La prima cosa che stupisce è che i due discepoli, pur ascoltando le parole di Cristo sulla prossima Passione, si lascino trascinare dalla loro richiesta sui "posti" in Paradiso. Tralasciano tutto il resto del discorso e vanno dritti dritti al sodo. 
Le cose sono due: o hanno già così tanta fede da badare all'aspetto escatologico della Risurrezione oppure...sono ancora così immaturi da lasciarsi prendere dai propri "sogni di gloria".
La risposta, probabilmente, sta nel mezzo.
Che Giovanni fosse un tipo un po' irruento, ma anche sostanzialmente coraggioso e profondamente fedele a Gesù lo appuriamo da altri passi del Vangelo: in Luca lo ritroviamo ancora una volta assieme a Giacomo, indispettito per l'operare di alcuni che facevano miracoli nel nome del Signore senza appartenere ai discepoli. La domanda dei due fratelli è ancora una vota...strabiliante: "Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi"? (Lc 9,54);
d'altronde, poi lo ritroviamo - unico tra gli apostoli - ai piedi della Croce, ad affrontare la Passione dell'Amico...ed è sempre lui, assieme a Pietro, a correre verso il sepolcro ormai vuoto, il mattino di Pasqua.
Se proprio Giovanni - il discepolo prediletto - si presenta così impulsivo, un po' "fanciullesco" nel suo parlare (e nel suo pensare!) questo ci fa comprendere che nell'amicizia - e nell'amicizia con Dio - tutti corriamo il rischio di iniziare con atteggiamenti spirituali ancora poco maturi, e che tutti, dunque, abbiamo bisogno di essere guidati da Gesù.
Giacomo e Giovanni - in questi loro iniziali cadute di stile - ci mettono in guardia dal pericolo di un'amicizia in cui il fine sia la richiesta di un privilegio, di un guadagno (magari anche lecito), di una necessaria "condivisione" di prestigio e potere con l'amico.
D'altronde ha ragionato così anche Pietro: dopo il discorso sul ricco che difficilmente entrerà nel regno dei Cieli (Mt 19,24), il futuro primo Papa rivolge a Gesù una domanda che ha lo stesso retrogusto di quella di Giacomo e Giovanni.
"Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo"? (Mt, 19,27)
Siamo alle...solite: Signore, abbiamo fatto questo e quello per te...cosa ci darai in cambio? Come ci...ricompenserai? Cosa ne ricaveremo? Ci guadagneremo qualcosa, dopo tutto quello a cui abbiamo rinunciato per te? Dacci almeno un posto in prima fila! Dacci almeno un posto accanto a te, per regnare assieme a te, per essere guardati da tutti, considerati importanti...affinché chiunque ci veda capisca che noi abbiamo fatto tanto per te, così tanto che tu hai voluto - giustamente - darci un premio di grande valore!
In queste parole si annida la tentazione della vanagloria, assieme ad un sentimento di amicizia ancora "interessata" e, se ci riflettiamo bene, di un'amicizia che non ha ancora compreso che la donazione maggiore non è mai quella dell'uomo verso Dio, ma quella di Dio che è venuto fino all'uomo, che si è fatto Uomo per donarsi agli uomini!
Allora Gesù, spostando il discorso sul vero regnare inteso come servizio e non come essere serviti(Mc 10,43-45) cerca di aprirci gli occhi sul vero senso dell'amicizia con Dio e tra gli uomini.
Facendo notare come Egli stesso stia dando l'esempio di "colui che serve" Gesù rimprovera tacitamente gli apostoli....in un certo senso è un promemoria di altre sue parole.
"Un discepolo non è più del maestro" (Lc 6,40) e "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri". (Gv 13,34)
Nell'amore di amicizia non ci può essere "pretesa" di qualche beneficio temporale. Si ama per amore, si ama disinteressatamente, o non è...amicizia.
D'altronde, Gesù non sta negando nulla ai suoi amici: più avanti rimarcherà loro che preparerà un posto nel suo regno per ciascuno di essi (Gv 14,2). Donerà loro lo Spirito Santo, li condurrà alla Verità, sta offrendo loro la sua amicizia, si è fatto Uomo proprio per avvicinarsi a noi!
Quello a cui ci invita è a non "chiedere oltre", ad accettare e riconoscere che l'amicizia di Dio è già un dono in sè stesso e che il Signore non manca di colmarci ogni giorno e anzi - di più - in ogni istante, di beni dal valore incalcolabile.
Non c'è disparità a nostro danno, in questo rapporto!
Allora perché "pretendere" di più? Non ci basta quello che già abbiamo?
E se questo vale verso Dio, il ragionamento può diventare il metro di misura di ogni buona amicizia. Se dall'amico riceviamo affetto e magari anche molti beni spirituali (e di certo non mancheranno anche i piccoli scambi materiali che caratterizzano ogni affetto), perché nutrire un desiderio smodato di un "di più"?
Non è questione di sapersi accontentare (questo sarebbe un ripiego), ma di imparare a riconoscere la preziosità di ciò che l'amico ci comunica; di avere occhi per vedere tutto ciò che ci viene donato dall'altro; di comprendere che laddove cominciamo a desiderare una "glorificazione" da un rapporto di amicizia non stiamo cercando più veramente il bene dell'altro, ma stiamo tentando di soddisfare il nostro orgoglio, la nostra superbia. Sentimenti che rischiano di minare alle basi l'amicizia, di trasformare la relazione amicale in un do-ut-des, in una compravendita, e non in una mutua, reciproca, spontanea e volontaria donazione e comunicazione di beni principalmente spirituali e di aiuto materiale laddove sia possibile.
E' quell'amicizia "in Cristo" che Pietro, dopo facili entusiasmi, rinnegamenti e pentimenti, così esprimerà, prima di guarire lo storpio alla porta di Bella: "Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina"! (At 3,6)

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