giovedì 13 aprile 2017

Pensieri per lo spirito


 AMARE E LASCIARSI AMARE
Meditazioni per la Settimana Santa


Il Giovedì Santo ci riporta al tema del servizio. È il giorno dell'Ultima Cena, del dono di Gesù nel pane e nel vino, anticipazione della sua Passione. È il giorno della lavanda dei piedi e dell'istituzione del sacerdozio. Ma servire è solo dare, o anche imparare a ricevere?







LA RECIPROCITÀ NEL SERVIZIO

Il Giovedì Santo torna ad accompagnarci il Vangelo di Giovanni (Gv 13, 1-5), offrendoci la scena della lavanda dei piedi e ricordandoci, ancora una volta, il tradimento di Giuda. È un richiamo scarno ed essenziale, ma attraverso cui l'evangelista sottolinea in modo molto forte la diversità tra il traditore e il salvatore, tra la superbia e l'attaccamento al denaro di Giuda e l'umiltà e "povertà" del Cristo, tra l'egoismo dell'uno e la donazione totale dell'altro.
L'amore «fino alla fine» (v. 1) di Cristo per gli uomini si manifesta infatti nel dono totale che Egli fa di sé, un dono che si esprime attraverso l'abbassamento di Dio ai piedi dell'uomo, affinché l'uomo venga innalzato all'altezza di Dio.
Questo lo vediamo accadere letteralmente in Gesù, già nella scena della lavanda: Cristo si spoglia delle vesti, si cinge di un asciugamano e si china dinanzi ai discepoli, per lavare loro i piedi (vv. 4-5), in un atto di apparente umiliazione, che rimanda a quella spoliazione più importante e carica di sofferenze, estremamente mortificante (agli occhi del mondo), che avrà luogo sul Golgota, dove Gesù sarà spogliato da altri e sarà inchiodato alla Croce, nell'umiliazione pubblica infertagli per aver osato dichiararsi «Figlio di Dio».
Ma Cristo non va passivamente alla Croce. Ci va con la consapevolezza di essersi immesso volontariamente sulla via del Calvario. È la stessa volontarietà contenuta nel gesto della lavanda, espressione – al pari della Croce – dell'intera scelta esistenziale che Gesù ha fatto: quella dell'amore, dell'obbedienza e della Verità.
E questo gesto non è solo un'azione del Cristo da contemplare da lontano, come se fossimo semplici spettatori. Gesù presenta un esempio da imitare: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (vv. 14-15).
Gesù non sta soltanto mostrando l'umiltà presente in se stesso, ma sta insegnando ai suoi discepoli come essere realmente umili; non sta soltanto dimostrando fin dove il proprio amore lo spinge (e lo farà in maniera totale sulla Croce), ma sta dando agli apostoli una lezione sul come amare in maniera concreta. E allo stesso tempo, sta anche insegnando loro come si riceve l'amore degli altri.
Infatti, quando Gesù giunge da Pietro, questi esplode in una domanda piena di stupore: «Signore, tu lavi i piedi a me?» (v. 6). Prende allora avvio un dialogo tra i due, tra un Cristo che invita Pietro a lasciar fare, perché in seguito comprenderà la portata, il significato di quel gesto, e un discepolo che manifesta (come in altre occasioni) un atteggiamento scandalizzato, espressione di una mentalità ancora mondana: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!» (v. 7).
Ma il gesto di Gesù è un gesto di condivisione, che ne manifesta il desiderio profondo di donarsi completamente ai suoi, come dimostrano le sue parole: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (v. 9).
Allora, Pietro, si lascia finalmente convincere.

Un messaggio per l'uomo: dare e ricevere

Il gesto di Gesù porta alla nostra attenzione la reciprocità del e nel servizio: invitando gli apostoli a lavare i piedi gli uni agli altri, il Cristo fa di ogni discepolo l'oggetto e il soggetto di questa futura lavanda simbolica.
Non vi è contraddizione tra la gratuità del servizio e la reciprocità in esso. Un servizio rimane tale se esso viene prestato come dono gratuito, senza aspettarsi nulla in cambio. Questo è un punto di partenza interiore necessario affinché l'uomo, nel servire, non sia spinto da motivazioni diverse dall'amore vero e perciò disinteressato, come Gesù rammenta quando invita i discepoli a considerarsi solo dei «servi inutili» che fanno ciò che devono fare (cfr. Lc 17, 10). Ma è lo stesso Gesù che ci richiama anche alla necessità di accettare quanto di buono e bello gli altri hanno da darci, non per un mero baratto di servizi, ma come risposta del cuore, come dono altrettanto gratuito, in una condivisione di qualità e talenti unici in ciascuno e, proprio per questo, necessariamente da condividere spontaneamente e con gioia.
È soprattutto un episodio del Vangelo che ci fa entrare ancora di più nell'ottica del servizio reciproco, direttamente in connessione con la lavanda dei piedi. È il brano di Giovanni, capitolo 12, vv. 1-11.
Gesù si trova a casa di Lazzaro, Marta e Maria, sei giorni prima della Pasqua. Maria si siede ai piedi di Gesù, li cosparge di profumo preziosissimo, li bagna con le proprie lacrime e li asciuga con i propri capelli. Questa lavanda sui piedi di Gesù rimanda direttamente alla sua sepoltura e si carica di un forte simbolismo in termini di servizio e di amore.
Gesù non ha solo lavato i piedi agli apostoli: Egli per primo ha ricevuto questo gesto, e per di più da una donna, che nella scala sociale valeva infinitamente meno di un uomo. In questo intreccio di lavande si ha l'espressione simbolica della reciprocità nel lavarsi i piedi gli uni gli altri, e si evidenzia la necessità di un'umiltà totale: quella nel mettersi a servizio, quella nell'accettare il servizio altrui.
Gesù non disdegna l'azione affettuosa della donna, al contrario, la loda. Il gesto di servizio amorevole  che si riceve dall'altro non è un atto mortificante o imbarazzante. È un gesto di amore. E l'amore non si può rifiutare. L'amore va messo in circolo, come avverrà sulla Croce, dove dal gesto più grande di servizio di Gesù all'umanità, «scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1 Cor 1, 23) rinascerà la vita. Così il Cristo attirerà tutti a sé (Gv 12, 32), amando e lasciandosi amare. Perché amare veramente è, anche, lasciarsi amare.



mercoledì 12 aprile 2017

Pensieri per lo spirito


OPTARE PER LA VERITÀ
Meditazioni per la Settimana Santa


Il Mercoledì Santo ci porta, ancora una volta, sull'annuncio di Gesù circa il tradimento di uno dei Dodici. Ma stavolta siamo invitati a entrare nella scena attraverso gli occhi di Matteo, che usa una prospettiva diversa da quella di Giovanni, e che ci può aiutare a riflettere sulla possibilità che ogni uomo ha di vivere nella menzogna o nella verità.



Carl Bloch, Ultima Cena



IL CONFRONTO CON LA VERITÀ

Il Vangelo del Mercoledì Santo ritorna ancora sulla scena dell'Ultima Cena, e sul tradimento di Giuda, ma ci pone dinanzi all'episodio da una prospettiva leggermente differente rispetto a quella del Martedì. In un certo senso, il Mercoledì i protagonisti sono essenzialmente due: Gesù e Giuda, con un breve intermezzo sui discepoli.
Viene letto l'episodio descritto da Matteo (Mt 26, 14-25), che, a differenza di Giovanni, inquadra il proposito del traditore nell'ambito di una vera e propria compravendita: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?» (Mt 26,15). 
Siamo così messi al corrente dei "dettagli" di questo tradimento, delle sue modalità concrete di attuazione, che in Giovanni non vengono svelate. Matteo evidenzia, in tutta la sua crudezza, la motivazione modana e futile che spinge Giuda ad agire: il denaro. Il dio denaro, che Giuda doveva amare molto, se Giovanni sottolinea, nel suo Vangelo, che era un ladro, e sottraeva dalla cassa quello che vi era dentro (Gv 12,6). 
Giuda sta dunque barattando Cristo. E non si accontenta del tradimento in sé, ma vuole avere qualcosa in cambio, vuole ricavarne qualcosa. La tentazione di un bene materiale è ciò attraverso cui il male si insinua nelle sue azioni, nelle sue parole. E quando, in Matteo, vengono fissate le condizioni dello scambio (le trenta monete d'argento del v. 15), Giuda è ormai pronto a tener fede al suo patto, e cerca di cogliere ogni occasione propizia per consegnare il Cristo ai capi dei sacerdoti (v. 16).
L'atmosfera dell'Ultima Cena di Matteo si tinge di una suspence diversa rispetto a quella di Giovanni. In quest'ultimo viviamo le inquadrature del momento senza conoscere il retroscena della storia, qui invece sappiamo, e fin da subito, quello che ha fatto Giuda, e possiamo leggere l'intera scena con una consapevolezza differente, specie dinanzi all'atteggiamento che proprio il traditore assume nel corso di questo convito.
Stupisce la tracotanza di Giuda, l'uomo che ha già venduto Gesù, nel porre la sua domanda, al pari degli altri, «Sono forse io?» (v. 25). È una sfida, la sua? È solo una copertura? È una totale superficialità, l'indifferenza rispetto all'atmosfera emotiva che si è venuta a creare nella sala della cena?
Non lo sappiamo, ma notiamo quanto sia disarmante la verità di Gesù, che semplicemente risponde: «Tu l'hai detto» (v. 25). 

Un messaggio per l’uomo: mostrarsi per come si è

La parola di Gesù è un richiamo alla coscienza, alla responsabilità personale di ciascuno, alla necessità di non assumere atteggiamenti ipocriti.
Quante volte le nostre parole contraddicono la nostra natura più intima? 
Quante volte pretendiamo di nasconderci davanti a Dio, incuranti del fatto che Egli legga non solo le nostre azioni, ma anche i nostri pensieri e i segreti del cuore (cfr. Sal 44,22)? Quante volte nascondiamo il fatto di barattare Dio per tante cose, coprendoci di una patinatura di religiosità rituale solo esteriore, o costruendoci un Gesù diverso da quello dei Vangeli?
E quante volte anche noi, come Giuda, indossiamo una maschera davanti ai nostri simili, tentando di nasconderci anche ai loro occhi?
La verità si impone, necessaria, nel rapporto con Dio e in quello col prossimo. Svelarsi ci apre ovviamente al rischio di essere contraddetti, criticati e incompresi, ma ci apre anche alla possibilità della correzione, ci offre l'opzione della guarigione dalla nostra cecità. Gesù, con Giuda, fino alla fine assumerà l'atteggiamento disponibile al perdono, dimostrando di essere colui che attende l'uomo con pazienza. E proprio sul luogo del suo arresto rivolgerà al traditore una parola piena di affetto, che manifesterà il desiderio di lasciare aperta la porta della speranza e del perdono anche per lui, se vorrà accogliere questo invito (anche se poi  non lo farà): è la parola amico (Mt 26,30).
Quando Gesù richiama l'uomo alla verità non è per denigrarlo, ma per spingerlo alla conversione; il suo è un gesto d'amore, il gesto di un amico che è stato capace di donare la vita per noi, affinché noi sappiamo fare tesoro di questo dono, per impostare su nuove regole la nostra vita, alla luce della Verità. Il Vangelo è chiaro: possiamo scegliere di essere veri, oppure rimanere nella menzogna, apparentemente più comoda, ma con un potere distruttivo (di noi stessi) senza pari. Solo la Verità, infatti, è vita. Solo Colui che è verità e vita è anche via (Gv 14,6). Seguire Gesù è optare per la verità.

martedì 11 aprile 2017

Pensieri per lo spirito

TRADIRE O SEGUIRE?
Meditazioni per la Settimana Santa


Il Martedì Santo offre alla nostra meditazione l'annuncio che Gesù fa del tradimento di Giuda e di quello di Pietro. Due apostoli, due amici di Gesù. L'avvertimento è chiaro: non basta stare fianco a fianco con Dio per presumere di essere esenti dal male. Occorre vigilare, in atteggiamento umile, per dominare il peccato che sta «accovacciato» alla nostra porta (cfr. Gn 4, 7).





James Tissot, L'Ultima Cena



UN DIO TRADITO

«Uno di voi mi tradirà» (Gv 13,21) è la frase, deflagrante come un ordigno, che attraversa il Vangelo del Martedì Santo. A pronunciarla è un Gesù profondamente turbato (v. 21), un Gesù che siede a mensa con i suoi [1], in un clima familiare, come è quello della tavola attorno a cui si ritrovano abitualmente degli amici intimi. Ma questo clima rassicurante viene bruscamente interrotto. Il turbamento di Gesù orienta la scena, determinando le inquadrature con cui l'evangelista ricorda l'episodio e lo fissa sulla carta.
Il primo elemento su cui ci fa concentrare è l'immersione accelerata, improvvisa, che anche noi siamo chiamati a "vivere" insieme a Gesù: dall'atmosfera materiale della mensa siamo catapultati in quella immateriale e interiore del Cristo, nel suo turbamento che sembra comparire all'improvviso, ma così intensamente da rendere necessaria una sua esternazione.
La frase-bomba scatena il silenzio: è questa la prima reazione dei commensali. Siamo alla seconda inquadratura: un silenzio riempito di interrogativi che viaggiano inizialmente solo attraverso gli occhi, rimbalzando da un discepolo all'altro: «i discepoli si guardavano l'un l'altro, non sapendo bene di chi parlasse» (v. 23). Nessuno ha il coraggio di rivolgersi direttamente al Maestro, dopo un'affermazione di tale portata. La terza angolatura ci immette direttamente nella quarta: Pietro, con un cenno, delega il compito al discepolo più vicino al Cristo, che chinandosi sul suo petto, formula la domanda. Allora ritorniamo a vedere Gesù al centro della scena, quando risponde fornendo un indizio: colui al quale darà il boccone intinto sarà il traditore (v. 26). Se fossimo in un film, quasi certamente la scena andrebbe al rallentatore, mostrandoci il passaggio di boccone dal Cristo a Giuda. 
Il gesto di Gesù rappresenta il suo tentativo di toccare il cuore di Giuda, di farlo desistere dal suo proposito di tradimento. È un gesto di ospitalità, e il boccone può essere tanto un pezzo di pane, quanto di erbe amare, che in occasione della Pasqua erano intinte in una salsa: quel cibo  si fa simbolo del dono totale che Gesù fa di se stesso, del suo consegnarsi nelle mani del traditore, non opponendosi alla scelta libera di Giuda [2].
Il Vangelo non descrive il tono di voce di Gesù, non ci dice se abbia parlato facendosi udire da tutti o se abbia sussurrato all'orecchio di chi lo aveva interrogato. 
Certamente almeno questi avrà carpito la risposta che svelava la triste verità su Giuda, eppure proprio ciò che succede di lì a poco sottolinea impietosamente che c'è modo e modo di capire, e che probabilmente, la tragica rivelazione dell'imminente tradimento non viene colta in tutta la sua portata drammatica e nelle sue implicazioni sulla vita di ogni uomo. 

Spavaldi o umili?

«Quello che vuoi fare, fallo presto» (v. 27), dice Cristo a Giuda. E Giuda esce, ormai spinto dal suo proposito cattivo. Il male ha preso possesso di lui, come sottolinea l'evangelista, nel dettaglio di sapore teologico: «Era notte» (v. 30). Nessuno dei commensali associa queste parole (o l'uscita del discepolo dalla sala) al preannunciato tradimento da parte di uno dei Dodici. Poco intuitivi, o forse solo privi di malizia, gli apostoli collegano questa frase a qualcosa di materiale, così come dimostra di fare anche Pietro, in seguito al secondo annuncio che Gesù fa in questo stesso brano sulla propria morte imminente: «Signore, dove vai?» (v. 36).
Se Giuda si allontana nella spavalderia del suo proposito di male, Pietro, dal canto suo, assume un atteggiamento altrettanto spavaldo e agisce facendo trasparire una grande sicurezza di sé, e poi una forza che, invece, in seguito dimostrerà di non possedere: «Darò la mia vita per te!» (v. 37).
E proprio il Cristo, ancora una volta, riporta anche Pietro coi piedi per terra: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m'abbia rinnegato tre volte» (v. 38).
È la seconda frase a effetto bomba che Gesù fa scoppiare, quella sera, in quella sala. Non uno solo lo tradirà, ma addirittura due.
E la storia, poi, dimostrerà che saranno molti di più ad abbandonare Cristo nel momento peggiore della sua esistenza terrena.

Un messaggio per l'uomo: il rischio di tradire è sempre in agguato

L'incomprensione dei discepoli (e in modo particolare l'atteggiamento di Pietro) sottolinea in maniera evidente che nessuno può dichiararsi esente dal rischio di tradire Dio, di rinnegarlo, di venderlo, di abbandonarlo.
Il tradimento di Giuda, preannunciato da Gesù, avrebbe dovuto spingere i discepoli non a una manifestazione gagliarda di fedeltà, ma a un atteggiamento umile di introspezione e di vigilanza sui propri pensieri, desideri e azioni.
Ed è questo avvertimento che Gesù continua a lanciare anche a noi, oggi: è possibile stare vicino a lui, pensare di conoscerlo e di amarlo con tutte le proprie forze, e nonostante questo covare e far proliferare in sé propositi cattivi, che rischiano di farci deviare dalla sua sequela. Nessuno può dirsi messo al riparo da questo rischio, perché, come ci ricorda san Paolo, ciascuno sperimenta, nella propria vita, il fatto di peccare, cioè di commettere non il bene che si desidererebbe, ma il male non si vorrebbe (cfr. Rm 7,19).
La presunzione di essere totalmente al riparo dalla possibilità di sbagliare nel proprio rapporto di fedeltà a Dio è il primo passo falso nel cammino della vera sequela. Significa infatti abbassare la guardia, chiudere gli occhi sulla realtà dell'io, un io umano, impastato di fragilità e di quelle che Giovanni chiamerà la triplice concupiscenza (1 Gv 2,16). San Pietro, che bene ha sperimentato l'amarezza per aver tradito Gesù, scriverà: «Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5,8).
Il messaggio dell'Ultima Cena è esattamente questo: il male esiste, il peccato è «accovacciato» alla nostra porta (cfr. Gn 4, 7) e dipende dal personale libero arbitrio impedire che esso prenda possesso di noi, guidando le nostre azioni.
Gesù descrive la realtà delle cose senza edulcorarla; mette in evidenza le difficoltà sempre presenti nella vita dell'uomo, in cui le seduzioni del male, le tentazioni materiali (Giuda venderà Gesù per trenta denari), una falsa concezione della vita (Pietro rinnegherà Cristo per paura di fare una brutta fine in mano alle autorità politiche e religiose) rischiano di allontanarci da Dio.
Gesù ci pone apertamente davanti alla necessità di scegliere: tradire o seguire. Non c'è via di mezzo.


NOTE
[1] Si può ipotizzare, come si vedrà poi dal gesto del discepolo che si chinerà sul petto di Gesù, che la cena si svolgesse utilizzando i triclinium romani. Cfr. Angelico Pioppi, I quattro Vangeli. Volume II. Commento sinottico, Messaggero di Padova, 2006, p. 638.

[2] Cfr. Ibidem, p. 639.

lunedì 10 aprile 2017

Pensieri per lo spirito


LA VERITÀ CHE RENDE LIBERI
Meditazioni per la Settimana Santa


La verità ci renderà liberi. Lo ha detto Gesù. Ma qual è questa verità? E da cosa ci rende liberi?







DIO È LIBERAZIONE

«Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e ti ho stabilito 
come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
perché tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42, 6-7).

Il Primo canto del servo del Signore descrive in questi termini l'azione salvifica del Messia. Un'azione che si presenta collettiva e individuale allo stesso tempo, in riferimento ai suoi destinatari.
È il popolo eletto, ma sono anche le nazioni, i destinatari dell'intervento di Dio nella storia; è una guarigione spirituale, ma anche una materiale – dunque una salvezza integrale – quella per la quale Gesù è inviato.
È un incontro personale, ma anche comunitario, quello che Dio vuole instaurare con l'uomo. 
Già il mercoledì della V settimana di quaresima, quella che precede la Settimana Santa, ci ha introdotti nel tema della "libertà", quando nel Vangelo di  Giovanni (Gv 8, 31-42) Gesù afferma che la verità ci farà liberi.

Liberi da che cosa? 

a) dalla cecità che ci impedisce di credere

La prima libertà è quella dalla cecità spirituale, che impedisce di credere in Dio, e nel Dio uno e trino.
Entrando nel mondo, donandosi fino al sacrificio estremo, Gesù presenta visibilmente e concretamente l'immagine di un Dio che ama l'essere umano, e che fa passare questo amore attraverso canali umanamente comprensibili, come la predicazione, le guarigioni, i miracoli, la stessa crocifissione.
Nel Vangelo viene messo in evidenza lo stupore di molte persone che assistono ai miracoli di Gesù, e spesso questo sentimento diventa il primo motore per un cambiamento, per una liberazione dell'uomo. 
Dopo il miracolo alla nozze di Cana, per esempio, Giovanni sottolinea che «i discepoli credettero in lui» (Gv 2,11), come anche altri lo fanno proprio per i grandi segni che egli compie (cfr. Gv 7,31); altri invece si fidano della sua parola, come accade per tanti che accorrono da lui dopo essere stati chiamati dalla Samaritana che lo aveva incontrato al pozzo (cfr. Gv 4,41).

b) libertà dal peccato

Si può credere che Gesù sia Figlio di Dio, lasciarsi toccare dai segni e anche dalle parole, ma non essere disposti a farsi liberare più profondamente da un'altra cecità, quella che, una volta approdati alla fede, impedisce di scoprire la Verità contenuta nella Parola, l'insegnamento per la vita che Gesù offre. È una cecità insidiosa, perché occulta agli uomini la verità su loro stessi, la loro realtà personale di peccatori.
Gesù, infatti, nel Vangelo sopra citato, si rivolge «a quei Giudei che gli avevano creduto» (v. 31), invitandoli a rimanere nella sua parola, per essere realmente suoi discepoli e conoscere la verità che li renderà liberi (vv. 31-32). 
Quel capitolo sorprende per la piega che prendono gli eventi: Gesù sta parlando con persone che hanno creduto in lui, ma non appena affronta il tema della verità e del peccato viene nuovamente attaccato e rifiutato.
«Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero» (vv. 34-36). Gli interlocutori di Cristo rifiutano di abbandonare le proprie sicurezze religiose e soprattutto rifiutano di abbandonare la propria concezione di loro stessi. Non riescono a passare allo step di difficoltà maggiore: accettare che Gesù porti a compimento l'Antica Alleanza; accettare che Gesù riveli la presenza del peccato nell'uomo, ma dandogli anche una possibilità concreta di cambiamento. 

Un messaggio per l'uomo: libertà da se stessi, un invito sempre attuale

Cristo si fa carico del peccato dell'uomo e delle sue conseguenze per liberare l'uomo e condurlo alla verità. È una scelta consapevole che lo conduce alla Croce.
Incontrare Gesù significa credere in questo Uomo-Dio che ha vissuto l'esperienza del sacrificio per amore, ma che proprio nella sconvolgente efferatezza della sua morte ci rivela la complessità della presenza del male nel cuore dell'uomo, ci rivela le ombre dell'esistenza umana capace di tanto male, ma offre allo stesso tempo una via reale di salvezza.
Accettare la verità su se stessi, riconoscersi peccatori, ma redenti in Cristo, ci mette nella condizione di poter cambiare vita, di convertirci.
«Il “convertitevi e credete al vangelo”» diceva Benedetto XVI – «non sta solo all’inizio della vita cristiana, ma ne accompagna tutti i passi, permane rinnovandosi e si diffonde ramificandosi in tutte le sue espressioni. Ogni giorno è momento favorevole e di grazia, perché ogni giorno ci sollecita a consegnarci a Gesù, ad avere fiducia in Lui, a rimanere in Lui, a condividerne lo stile di vita, a imparare da Lui l’amore vero, a seguirlo nel compimento quotidiano della volontà del Padre, l’unica grande legge di vita. Ogni giorno, anche quando non mancano le difficoltà e le fatiche, le stanchezze e le cadute, anche quando siamo tentati di abbandonare la strada della sequela di Cristo e di chiuderci in noi stessi, nel nostro egoismo, senza renderci conto della necessità che abbiamo di aprirci all’amore di Dio in Cristo, per vivere la stessa logica di giustizia e di amore. “Occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Grazie all’amore di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare”» (Benedetto XVI, Udienza generale, 17 febbraio 2010).
E questa giustizia si è attuata proprio sulla Croce, dove il Figlio di Dio si è fatto vittima d'amore per i peccatori. 

domenica 9 aprile 2017

Pensieri per lo spirito


L'ABBANDONATO CHE SI ABBANDONA
Meditazioni per la Settimana Santa


La Settimana Santa si apre con la commemorazione liturgica dell'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, ma anche con il Vangelo della Passione. È una Liturgia della Parola che ci mette di fronte alla contrapposizione tra la Gloria e la Croce, tra l'esaltazione e l'umiliazione. E può aiutarci a riflettere sul grande mistero di come l'uomo veda il proprio simile, e di quanto sia importante comprendere che solo Dio conosce ognuno per ciò che realmente è.




Ingresso di Cristo a Gerusalemme, Hippolyte Flandrine (1842)


L'UMILIAZIONE E LA GLORIA 

La Settimana Santa si apre con la contrapposizione fra la gloria dell'ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme e l'umiliazione della Croce, una contrapposizione che in realtà riassume bene l'esperienza di Cristo durante la sua vita pubblica: acclamato da una parte per i suoi miracoli e l'autorità con cui insegna; beffeggiato e offeso dall'altra, perché osa proclamarsi «Figlio di Dio». Gesù va incontro a questi due estremi nei suoi anni di ministero, vivendo sulla propria pelle l'alternanza di atteggiamenti da parte di coloro che incontra.
Lo vediamo sottrarsi più volte alle folle che vogliono fare di lui un Messia alle "loro" condizioni (un re potente che combatta  con vigore – anche con la forza – i poteri che opprimono gli ultimi, e che risolva i problemi sociali, primo fra tutti quello della fame), ma lo vediamo fuggire più volte anche da quelli che, per motivazioni religiose, tramano per toglierlo di mezzo, come se assistessimo ad un film d'azione in cui tutti cercando di "appropriarsi" del Cristo visto a propria immagine e somiglianza, vogliono innalzarlo su un trono "mondano" o inabissarlo nell'umiliazione più appariscente agli occhi del mondo.

Un abbandonato che si abbandona

Gesù va incontro alla realizzazione della propria missione, che lo porterà a essere innalzato sulla Croce, saldamente radicato in questa certezza: gli uomini possono conoscerlo o disconoscerlo, accogliere o meno la Verità che egli offre; anche gli amici più cari possono sbandare nel loro rapporto con lui (basti pensare a Pietro, ma anche all'atteggiamento dei discepoli quando discutono per ottenere "i posti migliori" accanto a Gesù, nel regno di Dio), ma Dio lo sosterrà nel momento della prova, come ricorda il brano di Isaia proclamato quale Prima Lettura della Domenica delle Palme.
«Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso» (Is 50,7).
Sulla Croce, tuttavia, l'apparente silenzio del Padre fa prorompere Gesù in un grido sull'abbandono di Dio. Un abbandono sperimentato nel proprio corpo e nel proprio spirito, ma in cui la volontà, evidentemente, si rafforza, e in cui la fede del Gesù Uomo nel Dio Padre tocca il suo apice. Gesù diventa l'abbandonato che si abbandona, ancora una volta, nelle mani del Padre.
Lo esprime chiaramente la versione lucana della morte di Gesù, in cui la sua domanda al Padre sul "perché" dell'abbandono trova anche una risposta nello stesso atteggiamento del Cristo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). 

Un messaggio per l’uomo: vedere senza vedere

Il contrasto tra la gloria e la Croce che la Domenica delle Palme offre alla nostra meditazione, per quanto duro e choccante, riflette quello che chiunque può sperimentare (in misura ridotta) nella propria esistenza.
La gloria e la croce possono essere l'espressione simbolica delle due facce (positiva e negativa) con cui ogni uomo vede l'altro uomo, lo "interpreta", lo etichetta, lo concepisce. 
E questo modo di vedere l'altro può essere giusto o sbagliato, coincidere o meno con ciò che ciascuno sente di essere nel profondo, ma ci rimanda proprio per questo a una realtà apparentemente incomprensibile: l'uomo rimane, fondamentalmente, sempre un mistero per l'altro, nella sua più abissale verità. E l'uomo, rimane, fondamentalmente, un mistero anche a se stesso.
Solo Dio può conoscere l'uomo nella sua totale realtà, nella sua vera essenza, con i suoi pregi e difetti, nei suoi limiti e nelle sue potenzialità, ma anche nella missione personale che ciascuno è chiamato a realizzare, in risposta a una vocazione unica e irripetibile.
Anche noi possiamo sperimentare il silenzio del Padre in tante situazioni che ci riguardano di persona e possiamo essere tentati di non abbandonarci a lui come ha fatto Gesù. Ma il Padre che tace non è un Padre che abbandona. È un Padre che chiede all'uomo un salto di qualità nella fede, un Padre che sprona la creatura a percepire tutta l'umanità del proprio limite (quello che sente l'apparente non risposta di Dio) e al contempo tutta la grandezza della fede, la forza della speranza nella consegna fiduciosa. Gesù ci dimostra che è possibile vedere senza vedere, fidarsi senza sentire la presenza dell'Altro.
Grazie a questa fiducia incondizionata di Gesù si passerà dalla Croce alla Risurrezione, come ricorda san Paolo nella Lettera agli Ebrei: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5,7).