DAL DESERTO ALL'OASI PERMANENTE
Il cammino di quaresima come "umanizzazione"
La Quaresima è tempo di digiuno, preghiera, carità. È tempo di deserto, in cui trovarsi "apparentemente" soli per cercare di ascoltare se stessi, gli altri e Dio. È tempo per mettersi in cammino, seguendo le coordinate che il Vangelo indica al credente, e provare ad attraversare questo deserto, cercando di raggiungere l'oasi "permanente".
«All´inizio di questo tempo di Quaresima la Parola di Dio si rivolge di nuovo a noi, con forza ed insistenza, attraverso l´invito del profeta:
"Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio,
perché egli è misericordioso e benigno,
tardo all´ira e ricco di benevolenza" (Gioele 2,12- 13).
Accogliere questo appello al ritorno - cioè alla conversione -
comporta mettersi in cammino, consapevoli che per incontrare Dio e il suo amore
occorre avventurarsi nel "deserto".
Come vi ha condotto Gesù, all´inizio della sua missione (Luca 4,1), così lo Spirito vuole che ciascuno di noi si inoltri nel deserto,
per mettersi a confronto con se stesso, con il proprio peccato
e con la Parola che salva».
(Messaggio della presidenza della CEI, 2 marzo 1992)
Avventurarsi nel deserto significa mettersi in cammino. Un cammino inizialmente silenzioso, in cui principalmente si ritorna ad ascoltare Dio – quel Dio che parla «nel segreto» (Mt 6,6) –, ma anche se stessi; o forse, paradossalmente, è raggiungendo le radici del proprio io che si riesce a raggiungere anche Dio e, meglio ancora, a lasciarsi raggiungere da Lui.
Quello che il cristiano è chiamato ad attraversare è infatti un deserto che palpita di umanità, nell'incontro straordinario – ma che può avvenire nell'ordinarietà della vita – tra l'umano e il divino, tra il materiale e lo spirituale, tra il tempo e l'infinito.
Luogo e spazio di desiderio di vita
Inoltrarsi tra le dune di sabbia significa calarsi in un tempo a-spaziale e in uno spazio a-temporale in cui, nella solitudine, riemerge o si rinforza un'umanità ora dimenticata, ora sopita.
Il deserto è silenzioso solo all'apparenza, poi si colma di noi stessi, di ciò che si ha dentro, delle domande, dei bisogni e delle risposte umane e non ai desideri del cuore. Questo perché il deserto non consente all'uomo di barare. È la dimensione degli istinti primordiali di ogni creatura vivente: la fame, la sete, il caldo e il freddo (quando di notte le temperature calano in picchiata), segni di un'aspirazione innata e ancestrale: quella alla vita, che innesca un meccanismo strenuo per la sopravvivenza. Il deserto – proprio perché tale, inospitale e sterile – costringe a imparare (o a ricordare) che sebbene essere unico tra tutte le specie viventi, l'uomo non è capace di bastare a sé stesso neppure per sopravvivere su un piano puramente materiale.
Questa è la prima tappa per passare dalla solitudine all'insieme, perché è già un entrare in empatia con i propri simili, animati dagli stessi istinti, caratterizzati dagli stessi bisogni.
Ma il deserto è anche la dimensione in cui emerge o riemerge qualcosa che connota non tutte le creature, ma solo alcune di esse: l'istinto gregario, il bisogno della comunione con altri simili a se stessi. È nella solitudine del deserto che si comprende l'importanza della relazionalità, della capacità di commisurarsi con altri, di fare comunità e/o comunione. Non più solo l'istinto alla vita nella sua componente esteriore, non solo una solidarietà esteriore, ma in qualcosa che diviene anche interiore, espressione di amicizia, di amore, di fratellanza.
E, infine, il deserto è la realtà in cui si sperimenta il bisogno di porre dinanzi all'io un Tu diverso da ogni altro tu. Una caratteristica propria dell'essere umano, dell'homo (consapevolmente o meno) viator, che non può essere «un'isola»[1] senza ricordare che ognuno «è parte del continente»[2].
Immerso tra sabbia e vento, tra cielo e terra rossa, tra sole e stelle, l'uomo non può non interrogarsi sulle cose più intime e profonde che ciascuno in modo diverso, è in grado di ritrovare in se stesso: le domande di senso sull'esistenza, sulla propria origine, sul fine delle cose create, sulla meta dell'uomo.
Si è dinanzi alla potenziale massima espressione dell'istinto alla vita, a un'esistenza che non si riduca al bisogno di beni da consumare o di relazioni da coltivare, ma che si esprima in una infinitezza reale per quanto ancora invisibile. L'unica capace di appagare realmente l'istinto di conservazione, il desiderio di felicità, la sete di vita vera. L'unica in cui la pienezza e la bellezza dell'essere uomini, del fare comunione, dell'incontrarsi con la magnificenza del creato possano trovare una risposta definitiva. L'unica che possa rappresentare un'oasi permanente per l'uomo in ricerca.
Farsi nomadi
«Il carnato del cielo / sveglia oasi / al nomade d'amore» [3] scriveva Ungaretti in una sua lirica.
È il mistero che si realizza anche nel deserto: laddove tutto sembra vuoto e taciturno, corroso dal sole e arso dalla siccità; laddove l'uomo è un pulviscolo nella sconfinata distesa di sabbia all'apparenza sempre uguale; laddove il giorno e la notte si manifestano in tutta la loro potenza, lì l'umanità palpita di bisogni e di domande, su ciò che si è, su ciò che si cerca, sul chi si vuole incontrare, sulla necessità di lasciarsi avvicinare dagli altri e dall'Altro. Nel deserto l'uomo torna a farsi interrogare dalla bellezza, anche da quella di un cielo terso e luminoso su un paesaggio fintamente immutabile.
Il cielo, nella sua maestosità, nella sua intensità di colore e di fenomeni atmosferici, può essere metafora, simbolo della bellezza di ri-scoprirsi uomini, unione misteriosa e affascinante di carne e di sangue, di anima e di corpo; segno dello splendore dell'aver bisogno di rapporti con altri essere umani; desiderio di un Altrove che abbia la caratteristica del per sempre.
Dove c'è un cielo c'è anche altra terra, qualcosa oltre la distesa di sabbia e di niente che circonda il deserto.
Da questa bellezza può nascere il desiderio di confrontarsi con il deserto, accogliendo la sfida del sentirsi e farsi nomade: il deserto non è infinito, ma occorre attraversarlo per trovare il non-deserto, la «terra dove scorrono latte e miele» (Es 3.8). La terra su cui si riflette sempre il cielo, ma un cielo che, pur uguale, è già diverso.
Attraversare il deserto
La Quaresima viene dunque ogni anno a ricordarci che abbiamo bisogno di un deserto, per ritrovare il cielo e la terra nuova (cfr. Ap 21,1), già in questa nostra esistenza storica.
Senza deserto si rischia di dare per scontate troppe cose, dal cibo al vestito, dai rapporti umani a quelli con Dio.
Solo facendo un po' di sano vuoto dentro e fuori di noi, spegnendo le tempeste di suoni, parole, frivolezze, preoccupazioni e impegni che ci attanagliano, è possibile recuperare qualcosa della dimensione umana e spirituale che, inevitabilmente, passo dopo passo si tende a perdere nell'ordinarietà della vita.
Per entrare in questo deserto, così necessario all'uomo che vuole rinnovarsi e ricaricarsi, la Chiesa offre le coordinate del digiuno, dell'elemosina e della preghiera. Sono in realtà le coordinate che Gesù stesso indica nel Vangelo proclamato il Mercoledì delle Ceneri (Mt 6,1-6;16,18), ma sono anche quelle coordinate che lo hanno orientato nella sua vita, e particolarmente nel corso delle tentazioni da lui vissute nei quaranta giorni trascorsi nel deserto (Mc 1, 12-13).
Il digiuno costringe ad ascoltare il proprio corpo, che a volte ha desideri diversi dalla buona volontà spirituale di privarsi del cibo, e conduce a farsi solidali con chi è meno fortunato di noi, in un certo senso favorendo il passaggio alla seconda coordinata, quella dell'elemosina; la preghiera consente di ravvivare la dimensione interiore e spirituale dell'uomo, e nel rivolgerci al Padre «nostro» che è nei Cieli, ci fa recuperare anche il senso comunitario della nostra fede, cosa che conduce ad ampliare il raggio dell'elemosina, estendendola alle tante forme di carità (materiale e non) attraverso cui è possibile raggiungere il proprio prossimo. Così fare il deserto rende l'uomo più uomo, e meno superuomo. Simile ai suoi simile, capace di compatire nel sentimento e nell'azione chi manca del cibo, del vestito, dell'amore.
Fare il deserto rende l'uomo più capace di tendere la mano per accettare la misericordia del fratello, ma anche – e soprattutto – quella infinita di Dio.
Il deserto, mettendo l'essere umano dinanzi ai suoi limiti, ma anche dinanzi al suo potenziale, dovrebbe condurre all'umiltà e al coraggio di mettersi in viaggio per tutta la vita, anno dopo anno, non da soli, ma in compagnia: di se stesso, dei fratelli, di Dio.
NOTE
[1] John Donne, Nessun uomo è un isola.
[2] Ibidem.
[3] Giuseppe Ungaretti, Tramonto.
Quello che il cristiano è chiamato ad attraversare è infatti un deserto che palpita di umanità, nell'incontro straordinario – ma che può avvenire nell'ordinarietà della vita – tra l'umano e il divino, tra il materiale e lo spirituale, tra il tempo e l'infinito.
Luogo e spazio di desiderio di vita
Inoltrarsi tra le dune di sabbia significa calarsi in un tempo a-spaziale e in uno spazio a-temporale in cui, nella solitudine, riemerge o si rinforza un'umanità ora dimenticata, ora sopita.
Il deserto è silenzioso solo all'apparenza, poi si colma di noi stessi, di ciò che si ha dentro, delle domande, dei bisogni e delle risposte umane e non ai desideri del cuore. Questo perché il deserto non consente all'uomo di barare. È la dimensione degli istinti primordiali di ogni creatura vivente: la fame, la sete, il caldo e il freddo (quando di notte le temperature calano in picchiata), segni di un'aspirazione innata e ancestrale: quella alla vita, che innesca un meccanismo strenuo per la sopravvivenza. Il deserto – proprio perché tale, inospitale e sterile – costringe a imparare (o a ricordare) che sebbene essere unico tra tutte le specie viventi, l'uomo non è capace di bastare a sé stesso neppure per sopravvivere su un piano puramente materiale.
Questa è la prima tappa per passare dalla solitudine all'insieme, perché è già un entrare in empatia con i propri simili, animati dagli stessi istinti, caratterizzati dagli stessi bisogni.
Ma il deserto è anche la dimensione in cui emerge o riemerge qualcosa che connota non tutte le creature, ma solo alcune di esse: l'istinto gregario, il bisogno della comunione con altri simili a se stessi. È nella solitudine del deserto che si comprende l'importanza della relazionalità, della capacità di commisurarsi con altri, di fare comunità e/o comunione. Non più solo l'istinto alla vita nella sua componente esteriore, non solo una solidarietà esteriore, ma in qualcosa che diviene anche interiore, espressione di amicizia, di amore, di fratellanza.
E, infine, il deserto è la realtà in cui si sperimenta il bisogno di porre dinanzi all'io un Tu diverso da ogni altro tu. Una caratteristica propria dell'essere umano, dell'homo (consapevolmente o meno) viator, che non può essere «un'isola»[1] senza ricordare che ognuno «è parte del continente»[2].
Immerso tra sabbia e vento, tra cielo e terra rossa, tra sole e stelle, l'uomo non può non interrogarsi sulle cose più intime e profonde che ciascuno in modo diverso, è in grado di ritrovare in se stesso: le domande di senso sull'esistenza, sulla propria origine, sul fine delle cose create, sulla meta dell'uomo.
Si è dinanzi alla potenziale massima espressione dell'istinto alla vita, a un'esistenza che non si riduca al bisogno di beni da consumare o di relazioni da coltivare, ma che si esprima in una infinitezza reale per quanto ancora invisibile. L'unica capace di appagare realmente l'istinto di conservazione, il desiderio di felicità, la sete di vita vera. L'unica in cui la pienezza e la bellezza dell'essere uomini, del fare comunione, dell'incontrarsi con la magnificenza del creato possano trovare una risposta definitiva. L'unica che possa rappresentare un'oasi permanente per l'uomo in ricerca.
Farsi nomadi
«Il carnato del cielo / sveglia oasi / al nomade d'amore» [3] scriveva Ungaretti in una sua lirica.
È il mistero che si realizza anche nel deserto: laddove tutto sembra vuoto e taciturno, corroso dal sole e arso dalla siccità; laddove l'uomo è un pulviscolo nella sconfinata distesa di sabbia all'apparenza sempre uguale; laddove il giorno e la notte si manifestano in tutta la loro potenza, lì l'umanità palpita di bisogni e di domande, su ciò che si è, su ciò che si cerca, sul chi si vuole incontrare, sulla necessità di lasciarsi avvicinare dagli altri e dall'Altro. Nel deserto l'uomo torna a farsi interrogare dalla bellezza, anche da quella di un cielo terso e luminoso su un paesaggio fintamente immutabile.
Il cielo, nella sua maestosità, nella sua intensità di colore e di fenomeni atmosferici, può essere metafora, simbolo della bellezza di ri-scoprirsi uomini, unione misteriosa e affascinante di carne e di sangue, di anima e di corpo; segno dello splendore dell'aver bisogno di rapporti con altri essere umani; desiderio di un Altrove che abbia la caratteristica del per sempre.
Dove c'è un cielo c'è anche altra terra, qualcosa oltre la distesa di sabbia e di niente che circonda il deserto.
Da questa bellezza può nascere il desiderio di confrontarsi con il deserto, accogliendo la sfida del sentirsi e farsi nomade: il deserto non è infinito, ma occorre attraversarlo per trovare il non-deserto, la «terra dove scorrono latte e miele» (Es 3.8). La terra su cui si riflette sempre il cielo, ma un cielo che, pur uguale, è già diverso.
Attraversare il deserto
La Quaresima viene dunque ogni anno a ricordarci che abbiamo bisogno di un deserto, per ritrovare il cielo e la terra nuova (cfr. Ap 21,1), già in questa nostra esistenza storica.
Senza deserto si rischia di dare per scontate troppe cose, dal cibo al vestito, dai rapporti umani a quelli con Dio.
Solo facendo un po' di sano vuoto dentro e fuori di noi, spegnendo le tempeste di suoni, parole, frivolezze, preoccupazioni e impegni che ci attanagliano, è possibile recuperare qualcosa della dimensione umana e spirituale che, inevitabilmente, passo dopo passo si tende a perdere nell'ordinarietà della vita.
Per entrare in questo deserto, così necessario all'uomo che vuole rinnovarsi e ricaricarsi, la Chiesa offre le coordinate del digiuno, dell'elemosina e della preghiera. Sono in realtà le coordinate che Gesù stesso indica nel Vangelo proclamato il Mercoledì delle Ceneri (Mt 6,1-6;16,18), ma sono anche quelle coordinate che lo hanno orientato nella sua vita, e particolarmente nel corso delle tentazioni da lui vissute nei quaranta giorni trascorsi nel deserto (Mc 1, 12-13).
Il digiuno costringe ad ascoltare il proprio corpo, che a volte ha desideri diversi dalla buona volontà spirituale di privarsi del cibo, e conduce a farsi solidali con chi è meno fortunato di noi, in un certo senso favorendo il passaggio alla seconda coordinata, quella dell'elemosina; la preghiera consente di ravvivare la dimensione interiore e spirituale dell'uomo, e nel rivolgerci al Padre «nostro» che è nei Cieli, ci fa recuperare anche il senso comunitario della nostra fede, cosa che conduce ad ampliare il raggio dell'elemosina, estendendola alle tante forme di carità (materiale e non) attraverso cui è possibile raggiungere il proprio prossimo. Così fare il deserto rende l'uomo più uomo, e meno superuomo. Simile ai suoi simile, capace di compatire nel sentimento e nell'azione chi manca del cibo, del vestito, dell'amore.
Fare il deserto rende l'uomo più capace di tendere la mano per accettare la misericordia del fratello, ma anche – e soprattutto – quella infinita di Dio.
Il deserto, mettendo l'essere umano dinanzi ai suoi limiti, ma anche dinanzi al suo potenziale, dovrebbe condurre all'umiltà e al coraggio di mettersi in viaggio per tutta la vita, anno dopo anno, non da soli, ma in compagnia: di se stesso, dei fratelli, di Dio.
NOTE
[1] John Donne, Nessun uomo è un isola.
[2] Ibidem.
[3] Giuseppe Ungaretti, Tramonto.
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