sabato 7 novembre 2015

LA SCALTREZZA COME VIRTÚ

Due parabole a confronto
Riflessioni sul Vangelo


Il brano evangelico della parabola dell'amministratore disonesto pone una serie di difficoltà interpretative: perché Gesù loda la scaltrezza dell'amministratore disonesto? Questo implica una lode anche alla sua persona, alle sue motivazioni, o vuole essere, al contrario un invito:
1) a riflettere sulla condizione del discepolo, servo chiamato ad amministrare i beni, le ricchezze divine;
2) a comprendere che, accanto a una scaltrezza come "disvalore", esiste anche una scaltrezza quale "virtù"?





«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: "Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare".
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. 
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. 
Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
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Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.

Non potete servire Dio e la ricchezza.

Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».
I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose 
e si facevano beffe di lui. 
Egli disse loro: «Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole».

(Lc 16,1-15) 





LA SCALTREZZA: DIFETTO O VIRTÙ?

Il brano lucano contenente la parabola dell'amministratore scaltro è uno di quei passi che lascia spesso perplessi gli ascoltatori. Gesù loda l'amministratore disonesto o la sua scaltrezza? Il Maestro vuole che i figli della luce imitino, in qualche modo, quel comportamento così "mondano"? Ma, allora, perché Cristo parla di «ricchezza disonesta» e «ricchezza vera»? Cosa vuol dire doversi fare degli amici che «accolgano nelle dimore eterne»? È contraddittorio il discorso su Dio e mammona?
Ovviamente, trattandosi di Parola di Dio, i paradossi servono semplicemente ad accentuare la valenza pedagogica di ciò che proprio Dio vuole comunicare e insegnare all'uomo.
Il nocciolo del brano è nei concetti di «scaltrezza/scaltro». Un'erronea comprensione di entrambi, o di uno di essi, penalizza una visione integrale ed "evangelica" del racconto -espediente utilizzato da Gesù, e sospinge a una rilettura confusa e contraddittoria dell'episodio. Se si vuole capire fino in fondo ciò che il Maestro vuole dire, non ci si può esimere da un'analisi semantica di quei due vocaboli sopra citati.
Il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana dà questa definizione del vocabolo «scaltro»: «chi possiede avvedutezza, esperienza, unite a una certa malizia». La scaltrezza è dunque un mix, una sintesi di più elementi, tra i quali spiccano quelli positivi dell'accortezza e dell'esperienza, e quello - che forse fa sorgere più dubbi - della malizia.

Malizia o furbizia?

Il problema nasce dalla concezione comune che si tende ad avere del termine «scaltrezza». Generalmente lo si riferisce a persona che sa destreggiarsi nel mondo - e nei suoi affari - ricorrendo, per l'appunto, alla malizia negativa, "malvagia". Nell'opinione di massa, scaltro è chi tutela i propri affari, a scapito di quelli altrui, con egoismo o addirittura cattiveria. 
Per qualcun altro, la scaltrezza è propria di chi agisce con furbizia, non necessariamente negativa, ma da intendersi anche come astuzia, intelligenza, immediatezza.
In effetti, proprio il passaggio da malizia a furberia, può diventare una chiave di lettura del brano lucano.
Nel Vangelo di Luca, Gesù, con grande maestria, ci offre una duplice visione della scaltrezza: quella dell'amministratore disonesto e quella che poi Egli stesso tratteggerà. La prima corrisponde, senza dubbio, all'idea comune che si ha della scaltrezza: l'amministratore agisce scaltramente e maliziosamente per non finire sulla strada, una volta licenziato; nel farlo, condona parte dei debiti dovuti al suo padrone, non per bontà verso quei debitori, ma per attaccamento al proprio benessere; non facendo gli interessi del datore di lavoro - che sta danneggiando -, ma i propri.
Indubbiamente, quest'uomo sta operando (seppure per fini egoistici) con «avvedutezza» ed «esperienza», ma anche con una «malizia» "negativa", che lo porta a cercare di salvare se stesso, screditando (letteralmente!) un altro. In effetti, etimologicamente parlando, «malizia» deriva da «malitia,  derivato di malus», cioè «malvagio».
Il termine malizia, tuttavia, nella sua applicazione pratica, viene definito anche come «la conoscenza che ciascuno ha dei segreti della sua arte; gli utili espedienti che sono il frutto di una lunga pratica» (Enciclopedia Treccani). In tal senso, essa non è necessariamente, all'atto pratico, negativa, ma può assumere una sfumatura "positiva". 
Da qui una rilettura:
  • del vocabolo «scaltro», in accordo all'Enciclopedia Treccani: «Di persona, pronto e capace nel riconoscere e valutare quanto può tornare a proprio utile o a proprio danno; accorto e perspicace nel parlare e nell’agire»; 
  • e di quello di «scaltrezza»: «La qualità di chi è scaltro, fatta insieme di furberia, di accortezza e di sveltezza».
Solitamente si è portati a intendere negativamente anche la furbizia, la qualità tipica di chi è furbo, ossia «accorto nel fare il proprio tornaconto, nell’evitare di cadere in inganni e tranelli e nel cavarsela da situazioni imbrogliate o pericolose», ma, come si evince dal suo significato, il furbo non è necessariamente anche cattivo. Quando si parla di "tornaconto" - e sarà questo quello che cercherà di far capire Gesù - bisogna intendere anche il concetto di "fare il proprio bene", di "amare se stessi" (cfr. Lv 19,18; Mt 19,19), di evitarsi un male. Questo non implica, come in un'equazione, che il furbo sia anche uno che danneggia l'altro. Può semplicemente trattarsi di una persona che sa cavarsi dai guai, o evitarli, senza far male ad alcuno. Proprio secondo l'invito della Scrittura, che è «ama il prossimo tuo come te stesso».

«PRUDENTI COME I SERPENTI E SEMPLICI COME LE COLOMBE» (Mt 10,16)

Nel Vangelo di Matteo compare una frase di Gesù che si collega perfettamente a questa idea di furberia "sana": «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16). Il Maestro pone nuovamente i suoi interlocutori dinanzi a un paradosso. Così come la scaltrezza può rimandare alla malizia, che si ricollega al male, così la prudenza viene ricollegata al serpente, che è simbolo del male, del Maligno, come la stessa Scrittura sottolinea, a partire dalla Genesi. Il serpente, però, nel Libro dell'Esodo assume una connotazione diversa: il bastone di Mosè si trasforma in un serpente, davanti al quale il faraone fugge (cfr. Es 4,3); il serpente innalzato sull'asta di bronzo e che, guardato da quanti fossero stati morsi proprio da un serpente, sarebbe stato fonte di guarigione (cfr. Num 21,9). Sarà poi Gesù, di cui Mosè è prefigurazione, a inchioderà definitivamente il male alla Croce, annientandolo; la Croce diventerà allora strumento di salvezza per quanti «volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Gesù dimostra che è possibile trarre il bene anche dal e nonostante il male. Per questo può lodare l'amministratore disonesto, perché dal suo comportamento sbagliato, «i figli della luce» possano imparare a convertire la scaltrezza "maliziosa" in scaltrezza "santa", perché possano passare dalla scaltrezza come disvalore, a quella che è virtù. Dalla scaltrezza fondata sulla malizia negativa, a quella sulla furbizia positiva. 

La scaltrezza come disvalore e la scaltrezza come virtù

La scaltrezza intesa alla maniera di come l'intende l'amministratore disonesto è certamente un disvalore, contrario all'insegnamento del Vangelo. 
Ma quella di cui parla Gesù assume la connotazione di una virtù, di così grande importanza che Egli la ritiene importante per assicurare, all'uomo, un posto nelle «dimore eterne».
«Può la scaltrezza esser considerata una virtù? Così come l'intelligenza e altri doni naturali, essa può esser utilizzata per il bene o per il male. È propriamente una virtù quando esercitata disinteressatamente per, ad esempio, aiutare il prossimo in condizioni di necessità, o agire con maggior efficacia nell'opera evangelizzatrice della Chiesa, avendo come fine la salvezza delle anime e la gloria di Dio.
Di essa tratta San Tommaso come parte integrante della virtù cardinale della prudenza, ossia, della virtù per la quale l'uomo impiega i mezzi adeguati per raggiungere il fine santo cui mira. La solerzia, insegna il Dottor Angelico, è "la congettura rapida e facile rispetto ai mezzi". E padre Royo Marín, grande discepolo e confratello dell'Aquinate, così la definisce: "Sagacità (chiamata anche solerzia, eustochia), è la prestezza di spirito per risolvere da soli i casi urgenti, per i quali non è possibile fermarsi per chiedere consiglio".
La parola latina solertia, impiegata dal Dottore Angelico nella Somma Teologica, è comunemente tradotta anche con sagacità, perspicacia, arguzia; questi tre vocaboli, però, si riferiscono più a una qualità speculativa: l'acutezza di spirito. La scaltrezza o solerzia indica qualcosa di più pratico: la capacità con un colpo d'occhio, di capire la situazione, prendere la decisione e passare all'azione.
Il Divino Maestro ci ordina di metterla in pratica. "Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe" (Mt 10, 16). Con queste parole, Egli ci raccomanda: siate innocenti, sì, ma anche astuti!
Infatti l'innocenza senza astuzia può tradursi in stupidità.
Tuttavia, Cristo ci stimola non solo con parole, ma anche con l'esempio(Lc 20, 1-8). Così, Lui stava un giorno insegnando nel Tempio quando i principi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani Lo interpellarono:
– Con che diritto fai queste cose?
Avrebbe ben potuto il Figlio di Dio replicare che lo faceva per autorità propria. Ma preferì agire in modo differente. Forse, tra gli altri motivi, per darci una lezione di solerzia.
– Anch'io vi farò una domanda: il battesimo di Giovanni era del Cielo o degli uomini?
Domanda imbarazzante. Se avessero affermato che era "del Cielo", avrebbero ricevuto lo scacco matto: "Perché, allora, non avete creduto in lui?". Se avessero risposto "degli uomini", avrebbero corso il serio rischio di essere lapidati dal popolo. Dopo una breve confabulazione, si videro costretti a cedere:
– Non sappiamo.
– Ebbene non vi dirò con che diritto faccio queste cose – replicò ancora una volta Gesù.
Costretti a riconoscere la loro sconfitta, i nemici del Salvatore cambiarono tattica: mirando ad accusarLo davanti al governatore romano, pagarono delle spie per osservarLo e tenderGli una trappola. Questi lo avvicinarono, fingendosi uomini dabbene, e Gli rivolsero la capziosa domanda: – Dicci, Maestro, è permesso o no pagare le tasse a Cesare?
– Da' a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio – rispose loro Gesù. Replica così efficace che l'Evangelista concluse la narrazione dell'episodio con una semplice osservazione: "Così non hanno potuto sorprender? Lo in nessuna delle sue parole davanti al popolo. Al contrario, stupiti per la sua risposta, dovettero tacere" (Lc 20, 26). Ossia, in termini più popolari, tappò loro la bocca.
Dandoci questi esempi, il Divino Maestro ci invita a imitarLo» [1].

DUE PARABOLE A CONFRONTO.
UNA SANTA SCALTREZZA?

È interessante notare che il discorso di Gesù sulla ricchezza si fondi per intero su elementi specularmente contraddittori: disonesta/vera; altrui/vostra.
In questi termini il Maestro inserisce la spiegazione della parabola, che però, avviene con un linguaggio ancora "parabolico", misterioso, di difficile interpretazione. Un'idea di fondo, tuttavia, la si può trarre, partendo proprio dalla figura dell'amministratore, e ponendola in rapporto a quella di un' altra parabola, quella dei «servi che vegliano» (Lc 12, 33-48). La parabola, anche in questo caso, è idealmente strutturata di due parti: il racconto pedagogico e poi la sua spiegazione; anche qui, come nella parabola dell'amministratore disonesto, Gesù ricorre a una spiegazione criptica, ermetica.



«"Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell'alba, li troverà così, beati loro!  Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo". 

«Allora Pietro disse: "Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?". Il Signore rispose: "Chi è dunque l'amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: 'Il mio padrone tarda a venire' e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l'aspetta e a un'ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. 
Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più"».

 (Lc 12, 41-48)


Ponendo a confronto le due parabole, in un certo senso, si chiarifica il significato di quella dell'amministratore disonesto, che, non a caso, anche cronologicamente si colloca successivamente, all'interno del Vangelo di Luca.
Nell'amministratore è chiamato a identificarsi ogni discepolo (sebbene l'interpretazione per eccellenza sia quella che lo rapporta alla figura sacerdotale), a cui Dio affida una parte della sua ricchezza, per amministrarla, distribuirla e farla così fruttificare. L'amministratore è un «servo» e non amministra una ricchezza propria, ma i beni di un "Altro". Ecco il perché della dicotomia ricchezza altrui/vostra, nel capitolo 16 di Luca.
Appare paradossale, a prima vista, l'invito che Gesù rivolge all'inizio della parabola dei «servi che vegliano»: «vendete ciò che possedete e datelo in elemosina, fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli».
La contraddizione nasce dal fatto che - lo dice Gesù stesso - l'amministratore (il servo) non dispone di ricchezze personali, ma di quelle del suo padrone. La chiave di comprensione del tutto è allora la misericordia: dare in elemosina, vendere ciò che si è ricevuto, per colmare una miseria altrui, soddisfa l'incarico affidato dal padrone all'amministratore, di «dare la razione di cibo a tempo è equivalente alla donazione totale dell'io, sull'esempio di Cristo, nella sua donazione totale, fino alla Croce.
Dare chinandosi sulle miserie altrui (la parola "elemosina" rimanda infatti a un'opera di misericordia) è un condonare ben diverso da quello che opera l'amministratore disonesto, che agisce per egoismo, non per bontà e neanche per compassione.
Naturalmente, dare in elemosina ciò che si sta gestendo, ma che appartiene a un altro, tecnicamente, è commettere un "illecito". E tuttavia, Gesù, dice che il servo che agirà così, guadagnerà un tesoro sicuro nei cieli. Potrebbe essere questa, allora, la ricchezza "disonesta" di cui parla Gesù, quella che farà trovare amici, che accoglieranno nelle dimore eterne?Quella che renderà possibile ricevere la ricchezza vera, nel Regno celeste, dove il padrone stesso passerà a servire i suoi servi? La misericordia, la generosità, la compassione sono allora, metaforicamente parlando, una sorta di "santa scaltrezza", sulla scorta di quanto Gesù dice: «Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6, 38)?
Le due parabole lucane centrate sulla figura dell'amministratore, poste a confronto, fanno così emergere una duplice idea di «ricchezza disonesta»: la ricchezza "realmente" disonesta che conduce alla morte, perché frutto di ingiustizia, e che ci si procura a danno degli altri, senza bontà e senza compassione; la ricchezza "fintamente" disonesta che è invece quella di chi dona largamente ai poveri, con cuore sincero, generoso e misericordioso; quella di chi condivide i talenti ricevuti, per arricchirne anche gli altri, sulla scorta dell'esempio di Cristo, che da ricco si è fatto povero, per arricchire l'uomo, «per mezzo della sua povertà». (cfr. 2 Cor 8,9)


[1] Don Francisco Teixeira de Araújo, EP, La virtù della scaltrezza, Sito degli Araldi del Vangelo


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