sabato 12 agosto 2023

Sguardo cristiano su notizie di attualità

"SANTO SUBITO"

Il politically correct della morte




Difficile che la morte di personaggi "famosi" ci "scansi". Non per la fama (più o meno grande) della persona in questione, a cui potremmo certamente anche essere legati da questioni private, pubbliche, artistiche, o alla quale, certamente e come per tanti di noi avviene, potremmo pure non essere legati affatto. Ma è cosa poco fattibile, il rimanerne al di fuori, semplicemente per il complesso e movimentato processo mediatico che essa mette in atto, una vera e propria macchina da spettacolo che, volente o nolente, alla fine ci coinvolge tutti, tanto da spettatori attivi quanto passivi.
La morte di Michela Murgia non fa eccezione, e, parlando in prima persona, alla massa di informazioni lette sui giornali e sui social, si aggiungono i vari messaggi in cui vengono condivisi articoli e altri contenuti, legati non solo al mondo della cronaca squisitamente "laica" (e magari anche politicizzata), ma pure a quella connessa a un mondo più "ecclesiale", come i quotidiani Avvenire e Osservatore Romano.
Un bombardamento mediatico, in cui si sovrappongono citazioni estrapolate dai libri della scrittrice e attivista, dalle ultime interviste, ma anche commenti che hanno il sapore, a volte, di veri e propri panegirici incensatori o di muri del pianto davanti ai quali innalzare una richiesta tardiva di perdono per atteggiamenti, condanne, sentenze pregresse.
Tutte questioni che ci pongono davanti a un problema di tipo esistenziale (il giudizio sulla persona è cosa facile o complessa? Cosa identifica veramente l'essere umano con determinate posizioni, istituzioni, credi religiosi? Come si dialoga davvero con chi la pensa diversamente da noi?), e con risvolti certamente anche spirituali, tanto più se la persona in questione si definiva cattolica, ma di un cattolicesimo "fuori dalle righe".
Come credenti, allora, l'evento naturale della morte di un personaggio pubblico (anche e soprattutto quando accaduto in circostanze drammatiche come una improvvisa e prematura malattia) pone certamente degli interrogativi, e fra questi alcuni strettamente di fondo, propedeutici a tutti gli altri: domande sulla facilità con cui spesso, noi esseri umani, passiamo dal condannare all'assolvere (o viceversa), solitamente nemmeno in punto di morte, ma subito dopo; quesiti sulla nostra "incredibile" capacità di risolvere conflitti ben più grandi di noi (ideologici, teologici, politici) apparentemente (e magari momentaneamente) solo in un post-mortem in cui è facile elargire commiserazioni, plausi, riconoscimenti, senza che l'altro interlocutore abbia la facoltà di prendere parola.
Non è una questione futile, a ben pensarci. Si rischia di ridurre tutto quello che ruota attorno alla morte (e ciò accade sempre più di frequente) a un banale sentimentalismo, all'onda del momento, al buonismo dell'istante dinanzi al dolore per la scomparsa di qualcuno, alla "ingiustizia" della dipartita di una persona giovane, alla svendita delle proprie posizioni (fino a poco prima strenuamente difese) per una sorta di politically correct che ci permette di rimanere nel circo mediatico, di fare di tutta un'erba un fascio, di raccogliere consensi, di presentare il volto di una politica inclusiva, di un mondo di letterati colti, di una religione della misericordia che cancella i dogmi, le regole, le caselle in cui ordinare il proprio credere.
Riflettere su tali argomenti non significa, semplicemente, optare per il condannare o l'assolvere. Sarebbe fin troppo facile risolvere il tutto come un problema di bianco e di nero. Il problema è però quello di una onestà intellettuale che non è negoziabile e rinnegabile dinanzi al pietismo momentaneo, perché altrimenti si incappa nell'anarchia del "santo subito", con canonizzazioni socio-politico-religiose a cui tutti, sempre più di frequente, assistiamo.
Bisognerebbe, forse, in un certi momenti, imparare a tacere, e, dinanzi al mistero della morte, specialmente quella di personalità ricche di sfumature, ma anche controverse (e al netto di tutto il buono/cattivo, giusto/sbagliato che ogni essere umano accumula insieme come bagaglio di vita) ricordarsi che una preghiera silenziosa e la sospensione del giudizio canonizzatorio rimangono la migliore risposta a ciò che, appunto, rimane per noi, dell'aldiqua, un arcano. Mentre sono certezze le Verità in cui crediamo, i valori non commerciabili, e la ragione con cui possiamo applicarli nella vita di ogni giorno, rimanendo fedeli a essi, pur nell'apertura al dialogo con chi la pensa diversamente da noi. Perché la coerenza a ciò che professiamo, in fin dei conti, è ciò che ci rende veramente affidabili e degni di fede, capaci di dare una testimonianza verace, che non si inchina dinanzi alle mode del momento.

domenica 4 giugno 2023

Pensieri per lo spirito

TRINITÀ, DIO RICCO DI AMORE
«L'amore determina il futuro» (Karol Wojtyla)



La Trinità nell'Horae ad usum Parisiensem (Latin 1176, fol. 186r.), 
Parigi, Bibliothèque Nationale de France
Fonte: gallica.bnf.fr

Il Signore passò davanti a lui, 
proclamando: 
«Il Signore, il Signore, 
Dio misericordioso e pietoso, 
lento all’ira 
e ricco di amore e di fedeltà»
(Es 34,6-7).




È aggettivo di sovrabbondanza il termine "ricco": parola del superfluo, vocabolo dalle sfumature di sicurezza e dalle prospettive di tranquillità a lungo termine.
Così lo intravediamo già nella parabola lucana del ricco stolto (Lc 12,13-21), racconto che, tuttavia, non ha un lieto fine, perché la ricchezza accumulata dal protagonista non procura a quell'anima mia invocata nell'incipit la beatitudine tanto sperata. 
Eppure tale rimane – anche nell'immaginario collettivo – l'idea della ricchezza: un lasciapassare per il futuro, un salvagente per gli imprevisti, una garanzia per la propria pace.
Possedere molti beni diventa forse un antidoto alla paura dell'ignoto: arpionarsi alla ricchezza è quasi scongiurare il pericolo della malattia, della morte, l'avanzare della vecchiaia, l'inevitabilità del consumarsi dell'esistenza. Avere molti beni offre la possibilità di godersi la vita, di arraffare compulsivamente una felicità che, in fin dei conti, ci sembra sempre sfuggente, perché la sappiamo destinata a incontrare un termine ultimo. Almeno nei connotati spazio-temporali del nostro vivere terreno.
Aver accumulato e poter disporre di questo accumulo negli anni a venire sembra allora il palliativo a ogni mancanza d'altro: perché i soldi possono anche anestetizzare l'assenza di affetti.
Ma che la ricchezza materiale non sia davvero il preludio della felicità lo sottolinea sempre la Scrittura, quando Gesù sentenzia senza mezzi termini che «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Mt 19,24).
La conclusione stessa della parabola del ricco stolto ne è segno eloquente: «"Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?". Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,20-21).
La ricchezza è, allora, un'arma a doppio taglio:
 porta spesso all'eccesso, al vizio, al godimento sì, ma senza limiti, senza paletti etici e morali (in una parola: il consumo delle cose porta alla consumazione di se stessi); oppure, quando anche non si raggiungano questi estremi, conduce a delle false sicurezze, a un vivere mascherato di eternità, a una realtà virtuale in cui fingere che non esistano lo scorrere del tempo, la morte, il passaggio da questa a un'altra vita.
Non è, allora, la ricchezza in sé il punto (anzi, Gesù stesso dice che bisogna arricchirsi presso Dio), ma proprio la vita stessa.
Quale vita vogliamo vivere? Quale consapevolezza abbiamo di questa esistenza? Siamo certi che il godimento dell'oggi sia solo un preludio a quello del futuro senza fine? Sappiamo che ogni ricchezza di questa terra è un rimando a un'altra ricchezza più solida, più verace, realmente eterna?
La ricchezza può dunque diventare un simbolo, e lo è nella misura in cui ciò di cui per primo vogliamo arricchirci è l'amore. Non come possesso, ma come capacità incondizionata di donarci agli altri, in un impegno che abbia il sapore della stabilità. In quest'ottica ogni ricchezza materiale non diventa egoistica soddisfazione di bisogni personali, corsa contro il passare degli anni, isolamento nel proprio benessere, ma acquista le sfumature della condivisione, della carità, della cura dell'altro e di se stessi nell'autocoscienza di un compito di amore ricevuto da Dio.
E in questo senso anche il nostro stesso Dio è ricco. Ricco di amore e di fedeltà, come lo descrive il libro dell'Esodo nel brano della prima lettura di questa domenica dedicata alla Santa Trinità.
La vera felicità trinitaria sta tutta qui: in questa ricchezza di amore e di fedeltà, in questa relazione che fa del divino il perennemente innamorato, il perennemente donato, il perennemente fedele. Il perennemente gioioso.
Questa idea di ricchezza rovescia le nostre convinzioni su ciò che ci rende ricchi, e ci riporta all'esperienza che forse tutti noi abbiamo provato, almeno una volta nella vita. Alla felicità che pervade l'animo umano nel momento in cui si è innamorati, al senso di mistero e di eternità che l'amore scava nel cuore umano. Al desiderio di riversarsi per sempre in un altro e di sentire per sempre l'altro in sé. Tutte sensazioni (e realtà) che vanno di pari passo con l'amore.
«L'uomo ha a disposizione una esistenza e un amore» – scriveva Karol Wojtyla nella sua opera teatrale La bottega dell'orefice – «come farne un insieme che abbia senso? La gente si lascia trascinare dall'amore come se fosse un assoluto, anche se mancano le misure dell'assoluto. La gente segue la propria illusione, senza cercare d'innestare questo amore nell'Amore che ha una tale misura. Non hanno neanche il sospetto di questa necessità perché sono accecati non tanto dalla forza del sentimento quanto dalla mancanza d'umiltà. 
È una mancanza d'umiltà verso quella che dovrebbe essere l'amore nella sua vera essenza. Questo pericolo diminuisce se ne siamo coscienti. In caso contrario – il pericolo è incombente; l'amore cede sotto il peso della realtà quotidiana» [1]. 
Innestarsi in Dio, "entrare" nella Trinità, innestare il proprio amore umano nel suo amore. Ecco il segreto, perché «Dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).
La prima ricchezza dell'uomo deve essere Dio, il suo stesso amore. Solo così ogni amore umano potrà essere vero, resistente agli urti del tempo e perdurare per sempre. Proprio come l'amore di Cristo, che nella sua esperienza terrena ha amato di un amore resistente al fardello di ogni prova, anche al pesante legno della Croce.
«Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano». (Mt 6,19-20)
Perché solo «l'amore determina il futuro» [2].



NOTE

[1] Karol Wojtyla, La bottega dell'orefice, Libreria Editrice Vaticana, 1978 (ristampa 2015), pp. 81-82.
[2] Ibidem, p. 28.

domenica 7 maggio 2023

Sguardo cristiano su notizie di attualità

DI UOMINI, DONNE E COMPLICITÀ
Vera mascolinità e femminilità a partire dalla Scrittura










 


C’è qualcosa di negativo fra i vari significati della parola “complice”.
Qualcosa di così pesante che il termine ci appare spesso solo nella sua accezione oscura, facendoci pensare immediatamente a un’azione cattiva come un reato, un delitto, un furto; tutte cose in cui si opera il male perché due persone si alleano assieme per compierlo, in diversa misura. Siamo abituati, insomma, più a una complicità di cattiveria che a una di buoni propositi.
Forse, nella nostra innata tendenza all’egoismo e al disordine interiore, abbiamo dimenticato che l’essere complici ha anche un altro, e ben diverso, ventaglio di sfaccettature, comprensibili ritornando all’origine della parola, alla sua etimologia. Quella di un vocabolo che deriva dal lat. tardo complex -plĭcis, composto di con- e della radice *plek- presente in plectĕre-allacciare e anche in plicare-piegare 
Piegato, allacciato insieme, dunque. Non c’è, nella natura linguistica della complicità, l’ombra del male. Il termine è completamente svestito di connotazioni etiche, morali, legali. A noi la scelta di riempire questa neutralità di bontà o di malvagità, di giustizia o di ingiustizia, di correttezza o di scorrettezza.
Che tutto dipenda dalla nostra libertà è la Scrittura stessa a rammentarlo, squadernandoci davanti agli occhi queste due possibilità come facce di una stessa medaglia.
Nella Genesi Dio crea l’uomo e la donna, in una ricchezza semantica che solo l’ebraico biblico disvela (diversamente dalla nostra traduzione italiana), laddove  ish è l’uomo e ishàh la donna tratta dalla sua costola, con somiglianze ad altre parole quali ishiut-individualità, e ishut-matrimonio-unione. Un complesso di rimandi che completa l’idea della donna compagna che sta di fronte all’uomo come aiuto (secondo la traduzione letterale del testo originario).
L’idea dello stare “di fronte” fa pensare certamente a uno specchio, in cui, in un certo senso, l’altro possa riflettersi per vedere e costruire meglio la propria identità, la propria pienezza. Piegandosi assieme “con”, allora, si ritorna “al centro”, a quella completezza di corpo e di spirito voluta dal Creatore (i due che tornano a essere un’unica carne), ma questo è, più in profondità, il piegarsi verso Qualcuno che sta “in mezzo” a questa unità, se è vero che l’uomo è inizialmente creato a immagine e somiglianza di Dio. 
La vera complicità è allora in sé (rimanendo su un piano strettamente scritturistico) intrinsecamente positiva, orientata a un bene superiore: il piegarsi verso l’altro per raggiungere insieme l’Altro per eccellenza.
Il problema scaturisce quando (e la Bibbia lo dimostra subito dopo) il confronto speculare si spezza, e ci si piega verso altro che non è né l’altro né Dio. La tentazione di Eva immette un “quarto elemento” in questa relazione, cui consegue quanto già noto sul peccato originale e la cacciata dall’Eden.
Il problema è che il “quarto elemento”, in diversa misura, permea quotidianamente il nostro mondo di relazioni uomo-donna, e ne sentiamo echi diversi, spesso sottilmente rintracciabili anche nelle idee fuorvianti sull’idea di eros, mascolinità e femminilità.
Dimenticando le cose principali ci si ferma su quelle accessorie, e diventano preponderanti le questioni sui ruoli “istituzionali” all’interno della coppia, quelle linguistiche sulle desinenze di professioni e competenze, quelle ideologiche sulla libertà di sperimentare “nella mente”. I gossip di quest'ultima settimana hanno prodotto materiale abbondante su questi versanti della questione.
Il punto è che il femminismo sembra tradursi in una rivalsa strampalata di antiquariato della nonna, in elucubrazioni grammaticali trite e ritrite, o in una sorta di futurismo déjà vu che fa cassa (perché l’immagine aumenta le vendite!).
Sono lotte pseudosindacali che lasciano il tempo che trovano, ma che danno adito a teatrini (radiofonici, televisivi e giornalistici) rasentanti il ridicolo in quanto fluttuanti fra le questioni ormai alla moda della fluidità di genere, dell'emancipazione (in quale senso?) femminile, della parità uomo-donna (che però sembra essere poi contraddetta), e dunque non in grado di affrontare l'argomento dal punto di vista che conta, antropologicamente prima ancora che spiritualmente: quello della vera diversità fra uomo e donna che serve a costruire la vera identità maschile e femminile. E, per dirla poi su un piano cristiano, quella che serve a rendere la donna più donna nel rapporto con l’uomo e l’uomo più uomo nel rapporto con la donna, come papa Francesco sottolineava nel 2018: « Questo è l’amore. E qual è il compito, dell’uomo nell’amore? Rendere più donna la moglie, o la fidanzata. E qual è il compito della donna nel matrimonio? Rendere più uomo il marito, o il fidanzato. È un lavoro a due, che crescono insieme; ma l’uomo non può crescere da solo, nel matrimonio, se non lo fa crescere sua moglie e la donna non può crescere nel matrimonio se non la fa crescere suo marito. E questa è l’unità, e questo vuol dire “una sola carne”: diventano “uno”, perché uno fa crescere l’altro. Questo è l’ideale dell’amore e del matrimonio» (Veglia di preghiera con i giovani italiani, 11 agosto 2018). 
Non è, allora, questione di “divisioni di compiti” o di desinenze linguistiche, né tantomeno di sperimentazioni mentali, ma di tirare fuori la vera essenza del maschile e del femminile, della grazia e della virilità, della dolcezza e della forza, con l’apporto unico che ciascuno dei due sessi può dare alla società in ogni sua struttura.
Eravamo forse più avanti 30 anni fa, col famoso spot Fiat “Buonasera” (se non lo ricordate andate a rivederlo!). Ed eravamo più avanti finanche nei secoli passati, quando san Giuseppe veniva ritratto intento a cullare Gesù, mentre Maria riposa nella lettura della Scrittura dopo le fatiche del parto, oppure tutto preso dall'asciugarne al fuoco i panni mentre la Madonna si concentra nella preghiera e nell'adorazione.
Proprio lui, quell’uomo giusto del Vangelo che di sdolcinato non aveva nulla, ma che a ben guardarlo appare così profondamente uomo da affrontare le critiche di un intero villaggio per sposare la donna che ama – una ragazza che agli occhi del mondo era incinta di un altro – e così profondamente virile e coraggioso da lasciare tutto, e più volte, per proteggere la propria famiglia. Insomma, un uomo vero accanto a una donna vera, un uomo moderno accanto a una (Ma)donna moderna; due che sono affiatati e complici nella ricerca del bene.
Perché di questo ci parla, in fondo, anche la storia della Salvezza: di uomini, donne e complicità.
Di modelli da imitare, ancora oggi, per diventare veri uomini e vere donne in un mondo che ci propone delle mere contraffazioni, imitazioni interscambiabili a basso costo, sperimentazioni del maschile e del femminile che vanno e vengono come le mode sulle passerelle... o come le notizie sui giornali.

Natività dal Libro delle Ore di Besançon (XV sec.), Ms 69 f.48r, Cambridge, Fitzwilliam Museum - Fonte: Wikipedia 

Cerchia di Antoine Le Moiturier, Natività (1450 c.), New York, Metropolitan Museum of Art Fonte: Metropolitan Museum of Art

lunedì 17 aprile 2023

Pensieri per lo spirito

L'AMORE A PORTE CHIUSE

Riflessioni sul Vangelo della Domenica in Albis (ANNO A)




© Cristina Gottardi - Unsplash

 
  «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse
le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei,
venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo:
«Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».
Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo.
A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!».
Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco,
io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa
e c'era con loro anche Tommaso.
Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».
Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!».
Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto;
beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni
che non sono stati scritti in questo libro.
Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
(Gv 20,19-31)




La sera di quel giorno, il primo della settimana, a porte chiuse.
L'incipit del brano che conclude l'Ottava di Pasqua sembra un ossimoro seminato per spiazzarci, in un crescendo di contraddizioni di buio e luce, di principio e fine, di aperture e barricamenti.
A fare da collante alle figure di quest'ossimoro è il timore, quello dei Giudei certamente, ma anche il timore del cuore di ciascun discepolo, titubante e impaurito nel camminare sul filo del credere e del non credere, dello sperare e del disperare, dell'attendere e del fuggire.
Il cuore è probabilmente il vero protagonista di questo racconto: quello dei seguaci di Cristo, che infatti non chiudono a chiave solo la porta di una casa, ma anche dei loro cuori dubbiosi; e quello di Gesù, che nel suo essere sempre Colui che ama per primo non può lasciare che queste porte rimangano sigillate per sempre.
Eppure il Maestro non viene spalancando portoni, non scardinando serrature; non arriva a divellere spranghe e sfondare battenti. No, Gesù, semplicemente, entra. A porte chiuse. Nel rispetto di quel misto di paura e braci di speranza che forse albergavano nel cuore dei suoi amici. Nel rispetto del mistero dell'uomo che impone paletti, innalza steccati, costruisce trincee per proteggersi dal troppo amore e dal troppo sperare.
Così, viene Gesù. Nello stile di un Dio senza clamori, senza rombi di tuono ed effetti speciali. In fondo questo entrare a porte chiuse, che pure tanto ci sorprende ogni volta nel rileggere il brano giovanneo, fa finanche meno rumore di un bussare gentile. È il silenzio di una presenza senza squilli di tromba, senza inutili orpelli, che non viene a scatenare paure accessorie, ma solo a portare la pace, a stare "con".
Perché l'amore, sostanzialmente, è questa semplicità assoluta dell'esserci. Senza preavvisi, senza presentazioni, senza richieste, senza pretese.
L'amore, se amore deve essere, è allora sempre un amare a porte chiuse. Superando le barriere del cuore che troppo facilmente si spaventa a ogni movimento inconsulto della vita, a ogni imprevisto, a ogni passo falso degli eventi. Superando la chiusura del cuore incerto fra il crederci davvero o l'abbandonarsi al pessimismo della sola ragione; del fidarsi totalmente dell'altro o dell'opporre resistenze umane impastate di logiche materiali e psicologiche; colmando la distanza tra il finire e il cominciare, tra l'oscurità e la luce. 
Tutti, in fin dei conti, sogniamo di essere amati davvero così: negli ossimori del nostro sentire, nelle contraddizioni del nostro stesso amare, dietro quelle porte chiuse in cui solo chi ci ama davvero può conoscerci fino in fondo. Senza parlare, senza domandare. Semplicemente rimanendo con noi. Semplicemente vincendo le nostre resistenze senza violare i nostri lucchetti, con la gentilezza di chi sa straripare nell'amore per riportarci a galla. E mai per sommergerci. 

domenica 9 aprile 2023

Pensieri per lo spirito

 IL BUIO E LA LUCE

Riflessioni sulla Domenica di Pasqua (anno A)





Caspar David Friedrich, Il mattino di Pasqua (1828 – 1835),
Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid
Fonte: Museo Nacional Thyssen-Bornemisza

 
  «Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino,
quando era ancora buio
». (Gv 20,1)




La Pasqua di Resurrezione si apre fra il buio e la luce, fra il tramonto delle stelle e l’alba del sole. Come ogni risurrezione, anche quella di Gesù sorprende Maria nelle tenebre dei suoi abissi, dei suoi sconforti, del suo pianto.
E non può che avvenire così, per farci passare dalla morte (l’oscurità per eccellenza) alla vita (la luce per antonomasia). Come in una fotografia, in un dipinto del Caravaggio o di De Chirico, la luce risalta perché le ombre la fanno emergere, perché nel contrasto fra il bianco e il nero, fra l’eterea inconsistenza della luminosità e la materica pesantezza del buio si staglia l’affascinante presenza di ciò che in realtà materia non è, ma che pure tanto bene ci fa alla vista, al cuore, ai sensi tutti. La luce è bellezza, la luce è gioia, la luce è respiro vitale. Ma se tutto fosse luce, nella nostra vita e nella storia del mondo, finiremmo forse con l’esserne abbagliati. Non siamo pronti, su questa terra, alla sola e semplice luce.
Vedere Dio faccia a faccia nella sua essenza pura non è sostenibile per il nostro sguardo e, paradossalmente, a volte riusciamo a incontrarlo solo “per contrasto”: dopo il nostro peccato, dopo la caduta del fratello, in mezzo al male del mondo in cui ancora qualcuno riesce a operare solo per il bene.
Il chiaroscuro, nella sua interezza, ci mostra le mille sfaccettature della realtà e dell’animo umano, di noi stessi, persi sempre in un gioco di equilibri interiori fra la speranza e la disperazione, tra la felicità e la tristezza, fra la santità e il peccato. Il contrasto ci rende capaci di vedere la deformità del male e la prorompente silenziosità umile del bene; la contrapposizione di ombra e di luce ci rende capaci di valutare la necessità di risalire dai nostri abissi per ritrovarci nella trasparenza che ci scalda, ci purifica, ci abbellisce. Dopo aver visto il contrasto, allora, possiamo scegliere di fare della nostra esistenza un mattino di risurrezione, in cui il sole già si innalza nel cielo e la sua luce ricopre la terra: sfumature di chiarore e vaporizzazione di tenebra si fondono assieme (come nel quadro di Friedrich), e la contrapposizione non è più netta, come in pieno giorno o lungo la notte, ma tutto si fa armonia, in un passaggio tonale che preannuncia rinascita.
Credere nella Risurrezione, allora, è proprio questo: ritrovare, nel quadro della storia umana, una bellissima pagina di luce scritta in un libro fatto di buio, quel buio da cui il Cristo – la luce vera del mondo – è venuto a tirarci fuori.

Buona Pasqua di luce! 

sabato 8 aprile 2023

Pensieri per lo spirito

 IL SILENZIO DELLA RISURREZIONE

Riflessioni sul Sabato Santo (anno A)





Gherardo delle Notti, Cristo morto pianto da due angeli (1612-1613)
Palazzo Reale, Genova – Fonte: Palazzo Reale di Genova

 
  «Gli amici veri, pochi, uno? / sanno ascoltare anche il silenzio, /
sanno aspettare, capire. / Chi di parole da me ne ha avute tante /
e non ne vuole più, / ha bisogno, come me, di silenzio». (Alda Merini)




Il sabato santo è giorno di silenzio. Silenzio della morte, silenzio dopo la morte. 
È il giorno di quel torpore innaturale in cui sempre si piomba dopo il grande dolore per la perdita di una persona cara. Un silenzio in cui si fanno spazio il dubbio, l’incomprensione, i quesiti esistenziali o, semplicemente, lo sbigottimento.
Il Sabato Santo non ci chiede, però, di fare domande, di riempire il silenzio delle nostre parole. Ci chiede di sostare in questo silenzio, nell’apparente “riposo” di Dio. Di quel Dio che ha parlato, una volta e per sempre, attraverso il Verbo Incarnato. 
A noi tocca, nella fittizia assenza di suono di questo giorno, aspettare nella speranza, fidandoci di quelle parole che Egli ci ha lasciato, fidandoci cioè dell’unica, vera Parola. Rinunciando a quella nostra forte tentazione di coprire ogni sentimento, ogni situazione, ogni paura e ogni gioia, e finanche l’altro che ci sta davanti, di troppi, e spesso inutili, superflui vocaboli che nulla aggiungono all’esenzionale di ciò che viviamo, di ciò che conta, di ciò che siamo.
D’altronde, sul parlare e sul tacere Gesù è stato chiaro: «Pregando non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7) e «Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno”» (Mt 5,37). Perché, come recita un antico proverbio, «la parola è d’argento, il silenzio è d’oro» ed è vero allora quanto afferma il Quoelet: c’è «un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Qo 3,7).
Dio non è per l’eccesso, ma per l’equilibrio: il troppo parlare diventa uno spreco della parola stessa, il depotenziamento della sua puntualità, della sua concisione che sa andare dritta al nocciolo della questione. Se parlare diventa l’atto sublime che mette in comunicazione due creature, e, soprattutto, il Creatore e la sua creatura, il troppo parlare diviene spreco, il mandare in malora (da exprecari) quando non, addirittura il maledire, come raccontano i verbi deprecare e imprecare, contenenti la stessa radice etimologica del pregare.
Gesù ha saputo parlare perché ha saputo anche tacere e ascoltare. Ascoltare non solo le voci del mondo – voci di protesta, di richiesta, di rifiuto – ma addirittura il silenzio del Padre sulla Croce, nel momento dell’estremo bisogno di una parola di salvezza. In quel silenzio Cristo è riuscito a pronunciare il proprio sì, intuendo che se Dio tace non è per negare le sue promesse, ma per insegnarci la fiducia nella Parola verace che non tradisce. E così Gesù ha anche ascoltato il silenzio del mondo, il silenzio di chi si è lavato le mani scappando da sotto la croce, il silenzio di chi ha avuto paura, il silenzio di chi è rimasto nell’indifferenza. Un silenzio al quale Egli dà il beneficio del dubbio nella richiesta di perdono per tutti al Padre, perché «non sanno quelli che fanno» (Lc 23,34). 
E ancora oggi Cristo ascolta il silenzio delle nostre fughe, dopo le nostre troppe parole vane di fedeltà incondizionata. Come un vero amico sa rispettare i nostri silenzi, le nostre “sparizioni” nel buio della notte, attendendo il nostro ritorno.  
Ora chiede a noi di essere suoi veri amici e di ascoltare il suo tacere, di aspettare con fiducia ricordando ogni sua promessa, nell’assenza di altre parole – sue e nostre –, che la Parola si compia, che la vita rinasca.
Nel silenzio della Risurrezione. 

venerdì 7 aprile 2023

Pensieri per lo spirito

   IL VOLTO DEL PECCATO

Riflessioni sul Venerdì Santo (anno A)





La Sindone di Torino - Fonte: MeteoWeb

  «Non ha apparenza né bellezza / per attirare i nostri sguardi, / non splendore per poterci piacere. / Disprezzato e reietto dagli uomini, / uomo dei dolori che ben conosce il patire, / come uno davanti al quale ci si copre la faccia; / era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima». (Is 53,2-3). 



Il peccato è brutto, lo sentiamo dire fin da piccoli, a partire dalle lezioni di catechismo. Ne parliamo anche da adulti, arrivando addirittura a dire di qualcuno che «ha la faccia del peccato»!
Ma davvero il peccato ha un volto? E com’è questa faccia? Che tratti ha?
Per capirlo è necessario tornare indietro, andare agli inizi, a quando Dio crea l’universo improntandolo a un canone di bellezza/bontà sintetizzato, nella versione italiana della Genesi, nella pericope «Dio vide che era cosa buona» (Gn 1,10; 12; 18; 21; 25). Che diventa «cosa molto buona» (Gn 1,31) dopo la creazione dell’essere umano. In quell’aggettivo, buona, si nasconde anche la radice della bellezza, nel termine greco tôb, il cui significato oscilla proprio fra buono e bello.
Il volto dell’uomo, dunque, è inizialmente un volto di bellezza, perché riflesso della potenza creatrice di Dio, della sua luminosità, della sua trasparenza. È l’ingresso del peccato che ne sconvolge le fattezze, deturpandolo nella disobbedienza dal volere divino.
C’è un’opera d’arte, in particolare, che coglie proprio questa sottigliezza: la Cacciata dei progenitori dall'Eden di Masaccio [1]: i volti di Adamo ed Eva, che nella raffigurazione di Masolino (stessa Cappella) sono rigogliosi nella giovinezza eterna e nella totale innocenza, diventano ora privi di ogni fascino. Adamo si copre la faccia in preda al dolore e alla vergogna, quasi che il suo volto non meriti più di essere visto; il viso di Eva si contorce nel dolore, lo sguardo si assottiglia, la bocca si apre in una smorfia cupa. La bellezza/bontà non esiste più per “diritto acquisito”, è stata perduta. Va riconquistata.
E proprio Gesù, come nuovo Adamo, viene a recuperare per noi questa bellezza/bontà del volto umano. È il più bello tra i figli dell’uomo, così viene definito dalla Scrittura. Si può solo provare a immaginare quanto la sua persona – e il suo viso in particolare – siano stati ricolmi di bellezza, esteticamente armonici, capaci di trasmettere qualcosa della bontà del suo animo, dello splendore della sua divinità.
Ma proprio come nuovo Adamo, Gesù deve passare attraverso il crogiuolo della sofferenza: il peccato del primo uomo – il peccato dell’umanità – si abbatte su di lui, o meglio, Egli se ne fa volontariamente carico.
Gesù, il bellissimo Figlio di Dio, si riveste di bruttezza: della nostra bruttezza, dell’orrore del nostro peccato, della mostruosità della nostra disobbedienza. Pur non conoscendo la caduta nella colpa, ne assume il volto, il dolore, la ferita mortale.
E ci chiede di avere compassione, misericordia per Lui: perché non si ama per l’aspetto esteriore, per una risposta a dei semplici canoni estetici, in una ricerca spasmodica della perfezione materiale. Il Figlio di Dio resta sempre il più bello tra i figli dell’uomo anche nel momento della sua massima decadenza fisica. Non viene intaccato il suo intimo: il vocabolo qui utilizzato non è quel tôb che rimanda anche alla bontà, ma un termine che di riferimento esclusivo all'apparenza esteriore.
Ciò che Gesù è veramente, infatti, non muta, la sua sostanza rimane al di là di ciò che si può vedere con i soli occhi del corpo.
Il suo essenziale, parafrasando Antoine de Saint-Exupéry, rimane, ma rimane invisibile agli occhi.
Perché l’amore ci chiede sempre di andare oltre le semplici apparenze per guardare al cuore, dove dimora la vera essenza, il vero tesoro di ogni essere umano; perché l’amore ci chiede di amare anche quando passa l’innamoramento; perché Dio ci chiede di ritornare a Lui anche quando cadiamo.
È proprio Dio, infatti, che ci ha amati per primo: ci ha amati anche e nonostante il nostro abbruttimento nel peccato. Ci ha amati così tanto da inviare suo Figlio, la Bellezza Eterna, il buon/bel Pastore, perché Lui assumesse il nostro volto deformato, per farlo tornare a splendere di una bellezza che non è, semplicemente, di questo mondo.

[1] L'opera (1424-1425) si trova a Firenze, presso la Cappella Brancacci di Santa Maria del Carmine.

giovedì 6 aprile 2023

Pensieri per lo spirito

   IL TEMPO E L'ETERNO

Riflessioni sul Giovedì Santo (anno A)




Anselmo da Campione, Gesù lava i piedi agli apostoli (1200-1225), 
Duomo di Modena – Fonte: Podologia Sana Pianta


  «Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine». (Gv 13,1). 



Il Giovedì Santo si gioca su un contrasto temporale sintetizzabile nel concetto de “l’ora e la fine”. Un binario che non si sdoppia solo lungo la vita di Gesù, ma che riguarda anche Pietro e, in lui, ogni discepolo.
Gesù viene ad amare l’uomo nel tempo, nell’ora che lo conduce alla Passione di Croce, ma il suo amore si proietta sino alla fine, in un “oltre” che valica i confini del tempo stesso. Quella fine, infatti, ha tanti significati: fino all’ultimo istante di vita; fino alla perfezione, come compimento della propria missione; fino a dare tutto; fino a raggiungere ogni uomo; fino ad attirare tutti a Sé, al fine ultimo di ogni cosa creata; fino a un per sempre in cui l’amore sarà tutto in tutti [1].
Il tempo e il non tempo sono dunque intimamente connessi, perché l’esperienza umana, storica che Gesù vive in questo mondo non è fine a se stessa, ma segue una traiettoria che la supera, in una continuazione che procede ininterrotta nel “futuro” senza coordinate temporali.
Anche quanto accade a partire dal dialogo con Pietro sembra voler indicare questa stessa verità. «Tu non mi laverai i piedi in eterno» / «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,8; 10; 14). Tutto quello che Gesù fa su questa terra acquista valore in vista dell’eternità, e in questo siamo tutti coinvolti: se Pietro sarà lavato allora sarà puro in eterno, e se i discepoli saranno lavati allora dovranno fare altrettanto agli altri. La vita di Gesù è un passaggio di consegne: la sua donazione è affinché anche noi ci doniamo allo stesso modo agli altri. Perché solo donando la vita potremo ritrovarla nella risurrezione. 
In questa interazione tra presente e futuro, fra tempo ed eterno, il vero collante è l’amore, come anche san Paolo saprà poi ben dire: «La carità non avrà mai fine» (1Cor 13,8).
L’amore con cui viviamo non si cancella, ma produce effetti duraturi, si iscrive nel libro vero della vita, rimane cesellato in Dio, unica e vera sorgente dell’amore. Di questo ci parla il reale servizio sotteso alla lavanda dei piedi, al comandamento nuovo che Gesù ci lascia in questo Giovedì di Passione: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). L’amore non si esaurisce perché Dio – l’Amore vero – è inesauribile.
Il comandamento nuovo, allora, è questo: amare nel tempo per amare nell’eternità; amare ora per amare fino alla fine, in un passaggio continuo fra la storia e l’infinito, fra il giorno che finisce e il giorno senza tramonto. Tra le nostre dolorose giornate di passione e la Domenica infinita che ci attende nell’eternità.

[1] Cfr. http://chiamatiallasperanza.blogspot.com/2016/03/pensieri-per-lo-spirito_24.html

mercoledì 5 aprile 2023

Pensieri per lo spirito

  IL PREZZO DELLA COSCIENZA

Riflessioni sul Mercoledì Santo (anno A)




János Pentelei Molnár, Giuda riceve 30 monete d’argento per aver tradito Gesù (1909)
Fonte: Wikipedia


  «Il Signore ascolta i miseri /e non disprezza i suoi che sono prigionieri». 
(Sal 69,34)



Punto cruciale delle narrazioni evangeliche di questi sei giorni (dato che il Sabato Santo non c’è Liturgia) è (anche) il tradimento di Giuda, uno dei protagonisti (o l’antagonista che dir si voglia) delle pagine bibliche che ci accompagnano nel cammino di Gesù verso la Croce.
Proprio così: Giuda, figura che ritorna più e più volte, come se a ogni rilettura eccessiva avesse sempre un nuovo tassello da aggiungere al puzzle della nostra riflessione, imponendosi con la sua presenza scomoda, che ci riempie di sentimenti contrastanti.
In effetti Gesù da solo, come personaggio principale, ci direbbe forse poco: non ci basta che un Dio ci salvi, abbiamo bisogno di vedere fino a che punto il suo amore possa spingersi, quanto possa lottare per ciascuno di noi, fino a quale misura sia capace di arrivare per dimostrare la sua vicinanza a ogni essere umano. Don Bosco tradurrebbe questo pensiero con il suo famoso imperativo, che per estensione si può applicare a tutti, senza distinzione di età: «Non basta amare i giovani: occorre che loro si accorgano di essere amati».
Siamo fatti così e questo è anche giusto e normale. Non desideriamo un amore a parole, ma di fatti; non ci sentiamo appagati dall’essere amati quando siamo “impeccabili”, ma desideriamo esserlo anche e soprattutto quando inciampiamo nelle nostre incoerenze, incostanze e incomprensioni. È il bisogno stesso della salvezza in sé che alberga in noi, nel desiderio di essere amati. E salvezza rimanda, etimologicamente, a salvo, termine che deriva dalla stessa radice di salute. Perché «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Mt 9,9-12).
Il Salmo odierno, con parole differenti, rimanda a questa stessa sorgente concettuale: Dio non ci ama perché siamo sempre buoni e perfetti, ma perché abbiamo un valore insito che ci rende, potremmo dire usando un termine teologicamente scorretto, “meritevoli” di essere amati: siamo stati creati a immagine e somiglianza sua e Dio non vuole che perdiamo questa impronta di divinità in noi. Di più: siamo stati riscattati dal Figlio di Dio attraverso il sacrificio di Se stesso. «Siete stati comprati a caro prezzo», dirà poi san Paolo (1Cor 6,20).
È un’apparente contraddizione, allora, quanto accade nel Vangelo di oggi. Ascoltare le parole dure di Gesù verso Giuda è come assistere alla negazione di questo valore dell’uomo e della capacità infinita di Dio di amarlo nonostante tutto. Ma la pedagogia del Cristo è più sottile: il rimprovero di Dio, l’ammonizione, l’avvertimento… non sono mai per scoraggiare la creatura o per condannarla. Sono per scuoterne la coscienza, per aprirle gli occhi, per farla ravvedere. È la missione di Gesù chiamare i peccatori, smascherare la menzogna per far posto alla verità... richiamare le coscienze. Ma bisogna riconoscere di essere malati per essere guariti; imperfetti, per essere amati, altrimenti si corre il rischio di fare come Giuda: sentirsi scoperti, ma continuare a vivere nella finzione. Perché la comprensione della verità alberga nella nostra coscienza e ci impone di accoglierla e di obbedirle. Ma la coscienza si può anche tacitare, e allora la verità viene inghiottita in noi dal buio e diventiamo tenebre, incapaci di lasciarci illuminare dalla Luce vera.
«Alcuni dei maggiori crimini dei giorni nostri» – diceva Joseph Ratzinger nel 1994 – «sono stati perpetrati, e lo sono tuttora, proprio in nome della coscienza individuale come se non esistesse una norma superiore. La coscienza non crea la verità ma si limita a individuarla e attuarla» [1]. 
Questo è il grande dramma umano del peccato: sapere che un Dio esiste, che una Verità c’è, ma mettere a tacere la coscienza che reclama spazio a ciò che è giusto e vero. E allora noi stessi, nel dare un prezzo per la “svendita” di Dio svalutiamo noi stessi, ci “de-prezziamo” nel “dis-prezzarci”: «Vale poco una coscienza, o miei cari fratelli, trenta denari» (don Primo Mazzolari). Quanto il prezzo del tradimento di Giuda.
Quanto il costo della sua disperazione.

[1] Benedetto XVI: inno alla coscienza, Sito internet dell’Agenzia Sir

martedì 4 aprile 2023

Pensieri per lo spirito

 GLI SPAZI DEL CUORE

Riflessioni sul Martedì Santo (anno A)





L’Ultima Cena (1400–1410), nel Ms. 33, fol. 286v, J. Paul Getty Museum, Los Angels 
Gesù porge il boccone a Giuda, un boccone nero come lo spirito del Maligno che sta entrando in lui. 
Perché non ci giova timbrare il cartellino di un’Eucarestia se non viviamo in vera comunione con Cristo
Fonte: J. Paul Getty Museum Blog

 
«Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui». 
(Gv 13,27)




Quante volte ci capita di ricorrere a un’espressione un po’ forte: “Non sputare nel piatto in cui mangi”! Un modo di dire che sottolinea il valore del cibo che è vita, donazione, fatica e sudore, provvidenza, grazia e benedizione per cui essere riconoscenti. Frutto della terra e frutto del Cielo, opera dell’uomo e opera di Dio. Se questo vale per il cibo “materiale” quanto più esso è vero per quello spirituale: il Corpo di Cristo sotto le specie del pane, quel pane spezzato e donato ai discepoli nell’Ultima Cena.
Di questo Corpo anche Giuda si nutre, e, paradosso dei paradossi, dopo aver ricevuto Dio in sé, in lui entra anche un altro, uno che è tutto l’opposto di quel Maestro che ha davanti: il demonio, il male, il buio, l’angelo ribelle... il divisore.
È un contrasto drammatico che sembra assumere davvero i toni geometrici di una divisione di spazi: Giuda si alimenta di Dio, ma non sa dargli nel proprio cuore il posto che gli spetta; un altro allora prende dimora in lui, divorando la luce che voleva risanarlo. Anche questo sembra un fallimento: la morte di Dio nell’animo del discepolo, un anticipo della Passione, della Croce di Gesù in cui il male sembra sconfiggere il bene.
Ma il deicidio nel cuore dell’uomo non è il fallimento di Dio, è il fallimento dell’uomo stesso che non si lascia plasmare da chi accoglie in sé. Vale, per parafrasi, la frase di san Paolo (riferita a ben altre questioni “alimentari”): «Chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce secondo coscienza; tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza è peccato» (Rm 14,23).
È il risultato dell’ipocrisia dello stare accanto a Gesù senza amarlo davvero, senza provare ad assumere il “suo” punto di vista sulla vita, sulle cose e sugli altri. È il deicidio frutto della menzogna, della maschera dell’io, della sequela interessata, della «grazia a buon mercato» (Dietrich Bonhoeffer) senza vera sequela. Di questo deicidio si macchia Giuda, e di questo deicidio rischiamo di macchiarci anche noi ogni volta che crediamo che basti timbrare il cartellino di un’Eucaristia o di una preghiera per essere giusti agli occhi di Dio, nella verità assoluta, dimenticando invece che accogliere davvero il Signore in noi significa attribuire a Lui la totalità del nostro spazio interiore e lasciarci trasformare da Lui, diventare come Lui, capaci di guardare ogni realtà e ogni creatura con i suoi occhi: con uno sguardo di luce, di compassione, di giustizia, di verità senza compromessi; con uno sguardo di obbedienza al Padre; con uno sguardo di servizio per amore.

lunedì 3 aprile 2023

Pensieri per lo spirito

 OGNI UOMO È UN'ISOLA?

Riflessioni sul Lunedì Santo (anno A)




Frammento di sarcofago con Cristo e gli Evangelisti su una nave (325-350 c.), Roma, Musei Vaticani
L’opera si ricollega alle frequenti raffigurazioni marine tipiche dell’arte antico greco-romana, 
ampiamente usate in chiave cristiana per decorare i sarcofagi. Il nocchiero è Cristo e sulla destra si 
intravede ciò che rimane del basamento di un faro - Fonte: VisitItaly
 

«E le isole attendono il suo insegnamento». 
(Is 42,4)




È parola di terra e di acqua, di solitudine e di socialità, l’isola. Parola di paradiso e d’inferno, di riposo e di noia, di disperazione e di speranza. È parola, anche, di attesa, nell’evocazione (probabilmente nata per imprinting letterario) che essa esercita su di noi: di quanti naufragi raccontano le pagine dei grandi scrittori: deviazioni di percorso in cui si aspetta, nello sperduto punto verde in mezzo alle acque, che giunga finalmente qualcuno a salvare i dispersi.
Perché il mare che avvolge la terra isolata la inghiotte, e non ne può saziare la sete. Perché la solitudine del naufragio non ci colma la vita. Perché – come filo conduttore di questa Settimana Santa – anche il Lunedì ci ricorda che “nessuno si salva da solo”. L’isola è metafora del nostro cammino, dei nostri inizi, delle nostre cadute in cui ci isoliamo nelle nostre incoerenze, nelle nostre fragilità, nelle nostre incomprensioni, nelle false sazietà del mondo, e ci lasciamo circondare dal mare che ci toglie relazioni con gli altri, ma, soprattutto “la” relazione con l’Altro.
Sempre, allora, attendiamo che “altro” dal mare arrivi, mentre continuiamo a sventolare la bandiera bianca che segnala la nostra presenza; sempre aspettiamo che giunga qualcuno a portarci quell’acqua viva che, sola, veramente disseta per la vita eterna. L’isola può ricordare, ma per un attimo soltanto, il paradiso: lussureggiante, incontaminata, incastonata nel mare di zaffiro. Ma, alla lunga, questo brandello di terra si fa isolamento, luogo di reclusione forzata dove ci si imbruttisce nel prosciugarsi di ogni contatto umano, e su cui nulla rimane per sopravvivere, per vivere veramente. Se inizialmente cerchiamo l’isola come Eden perduto alla fine attendiamo, a volte anche senza saperlo consapevolmente, che giunga l’Unico veramente capace di far «uscire dal carcere i prigionieri, / dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,7): è Colui che salva Lazzaro dall’isola cupa della morte fisica, ma perché Lazzaro si lascia salvare, perché Lazzaro non si è mai separato dal Cristo, nello spirito; è Colui che, ancora una volta, vorrebbe salvare anche Giuda, ma Giuda (e ci fermiamo al dato del Vangelo senza tracciare speculazioni sul “dopo”) rimane sempre, anche in questo brano odierno, l’uno dei suoi discepoli che decide di fare da sé, di vivere sulla propria isola di ideali politico-religiosi e di interessi economici.
«Nessun uomo è un’isola» (John Donne), ma, si potrebbe dire, solo nel momento in cui comprende che tutti abbiamo la tendenza, per motivi e in circostanze differenti, a farci proprio ciò che non siamo, a trasformarci in isole. A noi decidere se permettere a Cristo di camminare sulle acque per venirci incontro e salvarci, o rimanere inghiottiti nell’isolamento del mare, dove la vita, nell’apparente del rigoglio della natura, si estirpa in noi per orgoglio, per superbia, per cecità del cuore.

domenica 2 aprile 2023

Pensieri per lo spirito

OBBEDIENZA E RIBELLIONE

Riflessioni sulla Domenica delle Palme (anno A)




L’ingresso di Gesù a Gerusalemme nel Ms. Yates Thompson 15 (Francia, 1300 c.) f.17v
custodito presso la British Library di Londra - Fonte: British Library di Londra


«Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me”». 
(Mt 21, 1-2)





Mandare è verbo di movimento, di azione, ma, soprattutto è verbo di fiducia. Mandare, da man(um) – dare, ossia «dare la mano». Parola di consegna, di affidamento totale.
Gesù, nel disporre ogni cosa per il suo ingresso trionfale a Gerusalemme, non fa tutto da solo. Delega, dispone che altri facciano per lui, che partecipino alla sua opera. Sono sempre a due a due, come fin dall’inizio essi erano stati “mandati”: perché la sequela non è mai solo un fatto privato, ma sempre mio e dell’altro che mi è accanto; perché il mio compagno di viaggio è colui che mi sostiene, mi sprona, mi incoraggia, mi dà l’esempio; perché l’altro è il simbolo vivente del fatto che “nessuno si salva da solo”.
 A due a due, non di più, perché in troppi si rischia la dispersione, l’ascolto di tante voci disparate che possono farci smarrire; perché il cuore ha bisogno di trovare un rifugio sicuro in qualcuno di cui potersi veramente fidare, nell’intimità di una vicinanza più stretta. Anche stavolta, dunque, Gesù “manda”, mettendo qualcosa di sé nelle mani degli altri, dei propri discepoli, esattamente come farà più avanti, per la preparazione dell’Ultima Cena (è in particolare la versione di Marco a sottolineare la dimensione della dualità dell’invio).
Niente, della vita di Cristo, è soltanto e semplicemente suo: tutto è anche di chi lo segue; tutto viene consegnato, compartecipato, condiviso. Non si tratta, come potrebbe apparire a una prima lettura un po’ superficiale, di un semplice “comandare”. Gesù non è il re che impartisce ordini per dimostrare la propria superiorità e tenere al loro posto i propri subordinati. Non cavalcherà, infatti, il cavallo (nel nostro ideale umano associato a principi e sovrani), ma la ben più modesta asina, secondo l’oracolo del profeta Zaccaria sul re umile, vittorioso, giusto, che giunge in groppa proprio a un’asina (Zc 9,9-10).
Il mandare di Gesù è il desiderio di ricreare l’alleanza Uomo-Dio spezzata dal peccato; è il riflesso della mentalità trinitaria impastata di comunione; è il segno della totale scommessa di Dio sull’essere umano, che Egli reputa capace di poter rispondere alla domanda di verità, di giustizia, di amore, alla sua missione di pace. Il mandare di Gesù è l’espressione della consegna di un compito ben preciso, che in questa vita ciascuno di noi riceve, e di cui – per previdenza divina fin dalle pagine della Genesi – non siamo depositari nella solitudine, ma nella preziosa alleanza della compagnia, dell’amicizia di un altro con cui condividere la stessa missione di grazia. In due, forse, è più facile rimanere saldi al compito ricevuto, custodire quel dono che Dio ha deposto fra le nostre mani. Da soli si rischia di non avere più nessuno che ci apra gli occhi sul buio che ci attraversa l’animo, e di passare dall’obbedienza come risposta al dono alla ribellione come incomprensione del progetto divino.
Anche Giuda sarà stato mandato “a due a due” nella sua esperienza di discepolato. Ma a un certo punto avrà deciso di camminare da solo: «Uno di voi mi tradirà» (Mt 26,21). È questo, forse, il suo errore più grande, il rifiuto di Dio e il rifiuto dell’uomo come rifiuto dell’altro che si vede – erroneamente – come una condanna, un intralcio ai propri piani.
Ma nel rinnovamento di tutte le cose che Gesù viene a portare, l’altro non deve essere più chi mi blocca o mi trascina al peccato, ma lo specchio capace di riflettere la mia luce e anche la mia oscurità, per aprirmi gli occhi quando la mia cecità sta per farmi cadere.
Luce del mondo, lampada sul candelabro, aiuto simile a me, perché con me condivida i dubbi, le paure, le tentazioni, e mi aiuti a superarle, nella certezza che il dono ricevuto non viene da noi, semplici e povere creature, ma da Uno più grande, quell’Uno in Tre che di affidamento, obbedienza, umiltà e luce ben se ne intende, molto più di noi.