mercoledì 31 marzo 2021

Pensieri per lo spirito

 METTERE LE CARTE IN TAVOLA

Meditazioni per la Settimana Santa



Ultima Cena (IX sec.) nell'Abbazia di Sant'Angelo in Formis (Caserta)


 Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!». Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto».
(Mt 26, 20-25)





Mettersi alla stessa tavola e mettere le mani nello stesso piatto
Sono i gesti che si compiono fra amici e familiari, sono gesti attraverso cui si dovrebbe declinare un atteggiamento più profondo del semplice mangiare: la condivisione degli stessi intenti, dei medesimi valori, di un affetto profondo. La mensa e il piatto diventano il luogo dello scambio di idee, preoccupazioni, premure e aspettative. La mensa come una tavola rotonda attorno a cui discutere delle piccole e grandi cose della vita; il piatto come una bilancia su cui pesare la qualità degli affetti, lo sviluppo delle relazioni, l'intensità e la verità del vivere assieme. La tavola come simbolo della decisione di stare con qualcuno per un tratto del cammino, per condividere un'esperienza di vita, per seguirlo, mangiando lo stesso pane di fatiche e successi, delusioni e gioie, ideali e fini.
Chi si siede attorno alla stessa mensa, chi mangia nello stesso piatto, lo fa sempre con qualcun altro, un qualcuno a cui non può rimanere indifferente: la dinamica che si viene a creare è necessariamente quella della relazione. Scelgo o accetto di  sedermi alla stessa mensa di qualcuno. Scelgo di percorrere la mia esistenza in solitaria oppure scelgo o accetto di camminare assieme a un'altra persona.
A sottolinearlo è anche il fatto che Matteo aggiunga un altro dettaglio, identificato dalla preposizione con: Gesù si mise a tavola con i suoi così come il traditore metterà la mano nel piatto con Gesù. 
Gesù ha chiamato, e i discepoli hanno risposto. Ha risposto anche Giuda, ma il suo camminare non è stato sincero, o non lo è diventato da un certo punto in poi; così la tavola diventa proprio il luogo in cui si svelano i pensieri del suo cuore. «Mettere le carte in tavola» recita un modo di dire. Questo chiede Gesù a Giuda, quando afferma che uno dei dodici lo avrebbe tradito; quando indica apertamente il "segnale" per riconoscere il traditore; quando, ancora, invita il discepolo a fare presto quello che vuol fare. Sembra che il Maestro lo inviti a venire fuori, alla luce del sole, a chiarire apertamente la sua posizione. Gesù, come farà in seguito, chiamandolo ancora "amico", dimostra a Giuda che, pur "sapendo", lo ha accolto comunque alla propria mensa, ha accettato di mangiare assieme, gli sta dando ancora una possibilità. Una possibilità di riguadagnare la sua fiducia, di fare un passo indietro, di cambiare idea. Perché la tavola può essere anche il luogo della riconciliazione, della pace fatta, del perdono chiesto e ottenuto... come nella parabola del Figlio prodigo.
Ma, si sa, la tavola può diventare anche il luogo del disaccordo, il palcoscenico dell'inganno e del tradimento.
Perché nel piatto in cui si mangia si può anche sputare. E Giuda sembra dimenticare le tavole comuni, i piatti condivisi, il discepolato vissuto alla sequela di Cristo. Piuttosto che sputare il rospo della verità preferisce sputare nel piatto in cui aveva mangiato, rinnegando quanto aveva vissuto assieme al suo Maestro, dimenticando la Verità, preferendo il denaro all'amicizia.
Anche la nostra vita è fatta di mense comuni e piatti condivisi, di relazioni e di cammini percorsi assieme. L'Ultima Cena ci invita a non dare queste "mense" per scontate, e ci sprona a preferire il dialogo sincero alle intricate trame dell'inganno e del silenzio.
Perché ogni tavola è quella in cui, nella relazione con l'altro, si gioca anche la nostra relazione con l'Altro, con Colui per il quale giochiamo sempre a carte scoperte... attorno alla tavola del nostro cuore.

martedì 30 marzo 2021

Pensieri per lo spirito

 USCIRE CON LA VESTE MIGLIORE

Meditazioni per la Settimana Santa




Nikolai Nikolaevich Ge, L’ultima Cena (1863)


 I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». Rispose Gesù: «È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò». E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariòta. 
Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. 
Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte.
(Gv 13, 22-27; 30)





Mangiare, entrare, uscire. 
I verbi cardine del Martedì santo potrebbero essere questi. Tre verbi di movimento ricchi di significati e di risonanze bibliche, tre parole che richiamano altre parole di Gesù, altri ammonimenti per i discepoli; tre verbi che rimandano alle condizioni esistenziali dell'essere umano, e a quelle più profondamente spirituali.

Mangiare è innanzitutto un gesto di vita: il cibo è energia, forza. Rimanerne senza è pericoloso. Perché di fame, letteralmente, si muore.
Mangiare, ancor di più, è un gesto "sacro" di vita: la sua sacralità gli deriva dal fatto che il cibo è dono di Dio. Nelle primissime pagine della Bibbia è il Creatore a "piantare" alberi da frutto nel giardino dell'Eden, e a creare gli animali della terra e dell'acqua, affidati alle cure dell'essere umano. Tutto deve essere "pronto", "apparecchiato" per l'uomo prima che questi faccia la sua apparizione.
Mangiare è poi un gesto così sacro da essere scelto da Gesù come ultimo atto di condivisione coi suoi; e mangiare è il gesto sacro che Egli stesso ha voluto per rimanere sempre con noi, diventando culmine e  fonte della vita cristiana in un pezzo di pane: l'Eucaristia.

Ciò che si mangia entra nell'uomo: il boccone che Gesù porge a Giuda passa attraverso le mani del Maestro, poi quelle del discepolo, ed entra infine in lui attraverso la sua bocca.
Mangiare è verbo che richiama – in senso lato – l'adorare, ad orare, portare alla bocca. Si "santifica" ciò che si mangia se nell'atto stesso del nutrirsi ci si ricorda che il cibo è un dono di Dio, oltre che delle mani dell'uomo. Il cibo è "sacro", perciò non va sprecato... lo abbiamo sentito ripetere tante volte dai nostri genitori e forse ancora di più dai nostri nonni, da quelli che di più hanno faticato per ricavare il cibo dalla nuda terra. Il cibo è sacro, e ci permette di adorare Dio nella sua bontà di Padre che si premura anche nel donarci il nutrimento per il corpo. 

Che sentimenti e quali atteggiamenti provoca allora in noi il nutrirsi? Di ringraziamento nel poco come nel molto, o di rabbia verso chi ha di più, nei confronti di chi fa sperequazione con le risorse della terra, o, ancora, di inquietudine per il futuro?
Cosa "esce" del nostro cuore in relazione a quest'atto simbolico e materiale del mangiare?
Abbiamo fiducia nella Provvidenza di Dio, quel Padre a cui Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno il "nostro pane quotidiano"? Abbiamo la stessa fede e capacità di condivisione della vedova di Sarepta di Sidone, che credendo alle parole del profeta Elia, prepara una piccola focaccia con quel poco che aveva in casa, e ha di che sfamarsi, lei e tutti quelli di casa e il profeta stesso, per diversi giorni; abbiamo la stessa fede dei discepoli, che sulla parola del Maestro distribuiscono i cinque pani e due pesci di un ragazzo a migliaia di persone, raccogliendone alla fine anche dodici ceste di avanzi?
Oppure siamo come il ricco epulone, comodamente seduto attorno alla sua mensa imbandita, che non ha compassione per il povero Lazzaro, che si sarebbe accontentato solo delle briciole di quella tavola? «Pancia piena non crede a chi è a digiuno»... per dirla con un detto popolare. Solo a pancia vuota, nell'Aldilà, il ricco si accorgerà, infatti, (ma in ritardo) del male fatto.

Non è ciò che entra in noi a renderci impuri, ma ciò che coltiviamo nel nostro cuore (cfr. Mc 7, 18-23), da questo dipende che la sazietà non ci accechi; che l'abbondanza non ci renda sempre più avidi; e che il dono anche di un semplice boccone – come quello che Giuda riceve da Gesù – non perda il suo valore "simbolico" oltre che materiale, ma che conservi tutto il suo valore, anche "affettivo"... quando ci viene da una persona cara.
Mangiare è un atto sacro, eppure può diventare anche una tentazione. Ma rispondere a questa è in potere di ognuno di noi. Adamo ed Eva cedono alla seduzione del serpente e si nutrono del frutto dell'albero che non dovevano toccare; Gesù, invece, alla tentazione nel deserto di trasformare le pietre in pane risponde ricordando a ognuno di noi che «non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).
In conclusione, ciò che esce da noi non è diverso da noi. il Verbo di Dio era Dio, la Parola del Padre,  ed è "uscito" dalla sua dimensione di totalmente Altro per essere la Parola incarnata. Ma nella sua esistenza umana ha deciso di ribadire ogni giorno questo suo sì, nutrendosi nel profondo di Dio Padre.
Non possiamo incolpare altri o altro del nostro agire e del nostro essere. Siamo noi stessi a "uscire" fuori per quello che intimamente abbiamo deciso di essere, buoni o cattivi, giusti o ingiusti, credenti o increduli. A volte si può mentire, ma la menzogna non dura per sempre. Giuda, dopo aver fatto entrare in lui il boccone uscì: uscì allo scoperto, col piano di tradimento che fino ad allora aveva progettato. E se anche in quel momento era notte, Gesù già "sapeva", e sapeva il discepolo prediletto... e tutti gli altri l'avrebbero scoperto, più tardi. Perché il tempo della finzione, per quanto sembri solo un luogo comune, ha sempre i minuti contati.

Mangiare-entrare-uscire devono diventare i verbi del cuore. 
Con cosa nutriamo il nostro cuore, per renderlo migliore, più buono, più generoso, più fedele? Permettiamo a Dio di entrare in esso non dall'esterno, ma dal profondo della nostra anima, perché lo trasformi a sua immagine e somiglianza? Solo un cuore abitato da Dio uscirà fuori, allo scoperto, con la sua veste migliore: la veste dell'amicizia, della fedeltà, dell'amore.

lunedì 29 marzo 2021

Pensieri per lo spirito

 QUANTO DURA UN PROFUMO?

Meditazioni per la Settimana Santa






Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo. Allora Giuda Iscariòta, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. 
Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». 
(Gv 12, 3-8)





Il Lunedì Santo è il giorno del profumo, del nardo "prezioso", che letteralmente, in greco, è definito "fedele". Una fragranza costosissima, che Maria sparge sui piedi di Gesù, attirando l'ammirazione di Cristo, ma anche lo scontento di Giuda, desideroso di fare altro con l'equivalente in denaro di quell'essenza.  
Vale tanto quanto pesa, quel nardo. Trecento grammi per trecento denari. Una perfetta equivalenza di un denaro al grammo, e di grammi e denari che sembrano volatilizzarsi, dissolvendosi solo in una scia, nel momento stesso in cui il profumo assolve al suo scopo. 
Ma dopo la perfetta matematica, nel brano di Giovanni arriva il momento dell'enigma, l'enigma del profumo: nelle parole di Giuda esso sembra essere stato tutto, irrimediabilmente, incoscientemente sprecato... in quelle di Gesù pare invece che ce ne sia ancora, e che vada destinato alla sua sepoltura.
L'evangelista o Gesù o Giuda sono forse impazziti? No, è la chiave di comprensione sta in quella parola iniziale, in quell'attributo "fedele", che evidentemente Giovanni non usa a caso.
In effetti il nardo è stato "fedele" a se stesso: proprio come il servo inutile della parabola ha fatto quello che doveva fare (cfr. Lc 7,10). Maria l'ha usato per lo scopo per il quale era stato creato: profumare. Il profumo, che è una "cosa", è stato fedele, ed è tanta la "stranezza" di questo aggettivo che le traduzioni lo riportano come "puro" o "genuino"... Eppure proprio la fedeltà del nardo – la fedeltà di una "cosa" –, stride con l'infedeltà di Giuda – l'infedeltà di una "persona". Una persona che parla del bene dei poveri mentre in verità ha in mente solo la propria avidità; una persona che dice il falso; una persona che agisce con malizia.
Il parallelo del nardo è invece Gesù, l'immagine del Dio fedele, che non può mai rinnegare se stesso, tanto che – lo dirà san Paolo  se l'uomo smette di essere fedele, Dio no, non può mai essere infedele, perché Egli non può rinnegare se stesso: Dio è la fedeltà, e in Gesù è la fedeltà in persona (cfr. 2 Tm 12,13).
E la fedeltà non contempla i concetti di spreco, parzialità, calcolo, termine. 
La fedeltà è generosa, così come dimostra il nardo, che non solo riempie di sé i piedi di Gesù, ma abbraccia tutta la casa. La fedeltà è generosa quasi fino a dare l'impressione di essere incomprensibile, irrazionale, assurda... agli occhi di molti anche un po' "stupida".
E questo perché essa sembra portare all'esaurimento: il nardo si consuma sulla carne e nell'aria esattamente così come la vita di Gesù si consumerà sulla croce.
Ma lo "spreco", in realtà, è solo apparente: il profumo, infatti, non è solo per chi lo indossa, ma allieta chiunque passi accanto a chi si è profumato; così la morte di Gesù non è solo meritoria per lui stesso, Figlio fedele al Padre, servo obbediente fino alla morte... ma è una morte che diviene fonte di salvezza tutti per gli uomini.
Ecco il "ritorno", il "guadagno" della fedeltà, quello di cui poi scriverà san Paolo, dicendo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (Cor 9,22).
L'egoismo è il vero spreco che ci toglie il "fiuto" per il guadagno della fedeltà, e la pazienza per aspettarlo... 
Sul legno issato sul Golgota il Maestro sembra porre  termine – quasi come fosse una meteora – alla sua piccola parabola di gloria di quando era stato osannato come un profeta, un guaritore, il Messia. Come il nardo, la cui fragranza finisce con l'evaporare nell'aria al passaggio del tempo, Cristo sembra scomparire nel momento della morte, e la sua chiusura nel sepolcro pare cancellarlo agli occhi del mondo.
Ma la Domenica di Pasqua racconterà un'altra storia: non tutto ciò che sembra invisibile, impalpabile, etereo è destinato a durare per poco, a finire, a essere dimenticato.
Il profumo si imprime sulla pelle, nelle narici di chi lo sente, nella sua memoria: così tanto da poterlo ricordare per anni, forse anche per tutta la vita. Allo stesso modo Dio ha voluto imprimere su di sé la nostra carne umana, diventando uno di  noi; di più: ha voluto imprimere Lui in noi, donandosi fedelmente agli uomini, pegno di una donazione eterna, perché dovunque essi vadano veramente possano dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,22). 

domenica 28 marzo 2021

Pensieri per lo spirito

L'UOMO CHE VENIVA DALLA CAMPAGNA

Meditazioni per la Settimana Santa








 Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo
(Mc 15,21)





La Settimana Santa si apre non solo con l'ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, ma anche con quello, per nulla glorioso, di una figura secondaria che si immette sulla scena della Passione: Simone di Cirene, detto anche il Cireneo. 
Marco ne tratteggia l'identikit in pochissime parole, contenute in una sola frase: tornava dalla campagna, era padre di Alessandro e di Rufo, è costretto dai soldati romani a portare la croce di Cristo. Di questo personaggio minore che fa il suo ingresso, all'apparenza, in modo così rapido da non sentirlo più nominare, la cosa che per prima l'evangelista fa balzare ai nostri occhi è che egli era "un tale" che passava, "un certo" Simone di Cirene. 
È una sorta di spersonalizzazione letteraria, che quasi contrasta con le preziose informazioni che lo stesso Marco fornisce poco dopo. Ma è un espediente che mette in risalto quanto possa variare, a seconda dei punti di vista, il "valore" di un uomo: per i romani, e nel grande gioco della storia, Simone di Cirene è uno qualunque... il primo che passa, quello che capita sotto tiro per risolvere il problema di un condannato a morte (anche lui uno qualunque) che stenta a reggersi in piedi sotto il peso del legno.
Ma per Marco no, il Cireneo non è uno qualunque e per questo ci dice qualcosa di lui, l'essenziale: tornava dai campi, e dunque era allora certamente era uno che curava i propri affari; e poi è padre di Alessandro e Rufo, quindi è uno che ha famiglia, che ha sicuramente per la testa anche il benessere dei propri cari, ed è anche uno del quale qualcun altro si preoccupa...
Forse, quel giorno, il Cireneo rincasava dai campi con la fatica del lavoro caricata sulle  spalle, magari anche col pensiero delle cose da sbrigare nel corso della giornata, e con tante preoccupazioni familiari per la testa. Simone di Cirene lo si può immaginare, in questo senso, davvero come "un tale", quel "certo" Signor X, quell'uno qualunque: uno come noi, una persona normalissima, la cui vita era fatta di fatica quotidiana, impegni ordinari, progetti, ansie per il futuro, amore e aspettative per i propri familiari.
Questo Simone di Cirene, che piomba sulla strada della Croce mentre si sta facendo "i fatti suoi" è improvvisamente costretto a farsi anche "i fatti degli altri": quelli dei romani, a cui nessuno può dire di no; ma soprattutto e principalmente quelli di Gesù, un condannato, uno di cui il Cireneo, nella sua vita di tutti i giorni, avrebbe potuto (e magari anche voluto) benissimo fare a meno. 
Ma non così in quel momento, in cui le loro strade si incrociano; non in quell'istante in cui Gesù è "costretto", dalla spossatezza per le torture già subite, a "lasciare" la croce... e Simone, per la sola "fatalità" di essere passato per quella via, è "costretto" a prenderne addosso il legno. 
Ed è questo il Cireneo che compare e scompare in un lampo, come se in un istante Marco ce ne presentasse la vita per poi identificarlo totalmente con la croce che gli caricano addosso. Ma proprio per questo (e non solo perché ancora oggi ne leggiamo il nome nella Scrittura) Simone di Cirene è un uomo che entra "per caso" nella storia del Figlio di Dio incamminato verso la fine della propria parabola terrena, e diventa l'uomo  associato per sempre alla storia della redenzione.
Perché se Simone è costretto a "impicciarsi" delle cose di Gesù, allora anche Gesù si deve "impicciare" delle sue. Tanto che ancora oggi, noi, per bocca di Marco, ci "impicciamo" di questo signor nessuno, di questo "tale" passato per caso lungo la strada verso il Calvario. L'interesse di Marco è l'interesse di Gesù, e deve diventare anche il nostro interesse per questa figura tanto fugace quanto carica di inviti a riflettere.
La sua è una presenza così discreta da sembrare realmente quella di uno che si può dimenticare in fretta, ma proprio per ed in questo Simone di Cirene ricorda al cristiano il grande mistero della sofferenza in cui la Croce di Gesù è la nostra croce e la nostra croce è quella di Gesù. È il mistero che ci permette di rivedere Gesù nel fratello che oggi porta sulle spalle il pesante legno della prova, nelle sue mille sfaccettature, sapendo che il Figlio di Dio, a sua volta, già ha portato quel legno nella sua Passione e continua misticamente a portarlo anche oggi. È un mistero di identificazione che rende carico di valore ogni dolore umano e che per questo richiede di accostarsi a esso con rispetto, delicatezza, condivisione. Sapendo che l'altro che aiutiamo nel momento della sofferenza, l'altro accanto al quale stiamo, l'altro al quale asciughiamo una lacrima, non è soltanto "uno qualunque", un tale il cui nome non ha importanza, ma reca impresso nella sua croce il nome stesso di Gesù, il sofferente, Colui che si è caricato delle sofferenze di tutti.