sabato 31 marzo 2018

Pensieri per lo spirito

TACERE NELL'ATTESA
Meditazioni per la Settimana Santa




Beato Claudio Granzotto, Cristo morto (1940-41), Vittorio Veneto, Chiesa conventuale di San Francesco



Il silenzio, spesso, fa paura. Forse per un'ancestrale connessione che lo associa alla morte, trasformandolo in un grande punto interrogativo: assenza di vita come la si intende in questa esperienza terrena e incognita sull'oltretomba.
Eppure è contraddittorio, l'uomo, nel suo rapporto col silenzio. Nel chiasso desidera l'assenza di suoni, nel vuoto sonoro ha sete di parole, rumori, presenza. Presenza: ecco il nocciolo della questione! Il troppo rumore sembra distogliere dalla propria stessa presenza, mentre il silenzio è temuto perché è percepito spesso come assenza di un qualcuno, come solitudine, mancanza di calore umano, di affetto e di consolazione, dimensione, quindi, senza speranza e gioia, carente di condivisione. 
Forse i discepoli di Gesù vissero così il silenzio calato sul palcoscenico di Gerusalemme dopo la morte del Maestro: un totale deserto di parole sul futuro; una tabula rasa di tutte le aspettative coltivate fino ad allora; la perdita tangibile dell'amico prediletto che si era reso loro vicino con il suo insegnamento, con il suo modo di essere, col suo fascino che aveva sapore di un mondo mai visto prima.
L'uomo per "sentire" ha bisogno di vedere, toccare, percepire con i sensi l'altro che è accanto. Eppure può capitare che neppure questo basti, e tra due persone presenti nello stesso luogo, magari vicinissime, può calare un silenzio tombale che interrompe ogni comunicazione, che mette a disagio, che crea imbarazzo, addirittura distanza. 
Quante volte, attorno a Gesù, si era fatto silenzio, prima della sua crocifissione! Ma era un silenzio glaciale: quello degli accusatori, quello degli indignati da un uomo che osava fare miracoli in giorno di sabato; quello che, poco tempo prima della sua morte, aveva riempito le pause tra il Cristo interrogato e il Pilato inquisitore. 
Cristo e Pilato: l'esempio perfetto di come anche le parole possano creare silenzio, inteso metaforicamente come distanza incolmabile tra due persone che non riescono a comunicare in profondità. Era già avvenuto nella sala dell'Ultima Cena, quando Gesù aveva anticipato il tradimento di uno dei dodici e nessuno, a parte Giuda, aveva capito nulla; e quella stessa sera il Maestro aveva preannunciato anche il rinnegamento di Pietro e tutto era sembrato concludersi nella vanagloria del presuntuoso apostolo. E così era calato il silenzio sul dramma interiore di un uomo che stava per essere consegnato ai nemici proprio per mano di uno dei suoi, e abbandonato da tutti gli altri.
Non sono, allora, né le parole né i gesti a creare contatto, vita, speranza, ma qualcosa che va oltre. Solo una presenza certa, sicura, che non va e viene a piacimento dell'uomo, può riempire il silenzio e abitare anche nel rumore, e penetrare nel cuore dell'uomo in qualunque circostanza. Solo dove Dio è presente attraverso la certezza del credente che sa che Egli c'è, che è il Vivente, che ama l'uomo e che gli offre la speranza della vita eterna... il silenzio non fa paura. Può essere doloroso e angosciante, come certamente sarà stato sofferto il silenzio del sabato per Maria, la madre di Gesù, ma in esso palpiterà comunque la speranza nelle promesse del Signore. Promesse che si compiranno, perché Egli è fedele e veritiero. 
La fede non abolisce il silenzio, ma lo riempie dell'amore di un Dio che vede, sa, e agirà. Così anche il silenzio acquista un senso: è il tempo dell'attesa, tempo in cui non si possono investigare i piani di Dio, perché solo Lui li conosce e li comprende, ma è proprio per questo il tempo per ricordare che al momento opportuno Signore interviene nella storia dell'uomo e lo libera, come liberò il popolo eletto dalla schiavitù d'Egitto, come libererà Gesù dalla morte, il terzo giorno. 

venerdì 30 marzo 2018

Pensieri per lo spirito

UMANIZZARSI
Meditazioni per la Settimana Santa



Crocifissione (XVII-XVIII sec.), New York, Metropolitan Museum


Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; 
il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.
(Is 53, 4-6)

Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: 
egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. 
 Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia 
per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
(Eb 4, 15-16)


Essere uomini è una sfida. Ciò che sembrerebbe la cosa più naturale del mondo, vale a dire esprimere ciò che si è, portare al massimo sviluppo la propria essenza, far fiorire la bellezza dell'umano intesa come creatura «cosciente e responsabile dei propri atti»¹ non è mai un processo scontato e automatico. Coscienza e responsabilità sono due parole chiave per vivere veramente da uomini, perché richiamano il rapporto con se stessi, con Dio e con gli altri. La coscienza, infatti, è «la voce di Dio che risuona dentro l’uomo»² e la responsabilità, nel rendere l'essere umano fautore "volente" e consapevole dei propri atti e delle loro conseguenze, richiama i concetti di diritti e doveri che si hanno nei confronti dei propri simili e, da una prospettiva cristiana, rimandano a una relazione basata sull'amore reciproco. Il timore dell'uomo (che spesso gli impedisce di essere veramente tale)  è che la coscienza e la responsabilità minino la propria libertà, impedendogli di scegliere, di autodeterminarsi. Ma superarne i limiti non trasforma la creatura in un essere più libero e più umano ma, al contrario, ne fa quasi un animale – soggetto a leggi naturali incontrollabili, su cui non si ha potere – o una cosa – inanimata, senza volontà, senza ragione, senza sentimento –. L'autodeterminazione che prescinde dal divino e dal proprio simile, anziché inserire l'uomo in un contesto di altri uomini, in verità lo isola, ne fa un iceberg separato dal resto del mondo, una pecora staccata dal gregge in cui ognuno segue «la sua strada» (Is 53, 6).
Gesù – l'uomo dei dolori, l'uomo crocifisso – è l'espressione massima dell'essere "umano". Cosciente della Verità e della necessità del suo annuncio, consapevole dell'esistenza di un Dio che è Misericordia e Giustizia, Cristo si mette in cammino verso Gerusalemme, dove incontrerà la morte. Pienamente convinto che l'uomo non vive veramente se non ama il prossimo o, usando le parole di san Paolo, non possiede niente se ha tutto, ma non la carità (cfr. 1Cor 13, 1-13), diventa il Verbo incarnato, si fa uomo per vivere tra e con gli uomini, condividendone gioie e dolori, nel massimo rispetto della libertà altrui, ma anche nel massimo ascolto dei bisogni dell'altro. Un a solidarietà e un ascolto che si esprimono come amicizia, intervento di guarigione, preghiera, sofferenza. Gesù agisce in coscienza verso gli altri, perché sa che Dio Padre gli chiede di essere responsabile per e degli uomini
Responsabile della loro liberazione dalla schiavitù del peccato e da una Legge impastata di precetti esteriori che incatenano la creatura in una religiosità rigida e sterile, incasellando la misericordia in un ambito ristretto di applicazione o addirittura espungendola dal quaderno della storia. 
Responsabile fino a dare l'esempio concreto di come vivere e di come amare (cfr. Gv 13, 15).
Responsabile fino a pagare per tutti, diventando il garante di ogni peccatore. Per questo le sue piaghe guariscono i peccati degli uomini, per questo Egli ha distrutto «le passioni della carne»³, per questo l'uomo può accostarsi a lui «per ricevere misericordia e trovare grazia» (Eb 4, 16). La scena ultima del Golgota riassume tutto questo: Gesù è crocifisso tra due ladroni, tra due peccatori, come fosse anch'Egli un malfattore. E dal trono della Croce, il Figlio di Dio si fa ancora una volta garante, responsabile per l'altro, con le parole rivolte al ladrone pentito: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). È la firma finale di un contratto d'amore, di un'alleanza definitiva siglata con l'uomo nel sangue, nel dolore, nell'amore. 

[1] Voce Uomo, Enciclopedia Treccani.
[2] Parole di Mariusz Sztaba, in “La coscienza, voce di Dio che risuona dentro l’uomo”, in Zenith, 17 febbraio 2016
[3] Melitone di Sardi, Omelia sulla Pasqua che si legge nell'Ufficio delle Letture del Giovedì Santo.

giovedì 29 marzo 2018

Pensieri per lo spirito

STUPIRSI PER SERVIRE
Meditazioni per la Settimana Santa





Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 
Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli 
e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto. 
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: Signore, tu lavi i piedi a me?». 
Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 
Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». 
Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 
Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 
Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri». Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 
Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi». 
 (Gv 13, 1-15)


Lo stupore abbonda nella pagina dell'evangelista Giovanni. Gesù, infatti, ribalta le regole della Cena, inserendo il momento della lavanda dei piedi non prima del pasto, ma mentre lui e i suoi stanno già mangiando. Ed è Egli stesso a compiere questo gesto, mettendosi di fatto alla pari con quegli schiavi non ebrei normalmente addetti a questo servizio. È comprensibile, allora, lo sbigottimento di Pietro dinanzi alla portata così grande di un atto all'apparenza tanto necessario e consueto per la gente del tempo, ma anche tanto diverso dal suo solito, perché stavolta è il Maestro – amico amato e leader stimato – a liberarsi delle vesti, a cingersi di un asciugamano, a versare l'acqua in un catino e a mettersi a lavare i piedi dei suoi discepoli, uno a uno. La lavanda dei piedi, riletta in chiave simbolica e alla luce della risurrezione, suscita anche il nostro stupore, uno stupore che non è sinonimo di scandalizzarsi, ma di meravigliarsi con riconoscenza. Ancora una volta, così come nella Domenica delle Palme, ritorna il tema dello svuotamento del Cristo: Egli volontariamente accetta di deporre le proprie vesti di Signore per rivestirsi del semplice asciugamano da servo, un asciugamano che da bianco e pulito diventerà sporco e terroso perché Gesù sarà coperto di insulti e di sputi, dei peccati degli uomini, di sangue e dolori fino alla morte; Egli liberamente sceglie di versare l'acqua necessaria per la lavanda, così come sulla Croce, dal suo costato trafitto farà sgorgare sangue e acqua, quei fiumi d'acqua viva profetizzati dalla Scrittura, quei Sacramenti che rendono gli uomini creature nuove e monde; Egli consapevolmente si china per compiere quest'azione così necessaria ma anche così umiliante secondo la mentalità dell'epoca, così come si chinerà nel cammino della Croce, così come si curverà sotto il peso del proprio corpo appeso ad essa. Gesù sta esercitando la propria libertà, consapevole della portata di quanto egli compie. È la stessa libertà del cammino verso la morte da crocifisso, apice del suo essere Servo del Signore.
Servizio: è sulla sua importanza che Gesù cerca di attirare l'attenzione dei suoi discepoli attraverso il gesto eclatante della lavanda. Servire è rivoluzionario e non solo perché ribalta gli schemi gerarchici tra chi serve e chi è servito, ma anche perché il servizio è rivoluzione agli occhi del mondo e veramente, con l'impegno concreto di ogni discepolo del Cristo, esso può cambiare in meglio le realtà terrene, rovesciando la cultura del male. Certo, il servizio incammina sempre l'uomo verso il Golgota. In ogni servizio c'è anche una parte di crocifissione, il doversi spogliare di qualcosa per essere così come e lì dove Dio ci vuole, nell'obbedienza libera alla sua chiamata d'amore. Ma il Giovedì Santo ci stupisce anche in questo, perché, dopo la lavanda, Gesù si riveste e si siede, così come sarà rivestito di gloria e di vita il terzo giorno e così come siederà alla destra del Padre. È un simbolismo che riguarda anche noi: in quel regno saranno accolti quanti, nel servizio, avranno saputo amare, «sino alla fine» (cfr. Mt 25, 31-40) senza temere di abbassarsi e di addossarsi le ferite e le sofferenze degli altri. In quel regno anche noi siederemo; in quel regno Gesù ha preparato dei posti anche per noi al banchetto eterno del Padre.

mercoledì 28 marzo 2018

Pensieri per lo spirito

 L'AVVICINARSI DEL TEMPO
Meditazioni per la Settimana Santa



In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariòta, andò dai capi dei sacerdoti e disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». 
E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù. Il primo giorno degli Ázzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 
Ed egli rispose: «Andate in città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; 
farò la Pasqua da te con i miei discepoli”». 
I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. 
Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, 
è quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; 
ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! 
Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!». Giuda, il traditore, disse: 
«Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto».
(Mt 26, 14-25)



«Il tempo è vicino»: il Mercoledì Santo scandisce il conto alla rovescia verso l'ora, quella in cui il Figlio dell'Uomo sarà crocifisso per aver osato farsi Figlio di Dio, anzi, Dio stesso. La bestemmia più grande agli occhi dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei, che non comprendono la Verità contenuta nella persona del Cristo e nell'annuncio del Regno, è il motivo della condanna a morte di Gesù.
«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1, 15) aveva già detto il Maestro, invitando però a fare attenzione a chi dare ascolto: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: "Sono io", e: "Il tempo è vicino". Non andate dietro a loro!» (Lc 21, 8).
Sebbene, dunque, il tempo di Gesù troverà il suo compimento sulla Croce che metterà fine alla sua storia terrena, tutta la corsa verso l'ora è già, in realtà, il tempo che si compie, perché l'annuncio del Dio-amore e della necessità di cambiamento dell'uomo proprio durante questo tempo viene proclamato e richiede all'uomo accoglienza, disponibilità e docilità di cuore.
La parola tempo riassume così, in senso lato, ogni attimo della storia della Salvezza: indica il passato in cui Dio si è definitivamente rivelato, nella pienezza del tempo (Gal 4,4) appunto, in una parabola umana che parte dall'incarnazione e approda sul legno della Croce, ma poi travalica la temporalità (a noi nota) nella risurrezione; è il presente, in cui ogni uomo vive il tempo del Regno con la possibilità di fargli spazio nella propria vita perché si espanda; è anche il futuro, quel momento finale in cui ciascuno supererà il confine di questa esistenza umana, per rituffarsi in Dio; e poi, ancora, è quello del Giudizio ultimo e della Gerusalemme nuova, del tempo senza fine.
Tempo: parola di speranza o di disperazione... a ciascuno la scelta. Chi accoglie il tempo di Dio nella propria vita, chi abbraccia il Regno di Dio che bussa alla propria porta, fa del tempo lo spazio per l'amore, la condivisione, la pace del cuore, la gioia che nessuno può togliere (cfr Gv 16,22), nella speranza di una realizzazione completa che attende l'uomo; chi, invece, rinnega il tempo di Dio vive sempre in corsa contro il tempo, nell'attesa smaniosa di fare e strafare miliardi di cose che non saziano, oppure perde il tempo, sprecando le occasioni per dare senso alle ore che passano, sciupando ciò che offre risposte alle domande interiori del cuore umano, non rispondendo alla vocazione personale di ciascuno, all'esigenza di farsi santi già qui e ora.
Il tempo è vicino, il tempo è qui, perché l'Ora si è compiuta. E l'Ora ci interroga, chiede la nostra risposta. Se Gesù ha dato la vita per amore, per la Verità, per il Regno, allora lasciamo entrare questo Regno in noi, apriamo il cuore all'amore di Dio e anche il nostro tempo sarà diverso. Intessuto di significato, colmo di opportunità, grato alla memoria del passato, intensamente vissuto nel presente, proteso con gioia verso il futuro.

martedì 27 marzo 2018

Pensieri per lo spirito

 DAL PRESUMERE
ALL'AFFIDARSI
Meditazioni per la Settimana Santa



In quel tempo, [mentre era a mensa con i suoi discepoli,] Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: «In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». 
 I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. 
Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. 
Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». 
Rispose Gesù: «È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò». 
E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariòta. 
Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. 
 Gli disse dunque Gesù: «Quello che vuoi fare, fallo presto». 
Nessuno dei commensali capì perché gli avesse detto questo; alcuni infatti pensavano che, poiché Giuda teneva la cassa, Gesù gli avesse detto: «Compra quello che ci occorre per la festa», oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. 
Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte. 
Quando fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi; 
voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire». Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». 
Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; 
mi seguirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? 
Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? 
In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, 
prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte».
(Gv, 3,21-33;36-38)


Il Martedì Santo offre alla riflessione una pagina di Vangelo che sembra pervasa dalla delusione, squarciata solamente dall'accenno di Gesù alla sua gloria e a quella del Padre. È la delusione dinanzi alla spavalderia di Giuda e Pietro, che si potrebbe riassumere in una sola parola: presunzione. Presumere¹: il verbo dell'anticipazione, quello di chi pre-suppone, ossia pensa in anticipo, si fa carico di qualcosa prima del momento adatto o delle circostanze che lo richiederanno. Un verbo che normalmente è associato all'orgoglio, ma che può in realtà assumere molte altre sfumature e finanche avere, sul piano spirituale, una connotazione positiva. 
A volte si può presumere un atteggiamento, una convinzione, una scelta e un modo di essere senza calcolare le conseguenze o le proprie fragilità e paure, un po' come se si volessero fare i conti senza l'oste o profetare senza vederci fino in fondo. La presunzione del Martedì Santo è, in questo senso, quella di Giuda, che ha già presunto (in cuor suo e tramite l'accordo con i capi dei sacerdoti) di essere il depositario della verità e di poter tradire un amico per denaro, senza rimorsi, sbarazzandosi di un Gesù che non sarà mai il capo-rivolta che egli si attende; ma è anche quella di Pietro, che presume in anticipo di poter essere coraggioso e fedele seguace di Cristo a prescindere dalle circostanze.
Sono presunzioni che falliranno miseramente, come racconta il prosieguo della storia: Giuda tradirà il Cristo, ma, comprendendo di aver sbagliato, non riuscirà a sopportare il peso di questa sua infedeltà e si toglierà la vita, soffocato dalla disperazione nonostante l'amore di Gesù, che ancora una volta, proprio nel momento della "congiura", lo chiamerà «amico» (Lc 22,48); Pietro, dopo aver rinnegato il Maestro, si pentirà amaramente di ciò che ha fatto. Così amaramente che quella ferita rimarrà in lui, incancellabile come una foratura di trapano nel marmo e la ritroveremo nella  professione di fede – semplice e non orgogliosa – che farà al Signore risorto (cfr. Gv 21, 15-19), ma questa piaga non gli impedirà il pentimento vero, quello che apre le porte alla misericordia e alla speranza. 
Il Martedì Santo insegna a chiare lettere che la presunzione, intesa come poter contare sulle sole proprie forze, non fa bene all'uomo, che è bene non assumerla, neppure a piccole dosi, perché i suoi esiti possono essere disastrosi. Ma, d'altro canto, la storia di Giuda e quella di Pietro, così diverse nel loro finale, dicono anche che più forte della presunzione umana è l'amore di Dio, se si è in grado di riconoscerlo e farlo agire nella propria vita, passando dalla presunzione all'affidamento.
E questo miracolo può realizzarsi perché, in realtà, il Martedì Santo parla anche di una terza presunzione: quella di Dio. Egli è l'unico che può presumere qualcosa, perché Lui solo è la fedeltà assoluta, certa, sicura. Dio Padre ha accettato di inviare il Figlio nel mondo, presumendo (e con quanta infallibilità!), supponendo prima dell'«ora» che Egli avrebbe portato a compimento la missione di salvezza affidatagli. Gesù, allo stesso modo, nell'Ultima Cena può presumere che riuscirà ad andare lì dove nessuno, almeno in quel momento, può seguirlo, ma poi lo ritroveremo a chiedere al Padre di far passar da lui quel calice (Mt 26, 39), se possibile («Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» Mt 26,39), e sulla Croce si sentirà abbandonato, pur rimettendo tutto a Dio (Mt 27, 46; Lc 23, 46). Non c'è nessuna contraddizione tra i due atteggiamenti, bensì unità e coerenza. Ciò che è diverso tra la presunzione dell'uomo e quella dell'Uomo-Dio è nel cuore, nell'atteggiamento interiore di questo presumere. Ecco, l'insegnamento ultimo sulla presunzione: l'uomo non può presumere niente, se non la propria debolezza umana («lo spirito è pronto, ma la carne è debole» Mt 26,41), attraverso la quale presentarsi dinanzi a Dio, chiedendo di trovare in lui la forza («vegliate e pregate, per non entrare in tentazione» Mt, 26, 41) quella di cui san Paolo dirà: «Tutto posso, in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13).

[1] preṡùmere (ant. preṡùmmere, proṡùmere) v. tr. [dal lat. praesumĕre «supporre, congetturare», comp. di prae- «pre-» e sumĕre «prendere»], Enciclopedia Treccani on line.

lunedì 26 marzo 2018

Pensieri per lo spirito

PROFUMARE
Meditazioni per la Settimana Santa







Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Làzzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Làzzaro era uno dei commensali. Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo. Allora Giuda Iscariòta, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». Intanto una grande folla di Giudei venne a sapere che egli si trovava là e accorse, non solo per Gesù, ma anche per vedere Làzzaro che egli aveva risuscitato dai morti. I capi dei sacerdoti allora decisero di uccidere anche Làzzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù.
(Gv 12, 1-11)




Il Lunedì Santo si tinge di toni contrastanti: quelli avvolgenti e fragranti di un profumo e quelli cupi e raccapriccianti del sangue. 
Da una parte c'è il gesto delicato e prezioso di una donna che non disdegna di rendere a Gesù un servizio tipico dell'ospitalità, ma aggiungendoci la nota, tutta femminile, del nardo cosparso in abbondanza sui piedi dell'ospite; dall'altra c'è la cattiveria di un proposito omicida, che prende forma nel cuore dei capi dei sacerdoti, disposti a uccidere non solo il Cristo, ma anche Lazzaro, un altro innocente, reo di attirare l'attenzione sullo "scomodo" nazareno che sta sobillando il popolo.
Se la prima scena ci proietta dunque in uno spazio inondato dalla scia di una fragranza deliziosa, la seconda ci scaraventa in una pozza di sangue, e ci spinge a domandarci – con un certo sbigottimento – quali motivazioni  (per di più religiose) possano mai rendere giustificabile un omicidio e come sia possibile dire che nel proprio cuore alberga Dio se non vi è spazio anche per l'amore per il fratello. Ovviamente, non esistono ragioni che tengano, perché, come già Gesù aveva detto, dal cuore escono i propositi di male che rendono impuro l'uomo (Mc 7,21) e da qui deriva l'importanza di purificare il proprio io interiore (cfr. Mt 23, 26).
Chi incontra Dio, chi è realmente amico di Gesù, diventa come Maria di Betania: capace di profondersi in gesti belli, gentili, anche spingendosi fino all'apparente spreco della preziosità che si porta dentro e che spesso si esprime anche attraverso un sempre apparente spreco esteriore, come quello del nardo. È lo spreco che Gesù stesso ha messo in atto, offrendo un esempio nel suo essersi dato tutto per amore, fino alla Croce. È quello dei santi che hanno consumato la propria vita per realizzare una chiamata che si è tradotta in amore. È lo spreco che ogni buon cristiano può attuare nella propria vita, perché chi rimane – idealmente – ai piedi di Gesù, in ascolto e contemplazione della sua parola, proprio nell'amore e con l'amore riesce a riempire l'esistenza di una scia seducente... di un profumo che affascina, perché richiama profumi d'Altrove. E la bellezza, anzi, la generosità del profumo è questa: che non è mai solo per chi lo indossa, ma anche per tutti quelli che hanno narici per sentire, cuore per goderne, buona volontà per seguirne la scia.

domenica 25 marzo 2018

Pensieri per lo spirito

SVUOTARSI
PER RIEMPIRSI
Meditazioni per la Settimana Santa






Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio 
 l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, 
umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. 
Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, 
perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, 
sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: 
«Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.  
(Fil 2 6,11)




Svuotarsi. Parola dai mille significati e delle mille situazioni.
C'è lo svuotamento di chi si sfoga lasciando straripare ciò che opprime il cuore, ciò che arrabbia, ciò che indigna;
c'è lo svuotamento di chi è "assalito" dalla vita con le sue delusioni, le sue sfide e le sue incompiutezze, così dolorose da far sembrare ogni cosa priva di senso;
c'è lo svuotamento per sfinimento, perché le abbiamo tentate tutte per far andare le cose in un certo verso... e non ci siamo riusciti;
c'è anche lo svuotamento per falso amore, quando si accetta di dismettere i propri panni per rivestirsi di quelli che l'altro desidera, non conformi a ciò che siamo, non rispondenti a ciò che sentiamo di voler diventare.
E poi c'è lo svuotamento per l'amore vero, cioè nel dono: quando accettiamo di donarci totalmente, senza riserve e per così come siamo e così come siamo chiamati a essere da Dio, nella risposta alla vocazione personale, ricevuta da lui.
È la scelta per la vita, quella di essere per gli altri, senza secondi fini, senza pretese di ottenere qualcosa in cambio.
Questo è lo svuotamento che vive Gesù, e in esso – ed ecco il paradosso che poi si comprenderà meglio nella Pasqua – non si può mai rimanere vuoti. Lo svuotarsi è solo una delle facce di una stessa medaglia. Ci si svuota per riempirsi d'altro. 
In fin dei conti, questo Cristo lo aveva compreso, e a Pietro, preso dal timore di non guadagnare nulla dalla sequela, poteva affermare con sicurezza: «Non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà. Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi» (Mc 10, 29-31).
Gesù sa per esperienza personale cosa voglia dire lasciare tutto per amore della Verità. Sperimenta su se stesso cosa significhi svuotarsi per essere ricolmato.
Il Cristo uomo non è un Cristo vuoto: spendendosi totalmente rimane totalmente pieno di amore. Amore per il Padre, amore per gli uomini. È una pienezza che non si può semplicemente trattenere, perché va ben oltre la capacità contenitiva dell'uomo. Figuriamoci di un Uomo-Dio! L'amore vero è smisurato, capace di colmare se stessi di bastare anche per gli altri; suscettibile di crescita continua, come un impasto che lievita; come una macchia d'olio che si espande su un tessuto; come un otre riempito di mosto che fermenta. 
Ecco il miracolo dello svuotamento di Gesù. Un miracolo che assume tante sfumature: pienezza di gratitudine, pienezza di preghiera, pienezza interiore, pienezza di lode, pienezza di denuncia dell'ingiustizia, pienezza del valore del Regno da annunciare.
Una pienezza che si perpetua fino al parossismo della Croce, dove realmente lo svuotamento di Cristo si fa anche fisico, nell'apertura del Cuore trafitto dalla lancia e da cui fuoriescono sangue e acqua, fino all'ultima goccia. Gesù ha accettato di svuotarsi di tutto ciò che aveva, anche della sua stessa vita biologica.
Tutto sembra finito, lo svuotamento è completo. Tutto si è compiuto. Ma compimento vuol dire portare alla pienezza, ecco perché il Golgota non è la scena finale della storia di Gesù. La Domenica di Pasqua quel Cristo svuotato della gloria e del potere che aveva da prima che il mondo fosse, sarà mostrato nello splendore della sua pienezza conquistata con l'obbedienza, l'umiltà, l'amore.
Ecco il miracolo del riempimento
Lo stesso miracolo che attende ogni uomo, se nella sua sete di amore e di felicità, sa farsi dono per l'Altro e gli altri.

giovedì 15 marzo 2018

Pensieri per lo spirito

QUARESIMA,
TEMPO PER RINNOVARCI
CON L'AMORE





«La carità non avrà mai fine» (1 Cor, 13,8)
«Dove non c'è amore metti amore e troverai amore» (San Giovanni della Croce)




«Conservate tra voi una carità fervente, perché la carità copre una moltitudine di peccati», scrive san Pietro nella sua prima lettera, al capitolo quarto, versetto 8.
Questa esortazione ben si sposa con il tempo di Quaresima, momento privilegiato per la riflessione sulla donazione totale del Cristo, una donazione che avviene per amore, per il rinnovamento della creatura macchiata del peccato.
In Matteo, Gesù tenta di aprire gli occhi dell'uomo, spesso annebbiati da altre distrazioni, ricordando che non si può mettere «un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore» (Mt 9,16) e anche altre volte Egli invita a dismettere i panni vecchi per indossare quelli della creatura nuova; è l'esortazione a scuoiarci quella pelle stantia, malandata e purulenta che non di rado ci cuciamo addosso nel corso della vita, accumulando sbagli, chiusure, invidie, gelosie, dispetti, egoismi, antipatie e finanche odi. L'uomo si riveste molto spesso del suo io "peggiore", di ciò che è amor proprio, indipendenza senza limiti, forma malata di auto-amore e di amore per gli altri e finanche di una fede erroneamente interpretata e vissuta, tutta impregnata di relativismo, del ciò che sento, ciò che mi va di fare, ciò che mi va di credere
Cristo taglia corto: niente di tutto questo va bene per rivestire l'uomo. Questi indumenti sono già in partenza vestiti vecchi, che non reggono alla prova del tempo e sono destinati a sbriciolarsi, riducendosi in polvere. Né ci si salva pensando di poter prendere un pezzo di stoffa grezza da un altro vestito, senza impegnarsi a rinnovare anche il vecchio, altrimenti tutto va perduto, vecchio e nuovo. Non sono le toppa grossolane e ruvide delle semplici parole (del solo dire «Signore, Signore»), e quella di una finta carità a condurre alla salvezza,perché solo fare la volontà del Padre spalanca le porte del Regno dei Cieli (cfr. Mt 7,21). Non sono, insomma, la fede a uso e consumo personale, i sacramenti come rimedio psico-sociale, la preghiera come formula magica, la carità come apparenza a rattoppare l'uomo vecchio, facendolo diventare nuovo.
Il Padre vuole una cosa: che seguiamo suo Figlio, che lo ascoltiamo e mettiamo in pratica la sua parola. Ci si può rinnovare veramente soltanto accettando di essere rivestiti di e da Crito, e, dunque, di e dall'amore salvifico di Dio che in lui si è manifestato concretamente.
E l'amore è ben più che un pezzo di stoffa grezza. L'amore è tessuto rifinito e pregiato, come seta preziosa, ricco damasco, raso lucente. L'amore vero, senza secondi fini, è come quello scampolo di tessuto che, una volta cucito nei punti tarlati del nostro essere, in quelli sdruciti e sfilacciati, smunti e lisi, è capace non solo di rattoppare, ma anche di rigenerare la vecchia stoffa, fino a farla diventare bella e di valore come quella del rattoppo, ricreando in noi l'essere a immagine e somiglianza di Dio, totalmente inabitati da lui. 
Gesù – l'amore umano rivestito di amore divino e l'amore divino portato all'uomo attraverso l'amore umano – è l'unico vestito nuovo da cui poter strappare dei pezzi per rammendare i nostri indumenti invecchiati (cfr. Lc 5,36). Perché quando l'essere umano decide di aderire, pur se con tutte le difficoltà legate alla propria debolezza, alla Parola incarnata, allora l'amore attecchisce, l'amore si adatta all'abito vecchio e piano piano lo trasforma, perché tutto, nella creatura, diventa amore ricevuto e amore donato. E quell'abito originario, da cui si attinge, rimane fonte inesauribile di carità, perché «le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà» (1 Cor, 13,8), ma «la carità non avrà mai fine» (Ibidem).

giovedì 1 marzo 2018

Pensieri per lo spirito

QUARESIMA,
TEMPO PER FARCI CURARE 

DAL VELENO





«Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l'asta; 
quando un serpente aveva morso qualcuno, 
se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita». (Nm 21,9)




Quaresima: tempo di penitenza, in cui lasciarci curare dal veleno che ci ha infettati. Perché il peccato è un veleno, tossico per la nostra anima e per la nostra vita. Il problema è che esso ci appare spesso rivestito di una maschera. Lo vediamo buono, bello, gradevole. Cominciamo a ingerirlo e magari all'inizio non ci procura del danno, anzi, sembra finanche farci stare bene. Siamo euforici, come sotto l'effetto di una droga o di un allucinogeno, ci sembra di assaporare il gusto vero della vita, l'ebbrezza della libertà; ci sentiamo dominatori su ciò che ci circonda, perché in grado di decidere senza ascoltare nessuno, se non noi stessi. È solo quando quel veleno ha finito con l'intossicarci che finalmente iniziamo a capire. È solo quando i sintomi spiacevoli e indesiderati di quel veleno infettano la nostra esistenza, che finalmente ci rendiamo conto che qualcosa non va e che è necessario cambiare stile di vita, modificare le nostre abitudini, scegliere qualcosa di diverso per nutrirci.
Ma per cambiare rotta, per convertisi, prima di tutto, è necessario disintossicarsi. Il veleno, di norma, non lo si smaltisce in automatico. Serve un antidoto, qualcosa che si opponga al male con il bene. E per disintossicarsi occorre prima avere l'umiltà di riconoscersi ammalatiavvelenati. È come un cerchio che va spezzato, e non è così immediato avere la forza per farlo. Se lo fosse, tutti opterebbero per la conversione. Invece sono tanti quelli che decidono di chiudere gli occhi sul proprio stato di salute spirituale, continuando ad accumulare veleno su veleno, alternando fasi di sofferenza acuta a momenti di sballo e finta felicità. 
Ma, paradossalmente, per qualcuno è proprio il momento dell'avvelenamento a coincidere con quello dell'umiltà: ci si riconosce fragili, bisognosi di una cura, di un antidoto. Nel momento della debolezza ci si accorge di non essere così forti e indipendenti, e si comprende di avere bisogno di ciò che veramente salva: l'amore. È il momento in cui non ci si basta più a se stessi, ma si ha bisogno dell'altro. Quel qualcuno che si prenda cura di noi, non perché si aspetti per forza qualcosa in cambio, ma perché per quel qualcuno noi e il nostro benessere sono importanti, perché quel qualcuno ci ama, così come siamo, nonostante tutto. L'impotenza e il dolore interiore sono come l'estrema sofferenza fisica dell'intossicato che comprende, improvvisamente, quanto sia necessaria una repentina scelta: per la vita, o per la morte, per l'amore o per il non amore, prima che il veleno annienti totalmente ogni volontà di scegliere. 
Se si opta per la vita, si opta per Cristo: il peccatore convertito è un uomo che si è prima lasciato avvelenare dal male e poi ha aperto gli occhi, si è presentato dinanzi a Colui che risana l'uomo nella sua integrità. Nella conversione l'essere umano si vede finalmente per come è: piccolo, indifeso, bisognoso di Dio. È solo l'amore di Dio che può veramente disintossicare l'uomo, perché una volta per tutte, sulla Croce, Cristo si è fatto il serpente innalzato da guardare per avere la salvezza, prefigurato dal serpente di bronzo innalzato da Mosè. Egli, cioè, ha assunto su di sé il peccato degli uomini, il veleno che ci uccideva, anzi, di più: si è fatto peccato (2 Cor 5,21), per sconfiggerlo definitivamente. Questa vittoria rimane perenne: ecco perché, l'uomo, per tutto il tempo storico della sua vita, può guardare sempre alla Croce per ottenere salvezza, vita interiore, rinascita, pegno di eternità. 
Facciamo della Quaresima il tempo della disintossicazione da tutto ciò che ci tiene lontani da Dio; da tutto ciò che inquina il nostro io; da quello che invece di renderci più vivi, ci ammala dentro.