IL PREZZO DELLA COSCIENZA
Riflessioni sul Mercoledì Santo (anno A)
Punto cruciale delle narrazioni evangeliche di questi sei giorni (dato che il Sabato
Santo non c’è Liturgia) è (anche) il tradimento di Giuda, uno dei protagonisti (o
l’antagonista che dir si voglia) delle pagine bibliche che ci accompagnano nel
cammino di Gesù verso la Croce.
Proprio così: Giuda, figura che ritorna più e più volte, come se a ogni rilettura eccessiva avesse sempre un nuovo tassello da aggiungere al puzzle della nostra riflessione, imponendosi con la sua presenza scomoda, che ci riempie di sentimenti contrastanti.
In effetti Gesù da solo, come personaggio principale, ci direbbe forse poco: non ci basta che un Dio ci salvi, abbiamo bisogno di vedere fino a che punto il suo amore possa spingersi, quanto possa lottare per ciascuno di noi, fino a quale misura sia capace di arrivare per dimostrare la sua vicinanza a ogni essere umano. Don Bosco tradurrebbe questo pensiero con il suo famoso imperativo, che per estensione si può applicare a tutti, senza distinzione di età: «Non basta amare i giovani: occorre che loro si accorgano di essere amati».
Siamo fatti così e questo è anche giusto e normale. Non desideriamo un amore a parole, ma di fatti; non ci sentiamo appagati dall’essere amati quando siamo “impeccabili”, ma desideriamo esserlo anche e soprattutto quando inciampiamo nelle nostre incoerenze, incostanze e incomprensioni. È il bisogno stesso della salvezza in sé che alberga in noi, nel desiderio di essere amati. E salvezza rimanda, etimologicamente, a salvo, termine che deriva dalla stessa radice di salute. Perché «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Mt 9,9-12).
Il Salmo odierno, con parole differenti, rimanda a questa stessa sorgente concettuale: Dio non ci ama perché siamo sempre buoni e perfetti, ma perché abbiamo un valore insito che ci rende, potremmo dire usando un termine teologicamente scorretto, “meritevoli” di essere amati: siamo stati creati a immagine e somiglianza sua e Dio non vuole che perdiamo questa impronta di divinità in noi. Di più: siamo stati riscattati dal Figlio di Dio attraverso il sacrificio di Se stesso. «Siete stati comprati a caro prezzo», dirà poi san Paolo (1Cor 6,20).
È un’apparente contraddizione, allora, quanto accade nel Vangelo di oggi. Ascoltare le parole dure di Gesù verso Giuda è come assistere alla negazione di questo valore dell’uomo e della capacità infinita di Dio di amarlo nonostante tutto. Ma la pedagogia del Cristo è più sottile: il rimprovero di Dio, l’ammonizione, l’avvertimento… non sono mai per scoraggiare la creatura o per condannarla. Sono per scuoterne la coscienza, per aprirle gli occhi, per farla ravvedere. È la missione di Gesù chiamare i peccatori, smascherare la menzogna per far posto alla verità... richiamare le coscienze. Ma bisogna riconoscere di essere malati per essere guariti; imperfetti, per essere amati, altrimenti si corre il rischio di fare come Giuda: sentirsi scoperti, ma continuare a vivere nella finzione. Perché la comprensione della verità alberga nella nostra coscienza e ci impone di accoglierla e di obbedirle. Ma la coscienza si può anche tacitare, e allora la verità viene inghiottita in noi dal buio e diventiamo tenebre, incapaci di lasciarci illuminare dalla Luce vera.
«Alcuni dei maggiori crimini dei giorni nostri» – diceva Joseph Ratzinger nel 1994 – «sono stati perpetrati, e lo sono tuttora, proprio in nome della coscienza individuale come se non esistesse una norma superiore. La coscienza non crea la verità ma si limita a individuarla e attuarla» [1].
Proprio così: Giuda, figura che ritorna più e più volte, come se a ogni rilettura eccessiva avesse sempre un nuovo tassello da aggiungere al puzzle della nostra riflessione, imponendosi con la sua presenza scomoda, che ci riempie di sentimenti contrastanti.
In effetti Gesù da solo, come personaggio principale, ci direbbe forse poco: non ci basta che un Dio ci salvi, abbiamo bisogno di vedere fino a che punto il suo amore possa spingersi, quanto possa lottare per ciascuno di noi, fino a quale misura sia capace di arrivare per dimostrare la sua vicinanza a ogni essere umano. Don Bosco tradurrebbe questo pensiero con il suo famoso imperativo, che per estensione si può applicare a tutti, senza distinzione di età: «Non basta amare i giovani: occorre che loro si accorgano di essere amati».
Siamo fatti così e questo è anche giusto e normale. Non desideriamo un amore a parole, ma di fatti; non ci sentiamo appagati dall’essere amati quando siamo “impeccabili”, ma desideriamo esserlo anche e soprattutto quando inciampiamo nelle nostre incoerenze, incostanze e incomprensioni. È il bisogno stesso della salvezza in sé che alberga in noi, nel desiderio di essere amati. E salvezza rimanda, etimologicamente, a salvo, termine che deriva dalla stessa radice di salute. Perché «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Mt 9,9-12).
Il Salmo odierno, con parole differenti, rimanda a questa stessa sorgente concettuale: Dio non ci ama perché siamo sempre buoni e perfetti, ma perché abbiamo un valore insito che ci rende, potremmo dire usando un termine teologicamente scorretto, “meritevoli” di essere amati: siamo stati creati a immagine e somiglianza sua e Dio non vuole che perdiamo questa impronta di divinità in noi. Di più: siamo stati riscattati dal Figlio di Dio attraverso il sacrificio di Se stesso. «Siete stati comprati a caro prezzo», dirà poi san Paolo (1Cor 6,20).
È un’apparente contraddizione, allora, quanto accade nel Vangelo di oggi. Ascoltare le parole dure di Gesù verso Giuda è come assistere alla negazione di questo valore dell’uomo e della capacità infinita di Dio di amarlo nonostante tutto. Ma la pedagogia del Cristo è più sottile: il rimprovero di Dio, l’ammonizione, l’avvertimento… non sono mai per scoraggiare la creatura o per condannarla. Sono per scuoterne la coscienza, per aprirle gli occhi, per farla ravvedere. È la missione di Gesù chiamare i peccatori, smascherare la menzogna per far posto alla verità... richiamare le coscienze. Ma bisogna riconoscere di essere malati per essere guariti; imperfetti, per essere amati, altrimenti si corre il rischio di fare come Giuda: sentirsi scoperti, ma continuare a vivere nella finzione. Perché la comprensione della verità alberga nella nostra coscienza e ci impone di accoglierla e di obbedirle. Ma la coscienza si può anche tacitare, e allora la verità viene inghiottita in noi dal buio e diventiamo tenebre, incapaci di lasciarci illuminare dalla Luce vera.
«Alcuni dei maggiori crimini dei giorni nostri» – diceva Joseph Ratzinger nel 1994 – «sono stati perpetrati, e lo sono tuttora, proprio in nome della coscienza individuale come se non esistesse una norma superiore. La coscienza non crea la verità ma si limita a individuarla e attuarla» [1].
Questo è il grande dramma umano del peccato: sapere che un Dio esiste, che una
Verità c’è, ma mettere a tacere la coscienza che reclama spazio a ciò che è giusto
e vero. E allora noi stessi, nel dare un prezzo per la “svendita” di Dio svalutiamo noi
stessi, ci “de-prezziamo” nel “dis-prezzarci”: «Vale poco una coscienza, o miei cari
fratelli, trenta denari» (don Primo Mazzolari).
Quanto il prezzo del tradimento di Giuda.
Quanto il costo della sua disperazione.
Quanto il costo della sua disperazione.
[1] Benedetto XVI: inno alla coscienza, Sito internet dell’Agenzia Sir
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