mercoledì 31 gennaio 2018

Solennità di Don Bosco

BASTAVA STAR VICINO 
A DON BOSCO...




La Famiglia Salesiana quest'anno è invitata a riflettere sul tema «Casa per molti, madre per tutti #nessuno escluso». È un argomento che riporta dritto al cuore dell'esperienza di don Bosco, che fin da giovanissimo sperimenta la necessità di contribuire a creare una Chiesa che abbia il sapore e l'aspetto di "famiglia": accogliente, educativa, ospitale. Chi incontrò don Bosco ne fece esperienza, dentro e fuori l'Oratorio.




PREGHIERA A SAN GIOVANNI BOSCO

O San Giovanni Bosco, padre e maestro della gioventù,
che tanto lavorasti per la salvezza delle anime,
sii nostra guida nel cercare il bene delle anime nostre
e la salvezza dei prossimo;
aiutaci a vincere le passioni e il rispetto umano;
insegnaci ad amare
 Gesù Sacramentato,
Maria Ausiliatrice
e il Papa;
e implora da Dio per noi una buona,
affinché possiamo raggiungerti in Paradiso. 

Amen.


Dalle Memorie Biografiche (MB IV, 676-677)

Un vantaggio grande recava a questi e ad altri professori, specialmente se preti, anche il solo trattenersi sovente con D. Bosco. Senza che quasi se ne avvedessero, smettevano un fare alquanto secolaresco, divenivano più esatti nella vita spirituale, sapevano vincere le bizzarrie dei loro naturali. Il contegno di D. Bosco e la sua prudente parola sortivano sempre questi consolanti effetti. Noi potremmo recarne molti fatti in prova, ma ci contenteremo di esporre ciò che a noi raccontava il Prof. Francesia. 


«Ho conosciuto un bravo e buon professore che era sacerdote, e come si accostumava tanti anni fa, invece che colla veste talare andava in curtis, cioè vestiva un abito che giungeva appena alle ginocchia. I preti amanti della regola lo portavano lungo sino a metà delle tibie. Bastò che D. Bosco entrasse in relazione con quel professore, che subito, senza che alcuno gliene facesse parola, allungò le falde dell'abito, e d'anno in anno fino ai piedi, da non lasciare alcuna differenza tra lui e chi portava la veste ecclesiastica. Il medesimo aveva un carattere così impetuoso, che in certi giorni, malgrado gli sforzi che egli si faceva, era anche di molestia a que' di casa. Allora guai ad urtarlo, guai a contraddirlo. Un dì mi trovavo presso di lui mentre stava per prendere il caffè. La sorella si era dimenticata di portare il cucchiaino; ma egli invece di fare un finimondo, secondo il solito, si volse a lei con aria sorridente, e facendo conca della mano le disse: - E quell'arnese pel zucchero? - Ciò fece con tale garbo e novità che la sorella, dopo averlo servito, mi disse segretamente: - Veda; effetto della frequenza con D. Bosco! Se quanto mi avvenne stamattina fosse capitato alcun tempo fa, per oggi non sarebbe più comparso il sole. Adesso invece è tutt'altro! Scherza che è un piacere e noi si vive in pace!». 

martedì 30 gennaio 2018

Triduo a san Giovanni Bosco 2018 /3

IN FAMIGLIA SI AMA E SI EDUCA
L'esperienza dell'Oratorio




La Famiglia Salesiana quest'anno è invitata a riflettere sul tema «Casa per molti, madre per tutti #nessuno escluso». È un argomento che riporta dritto al cuore dell'esperienza di don Bosco, che fin da giovanissimo sperimenta la necessità di contribuire a creare una Chiesa che abbia il sapore e l'aspetto di "famiglia": accogliente, educativa, ospitale. Sarà questo lo spirito che regnerà nelle "case" salesiane.




PREGHIERA A SAN GIOVANNI BOSCO

O San Giovanni Bosco, padre e maestro della gioventù,
che tanto lavorasti per la salvezza delle anime,
sii nostra guida nel cercare il bene delle anime nostre
e la salvezza dei prossimo;
aiutaci a vincere le passioni e il rispetto umano;
insegnaci ad amare
 Gesù Sacramentato,
Maria Ausiliatrice
e il Papa;
e implora da Dio per noi una buona,
affinché possiamo raggiungerti in Paradiso. 

Amen.



«Se a don Bosco avessero chiesto una breve descrizione pratica del ruolo dell'educatore, egli lo avrebbe comparato al lavoro che i buoni genitori cristiani svolgono nell'educare i propri figli. E ciò perché, sul piano delle idee e di conseguenza su quello ambientale, egli basava il proprio metodo educativo su quel tipo di rapporto affettivo che si poteva trovare in una buona famiglia. Questo in breve descrive il modo in cui don Bosco si relazionava coi giovani, non importa in quale situazione essi si trovassero. In effetti, le parole chiave "operative" del metodo erano familiarità, affetto e fiducia» [1].
A livello pratico, le idee di don Bosco si tradussero nell'esperienza "salesiana" in vari modi, a partire dal nome degli stessi edifici che ospitarono (e ospitano) le varie comunità e i ragazzi. Giovanni non volle altro che la parola case per definirle.  Non si trattava di un termine volto solo a identificare la struttura "materiale", ma soprattutto a tracciare immediatamente un profilo di quella "immateriale". Tutte le persone che vivevano all'interno delle case dovevano vivere in spirito di famiglia, come in una famiglia. Questo valeva nei rapporti tra superiore e inferiore, fondato più su un rapporto di paternità/figliolanza che solo su un sistema gerarchico, burocratico, istituzionale: «un superiore deve esser padre, medico e giudice, ma pronto a sopportare e a dimenticare»[2]. E poi l'educatore era un padre per il giovane che entrava nella casa dell'Oratorio e il giovane era per il primo come un figlio. Quando il futuro don Cagliero espresse al santo il desiderio di entrare all'Oratorio, don Bosco disse alla madre del ragazzo: «Domani verrà con me ed io gli farò da padre» [3].
Non va dimenticato che i pilastri del sistema educativo erano infatti ragione, religione e amorevolezza. Dunque, da un lato, l'aspetto dell'autorità genitoriale, ma dall'altro anche la cura amorevole dei figli. «Il "modello familiare" non era l'unico che don Bosco avesse a disposizione dalla tradizione per descrivere la comunità educativa, ma evidentemente lo considerava il più adatto. Secondo il suo modo di pensare, essendo la famiglia la prima comunità educativa e il luogo naturale dell'educazione del bambino, la comunità educativa doveva riprodurre idealmente e in forma ottimale l'ambiente familiare» [4]. 
Nel saper creare casa e famiglia non c'è, dunque, soltanto un aspetto affettivo o semplicemente relazionale che diventa importante. Dove si fa casa, dove si fa famiglia, automaticamente è implicato sempre e comunque un aspetto educativo. Nella familiarità fondata sull'amorevolezza e sull'apertura reciproca, infatti, normalmente scatta anche il desiderio di prendere il buono dell'altro, di imitarlo nel bene, di correggersi dai propri difetti. Così come scatta il desiderio di donare all'altro il meglio di sé, della propria esperienza, del proprio sapere e anche la voglia di rendere l'altro consapevole dei suoi talenti, per utilizzarli al massimo.  
Ecco dunque il grande potere della famiglia, in cui non solo si ama, ma si educa; in cui non solo si cresce, ma si fa crescere; in cui si cammina insieme per portare frutti sempre più maturi.  

NOTE

[1] Arthur J. Lenti, Don Bosco: storia e spirito.  1. Dai Becchi alla Casa dell'Oratorio (1815-1858), LAS, 2017, p. 530.
[2] MB VII, 509.
[3] MB IV, 290.
[4] Arthur J. Lenti, Cit., p. 533.

lunedì 29 gennaio 2018

Triduo a san Giovanni Bosco 2018 /2

COME UN FIORE PIANTATO
NELLO STESSO GIARDINO




La Famiglia Salesiana quest'anno è invitata a riflettere sul tema «Casa per molti, madre per tutti #nessuno escluso». È un argomento che riporta dritto al cuore dell'esperienza di don Bosco, che fin da giovanissimo sperimenta la necessità di contribuire a creare una Chiesa che abbia il sapore e l'aspetto di "famiglia": accogliente, educativa, ospitale. E don Bosco ha imparato, innanzitutto dalle persone che sono state accanto a lui, a creare "famiglia", ma anche dalle vicende della vita, che sempre più gli hanno fatto comprendere la necessità di creare un ambiente familiare per i suoi ragazzi.




PREGHIERA A SAN GIOVANNI BOSCO

O San Giovanni Bosco, padre e maestro della gioventù,
che tanto lavorasti per la salvezza delle anime,
sii nostra guida nel cercare il bene delle anime nostre
e la salvezza dei prossimo;
aiutaci a vincere le passioni e il rispetto umano;
insegnaci ad amare
 Gesù Sacramentato,
Maria Ausiliatrice
e il Papa;
e implora da Dio per noi una buona,
affinché possiamo raggiungerti in Paradiso. 

Amen.


C'è un momento, nella vita di don Bosco, che acquista un peso importante per la futura decisione del santo di creare un ambiente familiare per i suoi ragazzi. Lo descrive lo stesso Giovanni, nelle Memorie dell'oratorio. I fatti si svolgono dopo la morte di don Calosso, il prete che lo aveva accolto come un figlio e lo aveva aiutato negli studi. Un sacerdote anziano, che aveva in realtà pensato a provvedere a Giovanni anche qualora fosse venuto a mancare. Il ragazzo, però, non aveva voluto approfittare di questa situazione e, morto don Calosso, aveva rinunciato ai soldi, per darli ai legittimi eredi.  La perdita di questo amico e maestro era stata un duro colpo per Giovanni, che finalmente sembrava aver trovato qualcuno che si prendesse cura di lui nel momento del maggior bisogno, che avesse a cuore i suoi grandi sogni di ragazzo desideroso di farsi prete, di studiare e di progredire sulla via della santità. 
Don Bosco si fa triste, pensa che non riuscirà a tradurre in realtà la sua grande aspirazione. In questo momento, però, prende coscienza di un aspetto dell'essere prete che diventerà poi una delle pietre miliari del suo sistema preventivo: la capacità di essere amico dei giovani.
Scriverà nelle Memorie: «Mi preoccupava, intanto, il pensiero degli studi. Cosa fare per continuarli? C'erano molti bravi preti che lavoravano per il bene della gente, ma non riuscivo a diventare amico di nessuno. Mi capitava sovente di incontrare per strada il parroco e il viceparroco. Li salutavo da lontano, mi avvicinavo con gentilezza, ma loro ricambiavano soltanto il mio saluto, e continuavano la loro strada. Più volte, amareggiato fino alle lacrime, dicevo: 
- Se io fossi prete, non mi comporterei così. Cercherei di avvicinarmi ai ragazzi, darei loro buoni consigli, direi buone parole» [1].
In don Bosco sta nascendo l'idea di una relazione familiare che il sacerdote deve instaurare con i giovani. Un'idea che poi avrà modo di maturare nel corso del tempo e delle successive esperienze. Sarà questa idea che tornerà ad affacciarsi alla sua mente quando, ormai giovane prete, con don Cafasso visse l'esperienza delle visite ai carcerati, in cui erano detenuti molti ragazzi tra i 12 e i 18 anni, molti dei quali, una volta usciti, ritornavano a delinquere. Don Bosco scriverà: «Cercai di capire la causa, e conclusi che molti erano di nuovo arrestati perché si trovavano abbandonati a se stessi. Pensavo: "Questi ragazzi dovrebbero trovare fuori un amico che si prende cura di loro, li assiste, li istruisce, li conduce in chiesa nei giorni di festa. Allora forse non tornerebbero a rovinarsi, o almeno sarebbero ben pochi a tornare in prigione» [2].
Quando nascerà l'oratorio, tra le tante forme in cui questo clima familiare si svilupperà, ci sarà quello delle famose paroline all'orecchio. I ragazzi ne saranno entusiasti, perché questa piccola attenzione farà sentire ciascuno il preferito di don Bosco... oggi, probabilmente, useremmo l'espressione il cocco di papà. Don Bosco avrà tempo per tutti, parole per tutti, occhio vigile per tutti. Quel che conta, quello che don Bosco mette alla base della sua capacità di creare casa e famiglia è l'amore di amicizia, l'attuazione concreta del comando di Gesù: amare dell'amore più grande, dando la vita per i propri amici (cfr. Gv 15, 12-13). Solo offrendo del proprio è possibile essere accoglienti, disponibili, capaci di instaurare relazioni familiari. Solo comprendendo che dare all'altro non è rinunciare, ma condividere e, proprio per questo, moltiplicare, è possibile creare relazioni familiari, capaci di far crescere vicendevolmente, in un dare e ricevere circolare, dove, come in una legge matematica, chi dona non perde mai, anche quando non c'è immediato riscontro, risultato visibilmente tangibile, alla propria operazione d'amoreÈ tutta questione di quel I careMi importa (di te) che fa scattare l'apertura dell'altro se questi si accorge della sincerità delle nostre intenzioni: fare casa è essere amici delle persone con cui vogliamo creare famiglia, e farle sentire importanti per noi, degne del nostro tempo, del nostro interesse, dei nostri consigli. È far comprendere loro che nessuno è sprecato, che ciascuno ha del potenziale, dei talenti da mettere a frutto. I Salesiani sono nati assieme ai ragazzi dell'oratorio, non ciascuno singolarmente. Perché fare famiglia è, in un certo senso, nascere e portare frutto assieme, come fiori piantati nello stesso giardino.


[1] Giovanni Bosco, Memorie, trascrizione in lingua corrente a cura di Teresio Bosco, Elledici, 1986, p. 31).
[2] Ibidem, p. 103.

domenica 28 gennaio 2018

Triduo a san Giovanni Bosco 2018 / 1

CON LA PORTA DEL CUORE 
SEMPRE APERTA
L'esempio di mamma Margherita



 La Famiglia Salesiana quest'anno è invitata a riflettere sul tema «Casa per molti, madre per tutti #nessuno escluso». È un argomento che riporta dritto al cuore dell'esperienza di don Bosco, che fin da giovanissimo sperimenta la necessità di contribuire a creare una Chiesa che abbia il sapore e l'aspetto di "famiglia": accogliente, educativa, ospitale. E don Bosco ha imparato, innanzitutto dalle persone che sono state accanto a lui, a creare "famiglia". La sua prima maestra, in tal senso, è stata mamma Margherita.








PREGHIERA A SAN GIOVANNI BOSCO

O San Giovanni Bosco, padre e maestro della gioventù,
che tanto lavorasti per la salvezza delle anime,
sii nostra guida nel cercare il bene delle anime nostre
e la salvezza dei prossimo;
aiutaci a vincere le passioni e il rispetto umano;
insegnaci ad amare
 Gesù Sacramentato,
Maria Ausiliatrice
e il Papa;
e implora da Dio per noi una buona,
affinché possiamo raggiungerti in Paradiso. 

Amen.



Don Bosco – non va dimenticato – si è innanzitutto formato alla scuola di sua madre, Margherita Occhiena. È in primis da lei che Giovanni impara a concepire i concetti di casa e di famiglia. Margherita è stata una donna energica, coraggiosa, di grande fede, che ha saputo affrontare, senza lasciarsi sopraffare dallo spavento e dal dolore, la grande tragedia che la colpì quando aveva poco più di vent'anni: la morte di suo marito, Francesco Bosco. Nonostante avesse ricevuto, dopo l'evento luttuoso, varie proposte di matrimonio che le avrebbero consentito di sistemarsi nuovamente (superando le gravi difficoltà economiche e vivendo di certo una vita meno faticosa) Margherita non acconsentì, perché i figli non erano contemplati all'interno di queste richieste di matrimonio. Avrebbe dovuto affidarli a dei tutori che si sarebbero occupati della loro educazione, ma avrebbe così perduto il contatto quotidiano con essi, la possibilità di infondere in loro il proprio personale insegnamento, la propria saggezza e, soprattutto, il proprio affetto di madre.
Se certamente don Bosco non poté esserne colpito nel momento stesso in cui i fatti si svolsero (data la tenera età), indubbiamente deve esserne stato particolarmente commosso ed edificato in seguito. Tanto più se si pensa che, allorché Margherita si era sposata con Francesco, aveva accolto in casa, assieme allo sposo (già vedovo) anche il primo figlio di lui: Antonio. Quell'Antonio che in seguito, col suo carattere un po' irruento, avrebbe dato non poco filo da torcere a Giovanni. Eppure Margherita non fece distinzione tra figli del suo grembo e figli "acquisiti": si occupò di tutti con amore, dedizione e fortezza. Pensò alla loro educazione cristiana,  seppe essere ben equilibrata nel rimprovero e nel perdono per le loro marachelle, e fu capace di mettere le loro esigenze al primo posto, come dimostrò quando non rinunciò a disfarsi dei suoi pochi oggetti preziosi per venire incontro alle necessità (anche liturgiche) del figlio Giovanni ormai grande e già sacerdote. 
Margherita rimase, in sintesi, povera (anche se non indigente) tanto durante quanto dopo il matrimonio. Ma la porta della sua casa (e quella del suo cuore) fu sempre aperta: aperta al povero mendicante che chiedeva di dormire sul fienile, ai Becchi, e a cui dava anche qualcosa da mangiare; aperta anche al ricco impoverito che aveva vergogna di elemosinare, e a cui lei portava, nel buio della notte, un piatto caldo sul davanzale della finestra. Fu così anche negli anni dell'oratorio, assieme al figlio: Margherita comprese che la vera casa non sono le quattro mura, e lasciata la propria abitazione, seguì Giovanni, lì dove c'erano tanti ragazzi che avrebbero avuto bisogno di una madre. Se don Bosco seppe fare dell'oratorio una famiglia (una casa per molti e madre per tutti) è allora innegabile che fu anche grazie a sua madre, che divenne la mamma dei salesiani e dei ragazzi che gravitavano attorno all'oratorio. È un esempio importante, che ricorda che ogni cristiano, in qualche modo, è chiamato a essere casa e famiglia nella propria comunità: a partire dalla famiglia vera e propria (piccola Chiesa domestica, come la definisce il Vaticano II), ma anche nell'ambiente ecclesiale, dove a volte bastano un sorriso, del tempo, un po' di attenzione, per far sentire qualcuno accolto con familiarità; e poi, ancora, sul lavoro, per strada, con quanti possiamo incontrare quotidianamente. Se coltiviamo nel nostro cuore l'apertura e la capacità di amare, potremo fare di noi stessi una casa per quanti vorranno entrarvi. La maternità non è qualcosa di semplicemente fisico, è un'attitudine interiore, è la bellezza di chi sa creare legami di comunione sincera, di ascolto e di accoglienza, che fanno sentire l'altro al sicuro, protetto... come a casa.

domenica 14 gennaio 2018

Pensieri per lo spirito

E IL SIGNORE È PER IL CORPO
Sublimare l'umanità





Un'umanità ricca

La Liturgia della Parola della prima settimana del Tempo ordinario, collocandosi praticamente a un tiro di sasso dal Tempo di Natale appena conclusosi, continua a portare la nostra attenzione sul concetto di umanità. Un'umanità che non è demonizzata, ma neppure assolutizzata. È invece un'umanità reale, sfaccettata, piena di luci e di ombre. Un'umanità che soffre e prega, come quella di cui ci parlano le letture tratte dall'Antico Testamento, nella figura di Anna, sposa desolata per la propria sterilità e in più derisa dall'altra moglie del proprio consorte, ma che nonostante tutto implora Dio; è un'umanità che ama con tutte le proprie forze e a dispetto di ogni ostacolo, come quella di Elkanà, lo sposo devoto e premuroso della già citata Anna.  È un'umanità che ascolta la chiamata di Dio nel contesto quotidiano, addirittura durante il sonno, come accade a Samuele. 
Ed è anche un'umanità che si ribella a Dio, come fa il popolo di Israele, allorché invoca la scelta di un re, per non essere diverso da tutti gli altri popoli.
Anche l'umanità del Nuovo Testamento, in cui spicca il Gesù uomo, è un'umanità ricca e "piena", in cui niente di ciò che è tipicamente umano viene escluso. C'è il Gesù-uomo che parla, predica, prega, chiama e suscita, proprio per questa sua umanità "così nuova", stupore e timore in chi lo ascolta, fascino irresistibile in quelli che invita a seguirlo, preoccupazione nei demoni che scaccia. L'umanità del Cristo è chinata sull'umanità dei propri simili: così lo vediamo in Mc 1, 29-39, interessarsi della suocera di Pietro, che giace a letto ammalata, e di tanti altri ammalati (come il lebbroso di Mc 1, 40-45 e come il paralitico del secondo capitolo, versetti 2, 1-12) che approderanno finalmente, grazie a lui, alla guarigione. Ma qui il Vangelo inserisce la commistione tra corpo e spirito, la necessità di non dimenticare che non si vive di solo pane, che non si è composti solo di materia. Gesù guarisce i fisici malati, ma guarisce anche gli spiriti portatori di un morbo peggiore, liberandoli dai demoni; Gesù si spinge per tutta la Galilea, per predicare e annunciare il Regno; ed è lo stesso Gesù che al paralitico dice chiaramente «ti sono perdonati i peccati» (Mc 2,5) e «prendi la tua barella e va' a casa tua» (v. 11). 

Passare "attraverso" l'umanità di Gesù

L'Uomo Gesù ci ricorda che siamo fatti di luce e di ombra, di chiaro e di scuro, di bene e di male. Ecco perché la sua stessa umanità diventa il tramite per accedere al divino, per essere risanati dalla sua dimensione di carne, di Uomo speso per amore, di Uomo crocifisso, piagato, donato fino all'ultima goccia di sangue. Di Uomo risorto, che conserva i segni della passione. Se noi tutti siamo come il paralitico, che ha bisogno di essere portato a Dio per guarire nella carne e nell'anima, allora Gesù stesso (la sua umanità) è il buco scavato nel tetto di quell'abisso che dividerebbe ogni creatura umana da Dio, dal totalmente Altro, per usare un'espressione cara a Benedetto XVI. Gesù si è lasciato letteralmente scavare dai chiodi le mani e i piedi; si è fatto squarciare il cuore da una lancia e forare la testa da una corona di spine. Passando attraverso quelle piaghe, ma anche passando attraverso la sua umanità che insegna, corregge, ammonisce, e soprattutto ama, noi possiamo arrivare al divino di Gesù, e quindi al Padre e allo Spirito, che sono intimamente uniti a lui, che sono "in" lui" e che risanano nell'amore. Proprio il sabato della prima settimana conclude infatti questi primi sette giorni successivi al Natale con l'episodio della chiamata di Levi (Mc 2, 13-17) e con la chiara esposizione della missione di Gesù: essere venuto per i malati, non per i sani, per i peccatori, che hanno bisogno di guarigione (cfr. Mc 2,17). La vita di Levi cambia improvvisamente: la chiamata di Cristo deve avere assunto i contorni di una modalità umana talmente tanto convincente, appassionante, profonda... una modalità esteriore che diventa anche e soprattutto interiore, così profonda, da non lasciare spazi a dubbi. Occorre seguire Gesù. 
E qual è questo Gesù che si segue?

Andare a casa di Gesù

I discepoli della prima ora, probabilmente, vivono qualcosa di indefinito. Non riescono a percepire tutta l'essenza, tutta la verità di Gesù. Ma si sentono attirati irresistibilmente da questo uomo speciale, carismatico, mite, ma anche energico, che parla come mai nessuno ha fatto, ama, come mai nessuno ha amato, guarisce e compi prodigi che mai nessuno ha compiuto. Così la seconda domenica del Tempo ordinario si apre con la domanda di Giovanni e Andrea: «dove dimori?» (Gv 1,38). Questa domanda racchiude il bisogno umano, (umanissimo!) di passare del tempo con l'altro, con l'amico. Gesù attira perché non cammina su una nuvola d'ora, spargendo fulmini e saette, come forse qualche divinità antica faceva nell'immaginario collettivo. Gesù attira perché vive una vita umana, straordinaria nell'ordinario e ordinaria nello straordinario, una vita piena, che sembra dire agli altri: anche tu puoi farlo, anche tu puoi dare senso alla tua esistenza. Anche tu puoi accedere a Dio, un Dio personale, vicino, a cui dare del tu, a cui dire abbà, papino.
Andare a casa di Gesù, vedere dove Egli dimori, stare con lui, ricordare finanche l'ora di quell'incontro, significa accedere a quel che cercato dai discepoli («che cercate?» chiede infatti loro il Cristo); significa osservare più da vicino, più intimamente, il mondo umano di Gesù. Perché, come anche oggi si usa dire, la casa parla di chi la abita, ci svela qualcosa della sua personalità, dei suoi gusti, della sua sensibilità. A casa non ci si porta chiunque. A casa si invitano gli amici, i parenti. La casa non si condivide con il primo che capita, ma con i propri familiari. La casa nuova non è quella di due estranei, ma di due sposi. Così, ciascuno di noi, è chiamato ad abitare nella casa di Cristo-Sposo, nella dimora di Gesù. Ed è chiamato a farlo con la propria carne, nella propria carne. Cioè con la modalità umana attraverso cui facciamo l'esperienza di Dio, quell'umanità che è il tramite finanche del nostro spirito; l'umanità che può essere trasparenza di Dio anche per gli altri. L'umanità con cui ci nutriamo – materialmente – dell'Eucaristia, il vero e più intimo a tu per tu, dimorare con Gesù, con Dio, in un Cuore a cuore, o Corpo a corpo, per rimanere in tema. La carne di Gesù è il nostro cibo eucaristico. È il passare dal cercare un che al trovare un chi. Unico, assoluto, insostituibile. Ecco perché è così importante ricordare che «il corpo non è per l'impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo» (1Cor 6,13), perché anche questi nostri corpi, al pari di quello di Gesù, saranno risuscitati. Il nostro corpo può parlare o meno di Dio, attraverso la voce, gli occhi, le mani. Parliamo o non parliamo di Dio con le parole che usiamo o meno, con i vestiti che indossiamo o meno, con i gesti che compiamo o meno. Glorifichiamo Dio con il nostro corpo, pensando che un giorno realmente, con questo nostro stesso corpo, ripeteremo (ma in modo totalmente nuovo) l'esperienza dei primi discepoli: andremo e vedremo dove dimora Gesù, abiteremo la sua casa, per sempre, secondo le parole di Gesù stesso «Io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi» (Gv 14,20).

domenica 7 gennaio 2018

Pensieri per lo spirito

PER QUESTO SIAMO VENUTI 
NEL MONDO
Dalla vita biologica alla vita in Cristo



 «Gesù venne da Nazaret di Galilea 
e fu battezzato nel Giordano da Giovanni».
(Mc 1,9)
Antonio Raggi, Battesimo di Cristo (XVII sec.), Roma, Chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini




Una vita piena di senso

Il salto temporale che la Liturgia della Parola fa compiere proprio nell'ultimo giorno del Tempo di Natale sembra spiazzarci: abbiamo festeggiato Gesù bambino, nato in una grotta al culmine del Tempo di Avvento, periodo di attesa e preparazione; poi è venuto il ricordo della Santa Famiglia di Nazaret e, nella solennità che apre il nuovo anno, si è reso omaggio alla Madre di Dio, che ha dato la vita al Salvatore dell'umanità; nell'Epifania si è fatta memoria della manifestazione di Dio in quel Bambino nato dalla Vergine e figlio putativo di Giuseppe. Una manifestazione che i Magi hanno saputo riconoscere e accogliere, accettando la sfida del cammino interiore ed esteriore per andare verso Gesù. Un Gesù ancora piccolo, ancora nascosto al resto del mondo, custodito tra le braccia di Maria, vegliato da Giuseppe e ospitato in una povera mangiatoia. 
Ed ecco che, improvvisamente, dopo pochi giorni (o addirittura... il giorno seguente, come accade quest'anno!) ci troviamo davanti un Gesù adulto, che da solo lascia Nazaret per raggiungere suo cugino Giovanni – sulle rive del fiume Giordano – e ricevere il battesimo di penitenza, o di conversione, come viene anche detto. Questo passaggio che a prima vista appare (secondo le logiche umane) un po' stonato, fuori tema – si potrebbe dire –, è invece la logica conseguenza di ciò che il Natale significa, nella sua essenza più profonda. Ed è anche il messaggio finale che questa festa consegna a ogni battezzato in Cristo.
In primo luogo il Battesimo di Gesù ci catapulta già verso la fine della vicenda umana del Cristo. La rilettura simbolica di questo evento è infatti legata alla volontaria accettazione del peccato degli uomini che Gesù prende su di sé, per liberarne definitivamente l'umanità. Una liberazione che sarà completa con gli eventi della Passione, morte e risurrezione, in cui peccato e morte saranno definitivamente sconfitti. La vita umana che Gesù ha assunto a Natale è una vita di senso proprio perché vissuta nell'adempimento del volere del Padre, di quel Padre che vuole che nessuno si perda (cfr. Mt 18,14; 2Pt 3.9), di quel Padre che Gesù testimonia e, addirittura, mostra agli altri nel proprio volto, nei propri gesti, nelle proprie parole, nelle proprie decisioni. Decisioni che appaiono controcorrente, a volte finanche esplosive per la gente del suo tempo e a volte anche per quella di oggi, ma perfettamente coerenti con il dono della vita che il Verbo ha voluto ricevere nella persona umana, storica e quindi concreta di Gesù. Un dono che Egli ha preso sul serio, quale dimensione spazio-temporale in cui annunciare il Dio-amore, e farlo sentire vicino (in un modo nuovo, totalmente avvolgente proprio per la sua concretezza umana) alla gente del suo tempo, e così anche a noi, oggi, attraverso questa sua testimonianza. Cioè che rende significativa la vita di Gesù è proprio l'adempimento di tale missione. Quando Pilato lo interrogherà, chiedendogli: «Dunque tu sei re?» Gesù risponderà: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37)

Sacerdoti, re e profeti

È questo il testamento natalizio che la festa di oggi consegna a ogni credente. Correndo verso la meta (cfr. Fil 3,14) riceviamo un passaggio di consegne, da Gesù stesso, come in una staffetta. Il battesimo rende il cristiano re, sacerdote e profeta. Egli deve allora fare proprie le parole di Gesù, la cui regalità è nell'essere nato per dare testimonianza alla verità. È una regalità in cui il Cristo riassume anche la missione profetica e la propria dignità sacerdotale, ossia l'offerta che Egli farà di sé. E anche il battezzato è chiamato spendere energie, amore, tempo, preghiera, silenzi, sforzi, sofferenze e finanche delusioni – la vita intera, insomma – per l'annuncio del Regno, per la testimonianza concreta del Dio presente in mezzo a noi.
Il percorso che Gesù ha compiuto deve essere il nostro, la nostra regalità di figli di Dio che si pongono a servizio degli altri nell'amore è effettivamente tale solo se il dono della vita biologica e quello della vita in Cristo che abbiamo ricevuto attraverso il battesimo ci orientano verso la strada da seguire, per riempire di vero senso la nostra vita. Un senso che non sia semplicemente temporale, umano, materiale, ma che vada oltre, proiettandoci verso l'esistenza (non da soli, ma con gli altri) che non ha fine, verso l'amore che non ha scadenze. 
Per questo siamo venuti nel mondo. 



lunedì 1 gennaio 2018

Auguri!

BUON 2018!




 «Perché la fede non si riduca solo a idea o a dottrina, abbiamo bisogno, 
tutti, di un cuore di madre, che sappia custodire la tenerezza di Dio 
e ascoltare i palpiti dell’uomo. La Madre, firma d’autore di Dio sull’umanità, custodisca quest’anno e porti la pace di suo Figlio nei cuori, 
nei nostri cuori, e nel mondo».
(Papa Francesco)