martedì 27 novembre 2018

Pensieri per lo spirito

SORGI A GIUDICARE LA TERRA
Fiducia, non terrore

Jan Provost, Giudizio finale, XVI sec.

Vieni, Signore, a giudicare la terra. 

 Dite tra le genti: «Il Signore regna!». 
È stabile il mondo, non potrà vacillare! 
Egli giudica i popoli con rettitudine. 

 Gioiscano i cieli, esulti la terra, 
risuoni il mare e quanto racchiude; 
sia in festa la campagna e quanto contiene, 
acclamino tutti gli alberi della foresta. 

 Davanti al Signore che viene: 
sì, egli viene a giudicare la terra; 
giudicherà il mondo con giustizia 
e nella sua fedeltà i popoli.
(Salmo 95)





Il martedì della XXXIV settimana del Tempo ordinario proietta, attraverso la Liturgia della Parola, in un clima di aspettativa di eventi futuri: Il tempo è vicino, come dice Gesù nel Vangelo. E non a caso, perché siamo agli sgoccioli dell'anno liturgico e ci si prepara all'Avvento, tempo di attesa del Dio che viene.
Le immagini dei brani biblici di oggi colpiscono per la loro forte drammaticità: il giudizio nell'Apocalisse (Ap 14,14-19) e l'inizio del discorso apocalittico di Gesù, nel brano di Luca (
Lc 21,5-11), delineano infatti uno scenario ricco di colpi di scena e, in un certo senso, inquietante
L'Apocalisse sfrutta la metafora di una scena contadina, quella della mietitura, di per sé festosa, ma che qui assume toni concitati e solenni. C'è infatti un maestoso personaggio, simile a un Figlio d'uomo, che sta seduto su una nube, tiene una falce affilata in mano, e porta una corona d'oro sul capo; c'è un gran correre di angeli, che appaiono quasi come banditori medievali dalla voce potente e squillante, e annunciano l'ora della mietitura. Il sovrano misterioso e uno di essi lanciano la propria falce sulla terra. E già la falce, in questa rilettura simbolica della fine e del giudizio, diventa un potente detonatore dei sentimenti e delle inquietudini dell'animo, perché, artisticamente e popolarmente associata all'idea della morte, fa subito pensare a questo strappo repentino, dovuto alla lama affilata scagliata sul mondo per tranciare i grappoli, che una volta vendemmiati saranno  rovesciati nel tino dell'ira di Dio
Non è da meno il brano lucano, con la profezia sulla distruzione del tempio, e sulla fine che sarà preceduta da una serie di terribili eventi: guerre, rivoluzioni, terremoti, carestie e pestilenze
La Scrittura non vuole presentare una visione  edulcolorata del rapporto tra la vita e la morte, tra il come viviamo e il come saremo giudicati. Nessuno può scampare alla fine, nessuno può sfuggire al giudizio di Colui al quale è stato dato il potere di giudicare. Il messaggio, sinteticamente, è questo. Ma tra le due "visioni" così "tremendamente realistiche", il Salmo 95 si colloca come l'intermezzo sereno, che dà respiro all'insieme, orientando verso una rilettura equilibrata e finanche gioiosa del brano biblico che lo precede e di quello che lo segue.
Il Signore giudica i popoli con rettitudine, con giustizia; per questo c'è da esultare, perché dove Il Signore regna allora è stabile il mondo, non potrà vacillare.
Di una persona che "ha giudizio" ci si fida... è Dio "è" una persona di giudizio. Di Gesù possiamo fidarci a occhi chiusi. Farà bene ogni cosa. Ha fatto bene ogni cosa. Così, chi fa la volontà del Padre non deve aver paura della mietitura, ma anzi, esserne rallegrato, perché a quel punto i giusti avranno la loro ricompensa, la giustizia che sulla terra non ha sempre avuto la meglio sarà ristabilita. Anche l'ira di Dio, allora, in quest'ottica, perde il suo aspetto inizialmente terrificante, che rimanda a punizioni tremende. Chi opera secondo le Parole del Figlio, chi fa ciò che il Padre gli chiede, non ha nulla da temere. Viene in nostro soccorso, in un certo senso, anche l'arte, nella cosiddetta immagine del torchio mistico, metafora della Passione di Cristo. La Croce è la pressa e il Sangue è il vino. In Gesù, morto per amore, l'uva è già stata vendemmiata e pigiata. In lui è stata fatta giustizia per il peccato dell'uomo. Chi muore e risorge in Cristo non deve avere paura del giudizio divino, ma solo essere animato dal timore di Dio inteso come preoccupazione amorosa di fare ciò che a lui è gradito, di obbedire ai suoi comandi.
Se pure si tratta di una rappresentazione che forse non incontra subito con i gusti contemporanei, il significato di cui essa si fa tramite è ricco di bellezza e infonde speranza. Una speranza che deve sempre rimanere accesa nel cuore umano, come fiaccola, nell'attesa di Colui che viene!





giovedì 1 novembre 2018

Pensieri per lo spirito

NEL PARADOSSO LA SANTITÀ
Possedere Dio per essere beati




Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». 
(Mt 5,1-12)


La santità è sublimazione della carne, ma anche di spirito, intelletto, sentimento e psicologia. In questo appare un po' come forgiata nel paradosso: noi esseri umani, che quotidianamente lottiamo contro i nostri difetti, impulsi, irrazionalità, istinti e desideri, siamo chiamati a contemplare Dio faccia a faccia, perché da santi saremo simili a Lui, come dice proprio oggi la Liturgia festiva, attraverso la Prima Lettera di San Giovanni (1Gv 3,1-3).
Questo paradosso tra ciò che siamo-ci sforziamo di essere e ciò che saremo lo si ritrova anche nel quotidiano della vita, in quel conflitto tra la felicità a cui aspiriamo e l'infelicità che spesso, invece, le circostanze concrete ci costringono a sperimentare: siamo destinati alla beatitudine, ma costruirla in termini eterni e immutabili significa doversi accostare, nell'oggi, a una mensa di fatica, dolore, irrealizzabilità. 
Il fatto è che noi concepiamo l'essere beati secondo criteri troppo umani. Per noi è il ritrovarsi in uno stato di estasi, in assenza di problemi, realizzati nelle aspirazioni più profonde, nella pienezza degli affetti e della salute fisica. Beato te! lo diciamo a qualcuno che, a nostro avviso, ha ottenuto qualcosa di così importante da renderlo totalmente felice, perché quel qualcosa si rivela risolutivo di tutte le sue preoccupazioni!
E, in effetti, in questo ultimo passaggio c'è un po' il nocciolo della beatitudine: trovare un tesoro capace di mettere in secondo piano tutti i problemi della vita. Ma non, come noi invece pensiamo spesso erroneamente, nel non essere afflitti da prove, preoccupazioni e difficoltà materiali o spirituali. Quelle permangono, fanno parte dell'esistenza stessa, della caducità delle cose, ma per il "beato" cessano di rappresentare il punto focale della vita!
Sfogliando le pagine della Scrittura, già l'Antico Testamento ci offre la chiave di lettura della vera beatitudine, quella che poi Cristo espliciterà nel discorso della montagna e in vari altri passi del Vangelo:

Beato l'uomo che è corretto da Dio (Gb 5,17)
Beato l'uomo che non entra nel consiglio dei malvagi non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti (Sal 1,1)
Beato chi in lui si rifugia (Sal 2,12)
Beato l'uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato (Sal 32,1)
Beato l'uomo che ha posto la sua fiducia nel Signore (Sal 40,5)
Beato l'uomo che ha cura del debole (Sal 41,2)
Beato chi ha pietà degli umili (Pro 14,21)
Beato chi medita queste cose e colui che, fissandole nel suo cuore, diventa saggio (Sir 50,28)

È un elenco che non si esaurisce solo in queste poche citazioni, ma che già da solo permette di comprendere come la vera beatitudine sia arrivare a incontrare Dio, a conoscerlo, a farne esperienza come "luogo" del rifugio, della correzione, della fiducia. Da questo parte poi anche la capacità umana di ritrovare Dio nell'altro, nel fratello che concretamente si vede e si tocca ogni giorno e che di quel Dio è immagine. Dio è il primo tesoro che rende beato l'uomo che lo "possiede", perché, come diceva Santa Teresa d'Avila, Niente ti turbi nulla ti spaventi solo Dio basta.
È l'atteggiamento di Maria, che Elisabetta definisce beata per aver creduto alla Parola del Signore (cfr. Lc 1,45) e che Gesù, indirettamente, colloca anch'Egli nella dimensione della beatitudine, per aver ascoltato e messo in pratica la Parola stessa (cfr. Lc 11,28). 
Solo a partire da questa beatitudine "magna", la santità, o meglio, la ricerca di essa, non apparirà più distante, impossibile, ardua. Essere santi è possedere Dio, e in qualche misura se ne può fare esperienza già sulla terra ogni volta che Egli è il tutto della propria vita, l'Amico, il Padre, il Consigliere, il sostegno, il conforto, il datore di ogni bene e di ogni grazia. Ogni volta che, incontrando il fratello e la sorella, in essi si vede l'immagine di Dio e si diventa capaci di mettere al primo posto il suo bisogno d'amore e di pane, rinunciando a qualcosa di se stessi; ogni qualvolta che, accostandosi alla mensa del Pane e del Vino, si è consapevoli di ospitare veramente nel proprio intimo Colui che è Uomo ma anche Dio: Gesù Cristo, il Santo di Dio, il Santo dei santi. Allora sì che ci si può rallegrare, come proprio Gesù invita a fare, a conclusione del discorso della montagna. E con il Salmista si potrà esclamare: 
Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore!». (Sal 122,1)