SILENZIO E PAROLA
L'ossimoro del Sabato Santo
Silenzio e parola è l'ossimoro del Sabato Santo, il contrasto che riassume tutte le contraddizioni apparenti della parabola terrena di Gesù di Nazaret.
Perché questo è il giorno in cui il Verbo giace nel silenzio del sepolcro; la vita è soffocata dalla morte; la luce è inghiottita dalle tenebre.
Ma veramente questo è ciò accade dietro la pietra sepolcrale?
O la Parola, la Vita, la Luce fermentano nel silenzio, nella morte, nel buio, preparandosi all'esplosione finale?
O la Parola, la Vita, la Luce fermentano nel silenzio, nella morte, nel buio, preparandosi all'esplosione finale?
Silenzio è certamente assenza di rumore, derivando da silēre - tacere. Il silenzio è, almeno nel suo significato principale e immediato, mancanza di parole, di suoni udibili, piacevoli o meno che siano.
E a questo punto si pone un dilemma che ricorda quello dell'uovo e della gallina: ma viene prima il silenzio o la parola?
Se si dovesse rimanere su un piano puramente "verticale", teologico, certamente Dio come Parola esiste da sempre, ma poi l'esperienza dell'amore (e Dio è amore) ci insegna che, su un piano "orizzontale", terreno, umano, l'amore si declina anche attraverso silenzi di vicinanza, di affetto, di stupore, di miseria, di incredulità, di dolore... silenzi che sanno raccontare molto più delle parole stesse. E finanche nel rapporto con Dio che è Parola, in questo incrocio fra il verticale e l'orizzontale, fra il Cielo e la terra, occorre trovare degli spazi di silenzio, imprescindibili per ascoltare Dio stesso, ma anche perché impossibile è comprendere totalmente la pienezza del suo mistero. Proprio ieri, in un'intervista su Rai 1, abbiamo "ascoltato" il silenzio del Papa davanti alla domanda su come vivere nel Venerdì Santo, l'ora delle 15:00, quella in cui Gesù muore. Davanti a certe cose che ci superano si può solo tacere. Ogni parola sarebbe aggiunta superflua, quasi ridicola, che poco potrebbe dire, tanto potrebbe anche "rovinare" la perfezione, la sublimità, la grandezza del momento.
L'esperienza del silenzio nel rapporto con Dio Padre l'ha vissuta anche Gesù: quando si ritirava solo, a pregare, durante la notte, avvolto anche dal silenzio della natura e dell'umanità che riposava; quando nella sofferenza del supplizio finale il Padre taceva; quando, nel momento della morte, nella conclusione, sulla Croce, della sua esperienza terrena, la vita "umana" ha cessato di essere, e la pietra ha poi sigillato il suo sepolcro, lasciando che i morti andassero coi morti. O almeno così era sembrato a quanti lo avevano conosciuto e amato... oppure odiato.
Ma il ricordo di quanto accaduto, in seguito, nel giorno di Pasqua ci dice che quel silenzio non era la fine della Parola, che quella morte non era la fine della vita, che il buio del sepolcro non era la sepoltura della luce.
Sì, è vero, Gesù è sceso in un "abisso", parola che ci richiama l'idea delle profondità, della mancanza di luce. Lo recitiamo nel Credo, lo deduciamo dalla Scrittura.
Ma la sua discesa agli inferi è avvenuta per la liberazione delle anime dei giusti che lo avevano preceduto. Ed era una discesa che precedeva un ritorno, quello della Risurrezione, vita piena, irruzione di luce, Verbo fattosi Carne per l'eternità.
Cosa può dire, allora, a noi discepoli di Cristo, questo apparente contrasto fra il silenzio e la parola? Cosa può dire la discesa negli inferi? Cosa può dire il ritorno alla vita?
«Il dizionario etimologico latino faceva risalire il significato nascosto della parola silentium per via di metatesi (inversione sillabica) al termine exilium. Cioè dalla parola exil-ium, si è passati a silex (l'austerità e la durezza del deserto di roccia?) e da qui a silentium. Anche se questa etimologia è dubbia, il significato è davvero suggestivo. Il silenzio è un esilio volontario nei meandri della nostra coscienza. Di questo l'epoca contemporanea ha davvero bisogno, e a tutti i livelli!» [1].
Senza silenzio non possiamo ascoltarci. Tante volte siamo portati a giustificarci inventandoci mille scuse per rendere plausibili le nostre azioni, i nostri pensieri, i nostri modi di fare, i nostri sentimenti, le nostre cattive inclinazioni, i nostri talenti.
Senza silenzio non possiamo vederci. Troppe volte cerchiamo di dipingerci migliori o peggiori di quelli che siamo, presi dalla paura del giudizio degli altri, delle loro aspettative, dei loro standard.
Senza silenzio non possiamo vivere. Spesso ci lasciamo soffocare da quello che il mondo vuole, impone, offre... e così facendo rischiamo di mettere a tacere i nostri veri desideri, ma soprattutto il progetto di Dio su ciascuno di noi.
Perché senza silenzio non possiamo ascoltare, vedere e vivere di e in Dio.
Solo nell'abisso del nostro stesso io possiamo e dobbiamo essere onesti con noi stessi, trasparenti nei confronti di Dio, lasciando che la sua Paola ci inabiti, ci guidi attraverso la voce della coscienza e il soffio dello Spirito.
Solo scendendo nei nostri stessi inferi possiamo vedere il nostro personale "inferno", la nostra "morte" interiore, spirituale, che ci sta cucita addosso perfettamente, e desiderare con tutto il cuore l'arrivo di Gesù, il Salvatore che ci tende la mano per salvarci e liberarci, facendoci risalire da questo abisso.
Solo scendendo nei nostri abissi possiamo trovare le parole vere, non il vuoto totale, e lasciarci "scavare", plasmare, modellare dalla Parola.
Nel silenzio, lasciando spazio solo alle parole di verità e alla Parola di Verità, possiamo imparare a dire parole che profumano di Vangelo; possiamo rifiorire nella Parola; possiamo imparare ad amare e a farci amare.
È quanto basta per risorgere.
[1] Alberto Fabio Ambrosio, Il silenzio necessario