TI PRENDO "IN" PAROLA
La sfida della corrispondenza tra l'essere e il dire
PRENDERE IN PAROLA
«Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5): è la risposta di Simon Pietro all'invito di Gesù a gettare le reti, dopo una nottata passata in mare senza prendere neppure un pesce.
Una risposta di fede, una risposta che implica un coinvolgimento pieno di Pietro, un superamento dei calcoli razionali, probabilistici, "percentualistici"; una risposta che indica il voler gettare via la zavorra del solo materialismo, per far spazio alla fede totale, all'adesione interiore ed esteriore, alla fiducia unica, assoluta, che si può riporre esclusivamente in Dio.
Credere "in" qualcuno coinvolge in maniera profonda tanto chi chiede, suggerisce, comanda di fare qualcosa, quanto chi si lascia coinvolgere, rispondendo alla parola - più o meno imperativa - che gli viene rivolta.
Un modo di dire che viene spesso impiegato per esprimere questa fiducia è "ti prendo in parola". Un'espressione che richiama un nocciolo vitale anche per la fede.
"In"
Prendere "in" parola qualcuno significa penetrare nell'essenza di ciò che l'altro è. Ci si fida di un altro essenzialmente in due casi: o perché chi parla offre una qualche assicurazione di quello che chiede-comanda-promette, o perché, pur in assenza di queste garanzie, si è portati, per istinto, per cecità (conscia o inconscia) o per falsità altrui, a credergli.
Nel caso di Gesù, prenderlo "in" parola è, fondamentalmente, un atto sia razionale che di fede, in quanto Dio è Dio, e, come tale, assolutamente fedele, capace di mantenere ciò che promette. Gesù dà al credente la massima delle garanzie sulla sua capacità di realizzare ciò che asserisce: la sua risurrezione, la vittoria della vita sulla morte, del divinamente possibile sull'umanamente impossibile.
Prendere "in" parola Gesù significa aver capito "chi" Egli sia realmente, l'averlo "conosciuto" e, per tal motivo, richiama dunque l'entrare "in" Lui - per quanto possibile all'uomo - il penetrare la sua essenza, la sua realtà più profonda.
Così, prendere qualcuno "in-nella" parola significa saper cogliere, attraverso ciò che egli dice, qualcosa del suo essere, il suo nocciolo, la sua dimensione più vera.
Prendere "in" parola Gesù significa aver capito "chi" Egli sia realmente, l'averlo "conosciuto" e, per tal motivo, richiama dunque l'entrare "in" Lui - per quanto possibile all'uomo - il penetrare la sua essenza, la sua realtà più profonda.
Così, prendere qualcuno "in-nella" parola significa saper cogliere, attraverso ciò che egli dice, qualcosa del suo essere, il suo nocciolo, la sua dimensione più vera.
La parola esprime, allora, qualcosa di intrinsecamente unico, tipico di ogni interlocutore, costitutivo di ogni persona.
Parola
«Un uomo non viene determinato da ciò che fa e ancora meno da ciò che dice. Se guardiamo in fondo, un essere è determinato unicamente da ciò che è», ha scritto Charles Peguy.
Sono parole, a prima vista, facilmente male interpretabili: non conta ciò che l'uomo dice? Non si comprende una persona da ciò che compie o/e da quello che afferma?
Nel caso di Dio, poi, non c'è intima relazione fra Parola e azione?
Tutto questo è vero, ma è pur vero che la parola è espressione di ciò che l'uomo e Dio sono. Non è la parola dell'uomo a fare l'uomo, ma l'uomo a fare la parola. L'uomo "dice" ciò che è. La parola è espressione di uno status interiore, non il contrario.
Nel caso di Dio, questa corrispondenza è perfetta, e la si ritrova tanto nell'Antico, come nel Nuovo Testamento. «Io sono colui che sono» (Es 3,14) dice di Sè stesso Dio a Mosè, in una perfetta coincidenza tra l'essere e il definirsi ("a parole") del divino.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che «questo nome divino esprime, come meglio non si potrebbe, la realtà di Dio, infinitamente al di sopra di tutto ciò che possiamo comprendere o dire.
Rivelando il suo nome, Dio rivela al tempo stesso la sua fedeltà che è da sempre e per sempre, valida per il passato, come per l'avvenire. Dio che rivela il suo nome come "Io Sono" si rivela come il Dio che è sempre là, presente accanto al suo popolo per salvarlo» (CCC 206 - 207).
Nel Nuovo Testamento la Parola di Dio si fa carne. È Dio Padre che genera il Verbo (la sua Parola) a Lui consustanziale ed eterno. E Gesù stesso afferma: «tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,5) e «quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato» (Gv 8,28).
Nel caso di Dio, questa corrispondenza è perfetta, e la si ritrova tanto nell'Antico, come nel Nuovo Testamento. «Io sono colui che sono» (Es 3,14) dice di Sè stesso Dio a Mosè, in una perfetta coincidenza tra l'essere e il definirsi ("a parole") del divino.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che «questo nome divino esprime, come meglio non si potrebbe, la realtà di Dio, infinitamente al di sopra di tutto ciò che possiamo comprendere o dire.
Rivelando il suo nome, Dio rivela al tempo stesso la sua fedeltà che è da sempre e per sempre, valida per il passato, come per l'avvenire. Dio che rivela il suo nome come "Io Sono" si rivela come il Dio che è sempre là, presente accanto al suo popolo per salvarlo» (CCC 206 - 207).
Nel Nuovo Testamento la Parola di Dio si fa carne. È Dio Padre che genera il Verbo (la sua Parola) a Lui consustanziale ed eterno. E Gesù stesso afferma: «tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,5) e «quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato» (Gv 8,28).
Dio Figlio esprime, con la sua parola, ciò che è espressione di tutte le qualità ontologiche del divino: parola di amore, perché Dio è amore; parola di giustizia, perché Dio è giustizia; parola di misericordia perché Dio è misericordia; parola di vita perché Dio è vita... e via dicendo. Il nome di Dio, la parola che lo definisce nell'Antico Testamento, in Cristo si fa carne, Parola vivente, definitiva (e più "visibile" all'uomo) assicurazione di fedeltà totale alla sua promessa.
IL PROBLEMA DELLA VERITÀ
La parola pone - tuttavia - un problema. Una parola "falsa" rischia di infrangere l'equazione parola=interiorità e verità dell'uomo e così ingenerare una dinamica di affidamento ingiustificato.
È una questione che pone l'uomo davanti al bivio della fiducia/sfiducia nei suoi simili, ma che determina anche la necessità di un impegno per la verità per ciascun essere umano.
Dalla parola di ciascuno può dipendere - in piccolo o in grande - la sorte degli altri. Una parola falsa, che non sia vera espressione della persona, può innescare spirali di odi, calunnie, insuccessi. Nel mondo del lavoro, le false promesse possono annullare speranze, condurre anche alla disperazione; nell'ambito familiare, una parola soltanto "lucidata" d'amore può scavare solchi di incomprensione e distruggere la psicologia dell'altro, specie dei figli; nelle relazioni tra persone di una comunità ecclesiale, una parola falsamente evangelica può far nascere sfiducia nella stessa "efficacia" della fede vissuta all'interno della chiesa. Sul piano spirituale, la fiducia nel bugiardo per eccellenza, il demonio, può condurre alla morte eterna.
Dio è l'unica e la sola Parola che è sempre degna di fede (cfr. 2Tm 2,11) ed è invito alla verità per ogni uomo, alla vera espressione esteriore dell'io interiore, alla corrispondenza tra il dire e l'essere.
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