CONDOLERSI
La misericordia del dolore
Giotto, Compianto sul Cristo morto (1303-1305)
Cappella degli Scrovegni, Padova
La morte di qualcuno chiama sempre in causa il dolore di un altro. Il con-dolersi (cum-dolere) è l'espressione istintiva di un mistero che tocca l'uomo nel suo più recondito io, a prescindere dal credo religioso o dalla vicinanza fisica o parentale.
Si può provare dolore per la perdita di un parente, di un amico, di un conoscente e perfino di un estraneo. Non sono solo i drammatici eventi come il sisma che ha colpito nei giorni scorsi l'Italia centrale a innescare questo meccanismo del cuore (e della psiche), ma anche storie della vita quotidiana segnalano all'uomo che il fatto stesso di confrontarsi con la dipartita di qualcuno ricorda - inevitabilmente, tempestivamente, profondamente - che la morte è un paradosso, quel paradosso che apparentemente sembra spazzare via volti, sorrisi, gesti, parole. Tutto ciò che rende l'uomo vivo agli occhi di un altro, tutto ciò che fa godere della presenza fisica, tangibile dell'altro e dell'espressione dei suoi sentimenti. È questa la mancanza che determina il dolore, ma non soltanto questa. Perché, se toccati da questo promemoria si riesce - in una qualche misura - a immedesimarsi nel dolore provato da chi sperimenta da vicino la perdita di una persona cara (specie se dopo lunghe o brevi malattie, catastrofi naturali, eventi improvvisi e inattesi) d'altro canto si prova dolore anche per il dolore di chi muore. Un dolore che si fa più o meno intenso in base all'età e alle circostanze in cui quel qualcuno muore.
Il condolersi diventa così l'espressione di una solidarietà umana che traduce - in sintesi - non semplicemente o solamente una maggiore o minore sensibilità personale, ma quell'essere parte di una stessa, lunga, antica catena umana. Una catena in cui ogni anello condivide la stessa sorte, va incontro allo stesso enigma, al medesimo salto nel buio. È un enigma la morte vissuta da chi resta ed è un enigma la morte vissuta da chi muore.
La fede non elimina del tutto questo enigma, perché l'uomo non riesce a comprendere pienamente il senso del dolore, il perché della morte; e così è chiamato sempre ad affidarsi come un cieco nelle mani di una guida sicura. In questa cecità nasce lo smarrimento, la sofferenza. Perché fidarsi ciecamente non è un concetto assimilabile razionalmente, ma può accadere solo se si uniscono mente e cuore, ragione e fede. Solo se si ama Colui che assicura un futuro dopo la sofferenza e la morte. Così dolersi con quelli che restano e dolersi per quelli che muoiono è una forma di solidarietà con chi è uomo come noi, chiamato al gioire e al soffrire, in quelle doglie del parto che coinvolgono tutta la creazione e tutti gli esseri umani in attesa della vita eterna (cfr. Rm 8,22). Il condolersi è una forma di compassione, a patto che non si trasformi in una semplice preoccupazione per il proprio futuro ("E se capitasse anche a me? - se perdessi anche io qualcuno allo stesso modo?"), a condizione che nasca come o si trasformi (anche o soltanto) in una misericordia concreta, una misericordia che si attua per mezzo della vicinanza a chi soffre, della preghiera per i vivi rimasti e per i morti che si affidano al Giudice Misericordioso per eccellenza.
Se il condolersi è tutto questo, allora anche la parola condoglianze, che ne deriva, diventa la manifestazione sintetica di questa misericordia: ricordo davanti a Dio, affetto sincero, un abbraccio, uno sguardo, un silenzio, un incoraggiamento. Ed è in questa misericordia che l'uomo si avvicina realmente a un altro uomo, ma anche a Dio, perché «niente unisce maggiormente con Dio che un atto di misericordia» [1].
Nel condolersi si vive quel che scrive san Paolo, nella sua lettera ai Romani «La carità non sia ipocrita; Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12, 9;15). La misericordia viene dal cuore per andare al cuore. Il dolore non può essere una fintiva: deve sgorgare dal di dentro della persona. Ma questa misericordia del dolore è anche - di fondo - una misericordia di speranza: «a partire dall’amore misericordioso con il quale Gesù ha espresso l’impegno di Dio, anche noi possiamo e dobbiamo corrispondere al suo amore con il nostro impegno. E questo soprattutto nelle situazioni di maggiore bisogno, dove c’è più sete di speranza» [2], situazioni come la morte, in cui la speranza delle speranze, quella contro ogni speranza, si fa strada: la vita non finisce con l'esistenza terrena che si chiude; la morte non disgiunge per sempre gli uni dagli altri. La morte non è soltanto dolore: è un passaggio, il passaggio alla nostra pasqua, al trionfo definitivo della misericordia divina sulla caducità umana, alla gioia eterna.
NOTE
La fede non elimina del tutto questo enigma, perché l'uomo non riesce a comprendere pienamente il senso del dolore, il perché della morte; e così è chiamato sempre ad affidarsi come un cieco nelle mani di una guida sicura. In questa cecità nasce lo smarrimento, la sofferenza. Perché fidarsi ciecamente non è un concetto assimilabile razionalmente, ma può accadere solo se si uniscono mente e cuore, ragione e fede. Solo se si ama Colui che assicura un futuro dopo la sofferenza e la morte. Così dolersi con quelli che restano e dolersi per quelli che muoiono è una forma di solidarietà con chi è uomo come noi, chiamato al gioire e al soffrire, in quelle doglie del parto che coinvolgono tutta la creazione e tutti gli esseri umani in attesa della vita eterna (cfr. Rm 8,22). Il condolersi è una forma di compassione, a patto che non si trasformi in una semplice preoccupazione per il proprio futuro ("E se capitasse anche a me? - se perdessi anche io qualcuno allo stesso modo?"), a condizione che nasca come o si trasformi (anche o soltanto) in una misericordia concreta, una misericordia che si attua per mezzo della vicinanza a chi soffre, della preghiera per i vivi rimasti e per i morti che si affidano al Giudice Misericordioso per eccellenza.
Se il condolersi è tutto questo, allora anche la parola condoglianze, che ne deriva, diventa la manifestazione sintetica di questa misericordia: ricordo davanti a Dio, affetto sincero, un abbraccio, uno sguardo, un silenzio, un incoraggiamento. Ed è in questa misericordia che l'uomo si avvicina realmente a un altro uomo, ma anche a Dio, perché «niente unisce maggiormente con Dio che un atto di misericordia» [1].
Nel condolersi si vive quel che scrive san Paolo, nella sua lettera ai Romani «La carità non sia ipocrita; Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12, 9;15). La misericordia viene dal cuore per andare al cuore. Il dolore non può essere una fintiva: deve sgorgare dal di dentro della persona. Ma questa misericordia del dolore è anche - di fondo - una misericordia di speranza: «a partire dall’amore misericordioso con il quale Gesù ha espresso l’impegno di Dio, anche noi possiamo e dobbiamo corrispondere al suo amore con il nostro impegno. E questo soprattutto nelle situazioni di maggiore bisogno, dove c’è più sete di speranza» [2], situazioni come la morte, in cui la speranza delle speranze, quella contro ogni speranza, si fa strada: la vita non finisce con l'esistenza terrena che si chiude; la morte non disgiunge per sempre gli uni dagli altri. La morte non è soltanto dolore: è un passaggio, il passaggio alla nostra pasqua, al trionfo definitivo della misericordia divina sulla caducità umana, alla gioia eterna.
NOTE
[1] Francesco, Prima meditazione in occasione del Ritiro Spirituale guidato in occasione del Giubileo dei Sacerdoti, 2 giugno 2016.
[2] Francesco, Udienza Giubilare, 20 febbraio 2016.
[2] Francesco, Udienza Giubilare, 20 febbraio 2016.
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