Commento al Vangelo
«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore. Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
(Lc 4, 18-19; 21)
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Gesù parla quest'oggi della sua missione, rimandando al testo di Isaia che gli viene presentato durante un momento tipico della sua vita di ebreo osservante, quello dell'ascolto - commento della Scrittura e della preghiera al sabato, giorno dedicato al culto in onore di Jahvè.
Possiamo concentrarci su una delle parole pronunciate dal Maestro: "poveri".
Chi sono i poveri a cui fa riferimento Gesù e - prima ancora di Lui - Isaia?
E' ipotizzabile una ricapitolazione ideale in questo termine delle altre categorie espresse subito dopo (prigionieri, ciechi, oppressi)?
Possiamo identificarci con questi poveri, bisognosi della salvezza che viene dal Signore?
Gesù legge un passo del capitolo 61 del profeta Isaia:
«Lo spirito del Signore Dio è su di me,
perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione;
mi ha mandato a portare
il lieto annuncio ai miseri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,
a proclamare la libertà degli schiavi,
la scarcerazione dei prigionieri,
a promulgare l'anno di grazia del Signore,
il giorno di vendetta del nostro Dio,
per consolare tutti gli afflitti,
per dare agli afflitti di Sion
una corona invece della cenere,
olio di letizia invece dell'abito di lutto,
veste di lode invece di uno spirito mesto»
(Is 61, 1-3).
Il termine "poveri", nell'originale testo biblico in lingua ebraica, è "‘anawìm", termine che la versione greca dei Settanta traduce con il medesimo vocabolo che ritroviamo oggi nel Vangelo: "πτωχός" - "ptōchôis" [1].
Proviamo, allora, ad analizzare queste parole, interessanti sul piano semantico e, a partire da questo, su quello teologico e spirituale.
Proviamo, allora, ad analizzare queste parole, interessanti sul piano semantico e, a partire da questo, su quello teologico e spirituale.
"Anawìm": un termine che percorre tutta la Scrittura
Gli anawìm sono per antonomasia i poveri della Bibbia, "i poveri di Dio".
Per comprendere meglio l'uso del termine all'interno del brano di Isaia letto da Gesù, è utile analizzare il rimando al profeta contenuto nel Salmo 149. Isaia parla infatti del «giorno di vendetta del nostro Dio», così come il Salmista prorompe in queste parole, che annunciano il giorno della «vendetta»:
«Alleluia.
Cantate al Signore un canto nuovo;
la sua lode nell'assemblea dei fedeli.
Il Signore ama il suo popolo,
incorona i poveri di vittoria.
Esultino i fedeli nella gloria,
facciano festa sui loro giacigli.
Le lodi di Dio sulla loro bocca
e la spada a due tagli nelle loro mani,
per compiere la vendetta fra le nazioni
e punire i popoli»
(Sal 149, 1; 4-7).
Il Salmo 149 rientra nel gruppo dei Salmi post-esilio babilonese, cosa che fa ben comprendere l'atmosfera gioiosa, di lode e di canto, ma anche la rappresentazione del Signore nelle vesti di Colui che riscatta il suo popolo e «incorona i poveri di vittoria», così come sono comprensibili le espressioni che rimandano ad immagini di guerra. Interessante è l'"immagine" del «canto nuovo«, che verrà cantato dai fedeli (dunque anche dai "poveri"). E' questo un elemento che ci pone dinanzi all'«avvenire escatologico» preso in considerazione dal Salmo, come si legge nelle note alla Bibbia di Gerusalemme. Il «canto nuovo» è infatti citato in Ap 5,8-10, ed è il canto di lode all'Agnello che ha riscattato «uomini di ogni tribù, lingua e nazione» con il sacrificio della Croce. Questo «canto nuovo» ritorna anche in Ap 12,3, laddove si precisa che solo «i redenti della terra», «i vergini», potranno comprenderlo.
Il concetto di «vergini», precisa la nota di commento alla Bibbia di Gerusalemme, va inteso «in senso metaforico: la lussuria designa tradizionalmente l'idolatria, qui il culto della bestia. I centoquarantaquattromila sono riscattati, sono integri e fedeli; hanno respinto l'idolatria e possono essere fidanzati all'Agnello».
Questi continui rimandi tra Vecchio e Nuovo Testamento ci consentono di comprendere meglio chi siano gli "anawìm"; in che senso la Parola (anche la Parola Incarnata, ossia Gesù) li citi in rapporto al dies irae (il giorno dell'ira, della vendetta del Signore) e quale sarà la loro condizione futura, escatologica.
In prima battuta possiamo focalizzare la nostra attenzione sulla "categoria" socio-economica-culturale dei "poveri di Dio" nell'Antico Testamento:
«Gli ‘anawim del Vecchio Testamento erano i poveri di ogni tipo: i deboli, gli emarginati, gli oppressi sul piano socio-economico, le persone di basso ceto senza potere terreno. Infatti, costoro dipendevano totalmente da Dio per tutto ciò che possedevano. La parola ebrea anawim significa coloro che sono inchinati» [2].
Troviamo un interessante approfondimento in una catechesi di Giovanni Paolo II. E' un testo che ci consente di analizzare anche l'aspetto "spirituale" di questa povertà e il suo collegamento con il riscatto del popolo da parte di Dio:
Il concetto di «vergini», precisa la nota di commento alla Bibbia di Gerusalemme, va inteso «in senso metaforico: la lussuria designa tradizionalmente l'idolatria, qui il culto della bestia. I centoquarantaquattromila sono riscattati, sono integri e fedeli; hanno respinto l'idolatria e possono essere fidanzati all'Agnello».
Questi continui rimandi tra Vecchio e Nuovo Testamento ci consentono di comprendere meglio chi siano gli "anawìm"; in che senso la Parola (anche la Parola Incarnata, ossia Gesù) li citi in rapporto al dies irae (il giorno dell'ira, della vendetta del Signore) e quale sarà la loro condizione futura, escatologica.
In prima battuta possiamo focalizzare la nostra attenzione sulla "categoria" socio-economica-culturale dei "poveri di Dio" nell'Antico Testamento:
«Gli ‘anawim del Vecchio Testamento erano i poveri di ogni tipo: i deboli, gli emarginati, gli oppressi sul piano socio-economico, le persone di basso ceto senza potere terreno. Infatti, costoro dipendevano totalmente da Dio per tutto ciò che possedevano. La parola ebrea anawim significa coloro che sono inchinati» [2].
Troviamo un interessante approfondimento in una catechesi di Giovanni Paolo II. E' un testo che ci consente di analizzare anche l'aspetto "spirituale" di questa povertà e il suo collegamento con il riscatto del popolo da parte di Dio:
«Gli ‘anawim, cioè “i poveri, gli umili”. Questa espressione è molto frequente nel Salterio e indica non solo gli oppressi, i miseri, i perseguitati per la giustizia, ma anche coloro che, essendo fedeli agli impegni morali dell’Alleanza con Dio, vengono emarginati da quanti scelgono la violenza, la ricchezza e la prepotenza. In questa luce si comprende che quella dei “poveri” non è soltanto una categoria sociale ma una scelta spirituale. Questo è il senso della celebre prima Beatitudine: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5,3). Già il profeta Sofonia si rivolgeva così agli ‘anawim: “Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini; cercate la giustizia, cercate l’umiltà, per trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore” (Sof 2,3).
Ebbene, il “giorno dell’ira del Signore” è proprio quello descritto nella seconda parte del Salmo quando i “poveri” si schierano dalla parte di Dio per lottare contro il male. Essi, da soli, non hanno la forza sufficiente, né i mezzi, né le strategie necessarie per opporsi all’irrompere del male. Eppure la frase del Salmista non ammette esitazioni: “Il Signore ama il suo popolo, incorona gli umili (‘anawim) di vittoria” (v.4). Si configura idealmente quanto l’apostolo Paolo dichiara ai Corinzi: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,28).
Con questa fiducia “i figli di Sion” (v. 2), hasidim e ‘anawim, cioè i fedeli e i poveri, si avviano a vivere la loro testimonianza nel mondo e nella storia. Il canto di Maria nel Vangelo di Luca - il Magnificat - è l’eco dei migliori sentimenti dei “figli di Sion”: lode gioiosa a Dio Salvatore, azione di grazie per le grandi cose operate in lei dal Potente, lotta contro le forze malvagie, solidarietà con i poveri, fedeltà al Dio dell’Alleanza (cfr Lc 1,46-55)» [3].
"χόςπτω": colui che sa sopportare e pazientare
E' il vocabolo greco che compare nel Nuovo Testamento; è dunque quello che ritroviamo nel passo del Vangelo lucano proclamato quest'oggi.
La sua traslitterazione nei nostri caratteri alfabetici è "ptōchôis", la cui derivazione etimologica ci riporta a "ptōssō". Quest'ultimo verbo è molto interessante, perché designa la posizione un po' curva di chi mendica, piegandosi sulle propria ginocchia, ma anche di chi si copre per "paura", di chi "trema". Su un piano concreto, il termine esprime dunque l'idea dell'indigenza che "mette in ginocchio" la persona, e la colloca in una posizione di "paura" e di invisibilità rispetto ai potenti del mondo. Ma sul piano spirituale e metaforico, il "povero" biblico è colui che sa sopportare il peso gravoso della vita che vorrebbe schiacciarlo, le umiliazioni, le fatiche, ogni tipo di povertà (economica, psicologica, fisica), e che nonostante tutto rimane "fedele" al Signore, fiducioso nella Sua promessa, mosso dal santo timore di Dio (non da una vile paura). Il "povero" si riveste di umiltà nei confronti dell'unico potere che egli riconosca: quello divino. Ecco che, allora, il gesto del "sopportare" (l'atto di rimanere piegato sulle ginocchia, come spinti verso il basso da un peso, ma non "stesi al tappeto") si unisce al gesto del "mendicare". Il vero "povero di Dio" rimane sereno e orante nella prova, e attende di ricevere la salvezza che viene dal Signore. Chi mendica resta con la mano tesa, aperta, pronta a ricevere quanto verrà donato. Chiedere a Dio la Sua "carità" è un gesto di fiducia, di amore, di fedeltà.
I veri "anawìm" ( o "ptōchôis"- "πτωχός" che dir si voglia) sono «quei fedeli che si riconoscevano "poveri" non solo nel distacco da ogni idolatria della ricchezza e del potere, ma anche nell'umiltà profonda del cuore, spoglio dalla tentazione dell'orgoglio, aperto all'irruzione della grazia divina salvatrice» [4].
Fede e speranza nella salvezza che viene dal Signore sono, quindi, le virtù che animano la vita del "povero". San Paolo, nella Prima Lettura di oggi ci esorta infatti proprio alla speranza: «Se Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con Lui coloro che sono morti» (1Ts 4,14).
Se il povero possiede questo grande tesoro, come potrà mantenersi "umile"? E' ancora una volta San Paolo a fornire una risposta, attraverso un'altra sua epistola:
«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. in noi agisce la morte, in voi la vita.
Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l'inno di ringraziamento, per la gloria di Dio» (2 Cor 4, 7-15).
POVERI: PRIGIONIERI, CIECHI, OPPRESSI
Dopo l'analisi dei termini utilizzati in ebraico e in greco per indicare la categoria del "povero biblico", è possibile rispondere ad un altro degli interrogativi iniziali.
Il concetto di "poveri" cui fa riferimento Gesù, comprende tutti quelli che vengono in seguito elencati dal testo di Isaia, proclamato da Cristo nella Sinagoga. I poveri non sono distinti dai prigionieri, dai ciechi, dagli oppressi. I poveri "comprendono" tutte e tre le categorie. I poveri sono prigionieri, perché fintanto che la povertà li costringe a rimanere in ginocchio, manca loro la libertà di movimento; sono ciechi, perché l'atteggiamento tipico del povero è di mendicare a testa china, con lo sguardo fisso in un punto unico, "basso", senza prospettive "alternative"; sono oppressi, perché la pesantezza del fardello caricato sulle loro spalle fa sentire loro tutta la difficoltà della vita.
Vi è tuttavia anche una lettura metaforica della "povertà", che ci fa guardare alla condizione di chi attende di essere salvato dalla misericordia di Dio. Sono "gli uomini di buona volontà", quegli uomini di cui parla l'Apocalisse. «Uomini di ogni tribù, lingua e nazione» che sanno, come i mendicanti, accogliere l'offerta della Salvezza a piene mani, per essere risollevati da Colui che «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9).
GESU', COLUI CHE SI E' FATTO POVERO PER SALVARE I POVERI
«Nella sua epistola ai Filippesi, San Paolo ci dice che Gesù svuotò sé stesso, assumendo una forma di servo, diventando simile agli uomini. La frase "svuotò sé stesso", si riferisce in primo luogo all'Incarnazione. La Kenosi [5] di Gesù significa che colui che ha svuotato sé stesso liberamente, ha scelto di privarsi di qualcosa che già possedeva. Una persona che si svuota dà via la sua ricchezza e diventa povera. San Francesco d'Assisi ne è un esempio famoso. Gesù ha fatto questo affinché attraverso la sua povertà (noi) "potessimo diventare ricchi". E' entrato nella condizione degli aniwim privi di potere, ma non ha dis-divinizzato sé stesso della sua Divinità. Si è fatto una cosa sola con i poveri, diventando assolutamente povero. Gesù ha svuotato sé stesso in quanto amore (agape) per redimere l'umanità attraverso la kenosi. L'amore porta alla kenosi, e la kenosi alla gloria. L'amore era l'unica ragione per la sua incarnazione, la sua passione, morte e risurrezione» [6].
E' Gesù la ricchezza del povero; la Sua Umanità "condivisa", rende possibile a noi, uomini poveri, una cosa umanamente impossibile: entrare in "comunione" con la Sua Divinità, che è la vera e sola ricchezza, il riscatto da ogni miseria, la liberazione da oni tenebra di peccato e di dolore, di malattia e di morte, di indigenza e di indifferenza altrui, la fine di ogni oppressione, la libertà dopo ogni prigionia.
«Dio si è fatto uomo perché l'uomo si facesse Dio. Perché il servo si cambiasse in padrone Dio prese la condizione di servo. Abitò sulla terra l'abitatore dei cieli perché l'uomo abitatore della terra potesse trovar dimora nei cieli» [7]. Così ci assicura - e rassicura -sant'Agostino. Dio ha voluto condividere con noi la "povertà" per renderci degni di accedere alla contemplazione eterna della Sua gloria, in quel Regno dove «molti dei primi saranno ultimi» mentre «gli ultimi saranno primi» (Mc 10,31), chiamati a godere per sempre del «tesoro di gloria» che racchiude l'eredità di Gesù fra i santi (cfr. Ef 1,18).
[1] Per i significati del vocabolo greco si può consultare il sito biblehub.com
[2] Sr. Joan L. Roccasalvo, C.S.J., The anawim: who are they?,
[5] Il termine greco "Kenosi" significa "svuotamento, annientamento".
[6] Sr. Joan L. Roccasalvo, in ult. cit.
"χόςπτω": colui che sa sopportare e pazientare
E' il vocabolo greco che compare nel Nuovo Testamento; è dunque quello che ritroviamo nel passo del Vangelo lucano proclamato quest'oggi.
La sua traslitterazione nei nostri caratteri alfabetici è "ptōchôis", la cui derivazione etimologica ci riporta a "ptōssō". Quest'ultimo verbo è molto interessante, perché designa la posizione un po' curva di chi mendica, piegandosi sulle propria ginocchia, ma anche di chi si copre per "paura", di chi "trema". Su un piano concreto, il termine esprime dunque l'idea dell'indigenza che "mette in ginocchio" la persona, e la colloca in una posizione di "paura" e di invisibilità rispetto ai potenti del mondo. Ma sul piano spirituale e metaforico, il "povero" biblico è colui che sa sopportare il peso gravoso della vita che vorrebbe schiacciarlo, le umiliazioni, le fatiche, ogni tipo di povertà (economica, psicologica, fisica), e che nonostante tutto rimane "fedele" al Signore, fiducioso nella Sua promessa, mosso dal santo timore di Dio (non da una vile paura). Il "povero" si riveste di umiltà nei confronti dell'unico potere che egli riconosca: quello divino. Ecco che, allora, il gesto del "sopportare" (l'atto di rimanere piegato sulle ginocchia, come spinti verso il basso da un peso, ma non "stesi al tappeto") si unisce al gesto del "mendicare". Il vero "povero di Dio" rimane sereno e orante nella prova, e attende di ricevere la salvezza che viene dal Signore. Chi mendica resta con la mano tesa, aperta, pronta a ricevere quanto verrà donato. Chiedere a Dio la Sua "carità" è un gesto di fiducia, di amore, di fedeltà.
I veri "anawìm" ( o "ptōchôis"- "πτωχός" che dir si voglia) sono «quei fedeli che si riconoscevano "poveri" non solo nel distacco da ogni idolatria della ricchezza e del potere, ma anche nell'umiltà profonda del cuore, spoglio dalla tentazione dell'orgoglio, aperto all'irruzione della grazia divina salvatrice» [4].
Fede e speranza nella salvezza che viene dal Signore sono, quindi, le virtù che animano la vita del "povero". San Paolo, nella Prima Lettura di oggi ci esorta infatti proprio alla speranza: «Se Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con Lui coloro che sono morti» (1Ts 4,14).
Se il povero possiede questo grande tesoro, come potrà mantenersi "umile"? E' ancora una volta San Paolo a fornire una risposta, attraverso un'altra sua epistola:
«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. in noi agisce la morte, in voi la vita.
Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l'inno di ringraziamento, per la gloria di Dio» (2 Cor 4, 7-15).
POVERI: PRIGIONIERI, CIECHI, OPPRESSI
Dopo l'analisi dei termini utilizzati in ebraico e in greco per indicare la categoria del "povero biblico", è possibile rispondere ad un altro degli interrogativi iniziali.
Il concetto di "poveri" cui fa riferimento Gesù, comprende tutti quelli che vengono in seguito elencati dal testo di Isaia, proclamato da Cristo nella Sinagoga. I poveri non sono distinti dai prigionieri, dai ciechi, dagli oppressi. I poveri "comprendono" tutte e tre le categorie. I poveri sono prigionieri, perché fintanto che la povertà li costringe a rimanere in ginocchio, manca loro la libertà di movimento; sono ciechi, perché l'atteggiamento tipico del povero è di mendicare a testa china, con lo sguardo fisso in un punto unico, "basso", senza prospettive "alternative"; sono oppressi, perché la pesantezza del fardello caricato sulle loro spalle fa sentire loro tutta la difficoltà della vita.
Vi è tuttavia anche una lettura metaforica della "povertà", che ci fa guardare alla condizione di chi attende di essere salvato dalla misericordia di Dio. Sono "gli uomini di buona volontà", quegli uomini di cui parla l'Apocalisse. «Uomini di ogni tribù, lingua e nazione» che sanno, come i mendicanti, accogliere l'offerta della Salvezza a piene mani, per essere risollevati da Colui che «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9).
GESU', COLUI CHE SI E' FATTO POVERO PER SALVARE I POVERI
«Nella sua epistola ai Filippesi, San Paolo ci dice che Gesù svuotò sé stesso, assumendo una forma di servo, diventando simile agli uomini. La frase "svuotò sé stesso", si riferisce in primo luogo all'Incarnazione. La Kenosi [5] di Gesù significa che colui che ha svuotato sé stesso liberamente, ha scelto di privarsi di qualcosa che già possedeva. Una persona che si svuota dà via la sua ricchezza e diventa povera. San Francesco d'Assisi ne è un esempio famoso. Gesù ha fatto questo affinché attraverso la sua povertà (noi) "potessimo diventare ricchi". E' entrato nella condizione degli aniwim privi di potere, ma non ha dis-divinizzato sé stesso della sua Divinità. Si è fatto una cosa sola con i poveri, diventando assolutamente povero. Gesù ha svuotato sé stesso in quanto amore (agape) per redimere l'umanità attraverso la kenosi. L'amore porta alla kenosi, e la kenosi alla gloria. L'amore era l'unica ragione per la sua incarnazione, la sua passione, morte e risurrezione» [6].
E' Gesù la ricchezza del povero; la Sua Umanità "condivisa", rende possibile a noi, uomini poveri, una cosa umanamente impossibile: entrare in "comunione" con la Sua Divinità, che è la vera e sola ricchezza, il riscatto da ogni miseria, la liberazione da oni tenebra di peccato e di dolore, di malattia e di morte, di indigenza e di indifferenza altrui, la fine di ogni oppressione, la libertà dopo ogni prigionia.
«Dio si è fatto uomo perché l'uomo si facesse Dio. Perché il servo si cambiasse in padrone Dio prese la condizione di servo. Abitò sulla terra l'abitatore dei cieli perché l'uomo abitatore della terra potesse trovar dimora nei cieli» [7]. Così ci assicura - e rassicura -sant'Agostino. Dio ha voluto condividere con noi la "povertà" per renderci degni di accedere alla contemplazione eterna della Sua gloria, in quel Regno dove «molti dei primi saranno ultimi» mentre «gli ultimi saranno primi» (Mc 10,31), chiamati a godere per sempre del «tesoro di gloria» che racchiude l'eredità di Gesù fra i santi (cfr. Ef 1,18).
[1] Per i significati del vocabolo greco si può consultare il sito biblehub.com
[2] Sr. Joan L. Roccasalvo, C.S.J., The anawim: who are they?,
in www.catholicnewsagency.com (i passi riportati sono stati tradotti dall'originale inglese).
[4] Benedetto XVI, Udienza generale, 15 febbraio 2006.[5] Il termine greco "Kenosi" significa "svuotamento, annientamento".
[6] Sr. Joan L. Roccasalvo, in ult. cit.
[7] Sant'Agostino, Discorso 371, 1 (in versione informatica è disponibile in www.augustinus.it
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