giovedì 8 maggio 2025

HABEMUS PAPAM!

 

"Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti, e il male non prevarrà! 
Siamo tutti nelle mani di Dio. Pertanto, senza paura, uniti mano nella mano con Dio e tra di noi andiamo avanti. Siamo discepoli di Cristo. 
Cristo ci precede. Il mondo ha bisogno della sua luce. 
L’umanità necessita di Lui come il ponte per essere raggiunta da Dio e dal suo amore". (Leone XIV)


mercoledì 23 aprile 2025

Sguardo cristiano su notizie di attualità

EQUILIBRI PAPALI

Considerazioni sulla morte del Papa (di ogni Papa)



Alla morte di ogni Papa siamo soliti affrontare ciò che proprio ogni papa non vorrebbe: una sorta di culto alla persona che cozza con la natura (moderna?) del Papato, ma ancor di più col cristianesimo. 

Ne fummo già testimoni con il "santo subito" di Papa Giovanni Paolo, in cui, pur nulla togliendo alla santità del Papa (che poi la Chiesa non ha mancato di riconoscere in via ufficiale), si rischiava di sviare dal momento solenne che il cattolicesimo stava vivendo in quel momento: una sede vacante dopo un lunghissimo pontificato; la perdita di una guida che aveva accompagnato il popolo di Dio per buona parte della vita; la fine di un'era anche storica, se così vogliamo dire, connotata da grandi eventi in cui il papa inizialmente sconosciuto ai più aveva fortemente contribuito (basti pensare alla caduta del muro di Berlino); ma, e soprattutto, l'estrema gravità del momento in cui anche un Papa (sì, anche un Pontifex Maximus!) si presenta al cospetto del Dio della vita.
Pensassimo solo a questo – da cristiani, semplicemente da cristiani – ci affacceremmo con "timore e tremore" anche al mistero della morte di un Papa, che ha grandi doni, sì, ma anche grandissime responsabilità, e a cui sarà chiesto molto di più, perché molto ha ricevuto; perché molto gli fu affidato, come ricorda in generale il Vangelo di Luca. La morte richiede, qualcune morte richiede, preghiera e silenzio. 

Certamente la fine di un papato è anche, innegabilmente e doverosamente, un tempo di bilanci. Ma la cosa sempre poco costruttiva dei bilanci è che usiamo soppesare le cose buone di una persona contro quelle presunte "cattive", o poco riuscite, degli altri. E forse oggi, vent'anni dopo la fine del pontificato di Giovanni Paolo II, assistiamo a questo processo in maniera più evidente del solito, complice anche una società dell'immagine in cui ciò che più si imprime nel costrutto razionale sono le istantanee di un momento, quelle che divengono, poi, fotogrammi simbolo. Cose sempre esistite, ma che certamente l'uso massiccio dei social ha amplificato. 
Anche i molti dibattiti televisivi che in queste ore si stanno snocciolando sulle varie reti, mostrano spesso la faccia dell'ipocrisia di chi, vivo un Papa, è acerrimo nemico della sua "politica ecclesiale", e morto questi ne diventa, immediatamente e improvvisamente, grande estimatore. 

In questi giorni sono molti i giusti elogi al pontificato di papa Francesco, ma anche molti gli spropositi di chi, cavalcando l'onda del momento, utilizza frasi ad arte per minimizzare i papi precedenti, per distruggere la storia del Papato, per sminuire coloro che stati dati come guide della Chiesa.
Diventa più che mai necessario fare attenzione, un'attenzione estrema, per non cadere in trappole perniciose, che ci farebbero diventare a nostra volta dei sobillatori, aperti alla creazione di fazioni che non fanno bene né a noi stessi come cristiani singoli né alla Chiesa come istituzione né al mondo non cattolico che ci guarda dal di fuori.

Ogni pontificato, checché se ne dica, si costruisce a partire da quello precedente, tanto in ciò che di completo è stato fatto quanto in ciò che è rimasto a metà, tanto in ciò che viene portato a compimento quanto in quello che viene, apparentemente o meno, ribaltato.
E in ogni pontificato, anche se in maniera differente, si ripete (per grazia di Dio e per libera disponibilità umana) una donazione fino alla fine.

Stupendo il gesto di papa Francesco di uscire per la benedizione Urbi et Orbi di Pasqua, e la sua decisione di fare il giro fra i presenti in piazza, ma non dimentichiamoci del pugno sbattuto sul leggio da Giovanni Paolo II, in una delle sue ultime apparizioni, quando l'allora papa Wojtyla non riuscì a pronunciare una sola parola; oppure la benedizione silenziosa impartita nel suo ultimo Angelus, il 20 marzo del 2005, Domenica delle Palme: era un uomo sofferente, ammalato di Parkinson, che aveva subito una tracheotomia.

Non scordiamoci nemmeno dell'ultima udienza di Benedetto XVI, il 27 febbraio del 2013. Pur nella rigidità di movimenti che lo contraddistinse da quell'ultima fase in poi, portò avanti quella catechesi, ricordandoci che la Chiesa non è nostra, ma di Cristo, che non la lascia affondare. Anche la sua decisione di rimanere nel monastero Mater Ecclesiae, anziché ritornare in Baviera, fu una scelta che dimostrò il suo desiderio di rimanere comunque a servizio della Chiesa - dentro le mura vaticane - fino alla fine. Lo aveva sottolineato in quella stessa ultima udienza, affermando: «Il “sempre” è anche un “per sempre” - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro». 

Si parla anche molto, in questi giorni, di una presunta dicotomia fra teologia e pastorale, per opporre il pontificato di Francesco a quelli precedenti. 
Eppure dimentichiamo l'apporto teologico che fu alla base di un pontificato innovativo come quello di Giovanni Paolo II (definito da qualcuno, per i suoi tanti viaggi, "il trolley di Dio"), sotto cui uscì la nuova edizione del Catechismo della Chiesa Cattolica, grazie alla Commissione presieduta dal Cardinale Ratzinger. 
Ragionando in termini di spaccature, dimentichiamo anche il magistero di Benedetto XVI, fine teologo, che ha forgiato una nuova generazione di sacerdoti che ancora oggi vediamo nelle nostre parrocchie, dando loro solidità nelle verità di fede, senza le quali il nostro credere sarebbe senza fondamenta solide.
Scordiamo, ancor di più, che la teologia – scienza affascinante perché ci permette di addentrarci nei misteri insondabili di Dio – ha un posto di tale rilievo nella nostra spiritualità perché la stessa Scrittura ne è ricca. Basterebbe fermarsi solo al Vangelo di Giovanni, che si distingue dai sinottici proprio e principalmente per questa sua attenzione teologica, che non va a diminuire l'importanza degli altri Vangeli, ma che ce li fa apprezzare da un altro punto di vista, li integra, li arricchisce. È l'insieme che fa la completezza, non la divisione.

Si parla, infine, di moltissime riforme attuate da papa Francesco. Tutto vero, innegabile, ma non dimentichiamo che queste riforme arrivano dopo le aperture dei precedenti papi: se a livello papale possiamo parlare dei "santi della porta accanto" (termine molto caro a papa Francesco), è certamente anche perché Giovanni Paolo II diede un impulso straordinario alla canonizzazione dei laici, superando uno schema consolidato che premiava in percentuale estremamente più alta la santità di sacerdoti e religiosi/e. 
Se possiamo parlare di lotta alla pedofilia nella Chiesa, è perché Benedetto XVI ruppe il silenzio, parlandone ancora più apertamente del suo predecessore (ci si potrebbe soffermare soltanto sulla Lettera ai Cattolici d'Irlanda, e sulle precedenti modifiche alle "Normae de gravioribus delictis" nel 2010).
E si potrebbero fare discorsi analoghi sulle riforme economiche, sull'abolizione di alcuni simboli (la tiara pontificia scomparve sotto Paolo VI; la sedia gestatoria aveva già incontrato poco il favore di Giovanni Paolo I e ne fu poi definitivamente abolito l'uso da Giovanni Paolo II), sulla cura del creato e su molti altri argomenti.

Se si può parlare di santità, dunque, non dimentichiamoci di tutta la schiera dei papi che abbiamo avuto nel corso dei secoli. Fra cui già ci sono santi canonizzati, beati e venerabili.
Non inciampiamo nell'errore di osannare il presente disprezzando il passato. Ogni papa, fra l'altro, è naturale che porti con sé ciò che caratterialmente è: è successore di Pietro, ma nella sua personale identità, che se venisse a mancare ci toglierebbe qualcosa, perché lo renderebbe meno libero nella sua risposta a Dio attraverso la sua storia personale, la sua essenza, la sua personalità. 
Lo abbiamo visto nel corso dei secoli: il Papa buono, il Papa del sorriso, l'Atleta di Dio, il Papa teologo. Tutti nomi che ci dicono qualcosa dello specifico carattere di ogni pontefice, del loro carisma peculiare all'interno della Chiesa. 

Forse per questo, don Bosco, conoscitore dell'animo giovanile che tanto vive più facilmente quei sentimentalismi estremizzati che a volte prendono anche noi adulti, invitava i suoi a scrivere: "W il Papa" piuttosto che uno specifico "W Pio IX" (il pontefice del suo tempo). 
Perché ad osannare l'uno rispetto ai tanti si corrono due rischi: o si perdono quei chiaroscuri che fanno umana ogni persona o si distrugge il passato, la storia che ci ha preceduti, dimenticando però che da quella, noi tutti, proveniamo. 

Anche la Chiesa. 

Anche il Papa. 

Anche noi, pecore del gregge dell'Unico Pastore.

mercoledì 19 marzo 2025

Arte e fede

UN DONO AL PADRE

Festa di san Giuseppe


Di san Giuseppe nell'arte si potrebbero dire molte cose, essendo rappresentato in varie scene, che affondano le loro radici nel materiale biblico che lo vede protagonista.
Ma l'immagine che va per la maggiore è, senza dubbio, quella probabilmente più semplice, in cui il santo appare assieme al Bambino/fanciullo Gesù. Si tratta di opere declinate, di volta in volta, con una serie di piccole variazioni: in alcune il Figlio cammina accanto al padre, dandogli talora la mano; in altre (moltissime) il santo falegname di Nazareth porta il figlio in braccio; in tante il pargoletto indica con la mano il papà, per invogliarci a rivolgerci a lui; in alcune, poche rispetto a questa grande massa di opere, san Giuseppe riceve un fiore in dono da Gesù. 

Proprio questo tipo di iconografia ritroviamo, per esempio, nella pala che don Bosco volle per la Basilica di Maria Ausiliatrice in Torino (immagine a sx). Grande devoto di san Giuseppe, Giovanni Bosco ne curava le feste e il mese a lui dedicato, inserì sempre nelle chiese da lui erette un altare dedicato a questo santo, e, per la basilica torinese, diede precise indicazioni al pittore Lorenzone per la realizzazione di quest'opera, datata al 187. 
Interessanti sono le scritte bibliche che campeggiano in alto (Ite ad Joseph - Andate a Giuseppe) e sulla nella trabeazione del timpano (Constituit eum dominum domus suae - Lo costituì signore della sua casa). Esse ci introducono nel significato generale del quadro, che qualcuno non disdegnò definire come una vera e propria predica su ciò che è la devozione a san Giuseppe (così come riportato nel volume X delle Memorie Biografiche).
Dio stesso ci invita, nella persona di suo Figlio, a rivolgerci a san Giuseppe (dichiarato proprio due anni prima patrono della Chiesa universale), uomo così giusto e meritevole da essere stimato degno di diventare "signore della Sua casa", custode dei Suoi tesori più preziosi: Gesù e Maria. E quanto Giuseppe sia "signore della casa di Dio" lo testimonia il dono che il Bambino gli offre: il piccolo Gesù ha con sé un panierino di rose, che porge – una alla volta – al proprio padre terreno. Questi, poi, le lascia cadere sotto di sé, sulla Basilica di Maria Ausiliatrice (e quindi sulla Torino) collocata sotto i suoi piedi. Sono le grazie che Dio sparge, per mezzo di san Giuseppe, sull'oratorio, ma che possiamo rileggere, in senso traslato, come segno della prolifica attività di intercessore del santo. Non a caso santa Teresa d'Avila, nella sua autobiografia, aveva potuto ben dire di essere sempre stata esaudita nelle richieste rivolte a lui, perché san Giuseppe ha ricevuto il potere da Dio di soccorrerci in tutti i nostri bisogni. 
Una convinzione che è entrata a far parte – a pieno titolo – della preghiera più diffusa al santo: il Sacro Manto in onore di san Giuseppe.

In qualche altra sparuta immagine, Gesù offre a suo padre un giglio, simbolo di purezza.Così lo ritroviamo nella scultura conservata presso la Chiesa di San Donato a Bassano del Grappa (VI), edificata agli inizi del Duecento, parte di uno dei primi conventi francescani del Veneto. La tradizione vuole che qui sant'Antonio di Padova abbia incontrato Ezzelino III. Così lo ritroviamo nella scultura conservata presso la Chiesa di San Donato a Bassano del Grappa (VI), edificata agli inizi del Duecento, parte di uno dei primi conventi francescani del Veneto. La tradizione vuole che qui sant'Antonio di Padova abbia incontrato Ezzelino III.
Questa iconografia poco diffusa, delicata, ci rammenta che ogni purezza viene da Dio (Gesù è il giglio, il puro per eccellenza), e che san Giuseppe ha saputo vivere in pienezza questa "castità" che è ricchezza, nella bellezza del suo essere sposo e padre, custode di Maria e di Gesù, e, proprio per questo, custode di tutta la Chiesa, custode di noi tutti. 
Questa iconografia poco diffusa, delicata, ci rammenta che ogni purezza viene da Dio (Gesù è il giglio, il puro per eccellenza), e che san Giuseppe ha saputo vivere in pienezza questa "castità" che è ricchezza, nella bellezza del suo essere sposo e padre, custode di Maria e di Gesù, e, proprio per questo, custode di tutta la Chiesa, custode di noi tutti. 



San Giuseppe col Bambino, Bassano del Grappa, Chiesa di San Donato 
© Maria Rattà 2024

È un'opera di tranquilla e raffinata dolcezza, che nella sua delicatezza esprime tutto l'affetto di un padre verso un figlio e di un figlio verso un padre. Un affetto che si manifesta, come già nella pala del Lorenzone, anche attraverso il gesto di un "regalo", tanto simbolico quanto concreto. 
Regalo, parola che nella sua etimologia rimanda anche ai doni che i sudditi facevano al re. 
Così Gesù, che è il Re dei re, si fa "obbediente", suddito di Giuseppe che è "signore della casa": Cristo si fa figlio per davvero, non per finta. E ci invoglia a fare altrettanto, prendendo sul serio Giuseppe, che se padre di Cristo è anche padre nostro. Lo diceva senza mezzi termini san  Josemaría Escrivá de Balaguer, quando scriveva: "San Giuseppe, Padre di Cristo, è anche Padre tuo e tuo Signore" (Cammino, n. 559).
Non dimentichiamoci, allora, di Giuseppe di Nazareth, che nel suo umile silenzio appare quasi come la figura più dimessa nel grande progetto di salvezza, ma che proprio nella sua discrezione è grande, perché capace di agire senza troppe parole, senza strepiti, senza proclami.
Gesù, ha accettato di esserne figlio, e così come ha vissuto nell'obbedienza il suo rapporto col Padre celeste, altrettanto lo ha fatto verso Giuseppe, vero padre perché vero sposo di Maria. 
La sua vicenda ci dice che Dio non scherza, specialmente coi sentimenti. 
Non facciamolo neanche noi.

Buona festa a tutti i papà, buona festa a tutti coloro che portano il nome di Giuseppe. 


domenica 12 gennaio 2025

Pensieri per lo spirito

GESÙ, ETERNO BAMBINO

Fine del tempo di Natale



© Maria Rattà 2025

Ha un sapore dolceamaro questa fine/inizio, in cui termina per noi il tempo di Natale e comincia, per Gesù, la missione pubblica che si concluderà sulla Croce.
È un passaggio quasi forzato, accelerato: quel 
Gesù Bambino, che abbiamo poco tempo fa adorato in una grotta, diventa improvvisamente adulto, e si mette in fila lungo le rive del Giordano per farsi condonare dei peccati che, in verità, non sono suoi, ma di altri. Un attraversamento carico di responsabilità, di "adultità", in cui finisce la spensieratezza dell'infanzia, e la leggerezza fa spazio alla serietà. Quella della vita, quella della vocazione, quella della solidarietà con gli altri.  
Un apparente paradosso evangelico, però, ci fa notare che proprio l'infanzia, per certi versi, non può e non deve finire: «S
e non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3).
Una parola che Gesù per primo non ha semplicemente pronunciato, ma messo in pratica. Nella giustizia che Egli vuole si adempia (cfr. Mt 3,15) attraverso questo «battesimo di conversione» (Lc 3,3), si manifesta proprio il suo rimanere eternamente bambino. Il suo passaggio dall'infanzia all'età adulta è segnato infatti dal dialogo col Padre, dall'affidamento a Lui, dalla comunione profonda.
Sì, possiamo pensare a Gesù come uno di noi, che è rimasto pur sempre bambino nella propria interiorità: uno che ha conservato nel cuore la nostalgia dell'infanzia perduta, delle carezze della madre, degli insegnamenti del padre; uno che ha custodito nell'intimo i profumi di casa, le attenzioni dei nonni, le risate con i compagni di giochi; uno che ha preservato le memorie di attimi di sicura protezione fra le braccia di chi, crescendo, non si può più ritrovare fisicamente, ma che sempre rimane impresso nella pelle e nell'animo. 
Ma Gesù, quel Gesù adulto che insieme ai peccatori attende di essere battezzato dal cugino Giovanni, è come un bambino che sa di aver bisogno di qualcuno più grande di lui; che riconosce di non essere solo al mondo; consapevole di dover comunicare con Colui che può guidarlo verso la vera felicità, che può aiutarlo a comprendere la propria chiamata, che può svelare ai suoi stessi occhi i talenti di cui è dotato. «
Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera» (Lc 3,21): è l'atteggiamento del bambino che alza lo sguardo e tende le mani ai propri genitori, nella sicura certezza di non essere abbandonato.
E dall'Alto il cielo risponde, con una colomba, una voce, una parola d'amore. 
Perché solo nell'amore è possibile che il tempo di festa finisca, lasciando spazio a un ordinario che mantenga una sua propria bellezza e dignità; perché solo nell'amore si può assumere la fatica dell'impegno e del lavoro in attesa di un nuovo tempo festivo; perché solo nell'amore la normalità diventa straordinaria anche nel dolore. 
E se ciò è possibile è solo perché l'amore non è un tappabuchi, ma uno straripamento di pienezza anche nelle croci del cammino: è sapersi supportati e sopportati da chi ci ama. Non solo, cioè, accompagnati, ma anche sorretti: sopportare, infatti, è reggere il peso di un altro. Chi ci ama si fa carico di noi anche quando la debolezza ci impedisce di andare avanti, di proiettare oltre lo sguardo, di coltivare la gioia. Chi ci ama ci prende per mano, o in braccio, 
proprio come un genitore fa col suo bambino stanco di camminare, o vinto dal sonno o a rischio di perdersi rimanendo da solo.  
Chi ci ama ci sta accanto e ci risolleva per ridonarci la gioia. Quella gioia spontanea, serena, irrefrenabile che è tipica dei bambini, di chi ancora non ha visto le miserie del mondo, le cattiverie umane, le bugie dei prepotenti e dei meschini.
Così è Gesù nelle mani del Padre: un eterno Bambino, sollevato al di sopra di ogni bruttura; innocente e felice. Perché amato e riamante. Proprio come nel suo Natale.

GENEROSO NATALE (Alda Merini)

Oh, generoso Natale di sempre!
Un mitico bambino
che viene qui nel mondo
e allarga le braccia
per il nostro dolore.
Non crescere, bambino,
generoso poeta
che un giorno tutti chiameranno Gesù.
Per ora sei soltanto
un magico bambino
che ride della vita.
e non sa mentire.

giovedì 2 gennaio 2025

Giubileo della Speranza

 

"IL TEMPO E LA SPERANZA"

Buoni propositi per il nuovo anno




Il nuovo anno comincia sotto il segno di una donna: Maria, la Madre di Dio, la Madre degli uomini.
Ma del tempo diciamo che è esso è dono di Dio, e così l'anno che inizia è il regalo che ci concede il Padre per essere, ancora una volta, immersi nella storia in un moto di rinnovamento che viviamo alla luce dei cosiddetti "buoni propositi" con cui accogliamo, in fin dei conti, ogni fine che si riversa in un ricominciare. Sono le nostre aspettative personali e globali, che riflettono, nella loro profondità più intima, il nostro bisogno di trascendenza: ciò che abbiamo non è mai sufficiente, siamo sempre alla ricerca di altro, abbiamo costantemente necessità di guardare oltre, di respirare una felicità più grande, di cogliere obiettivi più elevati, di incontrare, in fin dei conti, la versione migliore di noi stessi. 
La dimensione storica che attraversiamo non è soltanto un pugno di mesi in successione l'uno dopo l'altro, ma un cammino che cresce con noi e in cui noi stessi cresciamo, nella speranza di andare incontro agli altri e all'Altro, e che gli altri e l'Altro facciano altrettanto con noi. 
Ogni nuovo anno è, insomma, una piccola Genesi, in cui desideriamo essere ricreati, per riprendere la nostra corsa con più slancio, lasciandoci alle spalle le cose che di quello precedente non ci sono piaciute, che ci hanno provocato sofferenza, ferite, traumi; ma anche conservando e migliorando le situazioni nuove, belle, entusiasmanti che abbiamo vissuto; portando con noi le persone che ci hanno offerto la loro vicinanza, la loro amicizia, il loro amore.
La fine che si riversa nell'inizio ha un po' il sapore dell'innamoramento, in cui davvero sentiamo che tutte le cose si fanno sempre nuove, sempre "principio" di un oggi che diventa un domani più bello e pieno; la fine che si consuma nel principio ha sempre un po' il gusto dell'amore che sboccia, in cui la speranza ha la parola più forte, e ci fa realmente credere che tutto sia possibile.
L'anno nuovo, come la vita e come l'amore, richiede allora un Padre e una Madre per essere veramente generativo, vitale, vivente. Qualcuno che non solo ci porti alla luce, ma che ci prenda anche per mano e ci accompagni, ci insegni ciò che ci serve e poi ci lasci liberi di andare con le nostre gambe. 
L'anno nuovo, come la vita e come l'amore, necessita di un Padre e una Madre che rigenerino in noi la fiducia nella freschezza di nuove possibilità; che riaccendano in noi la capacità di scorgere grandi orizzonti anche quando tutto sembra cupo; che rianimino in noi il desiderio di rialzarci anche se siamo caduti. 
Se Dio è il Dio della speranza, del tempo e della storia, allora ogni nuovo anno è, principalmente, un tempo di speranza: non c'è virtù umana per esercitare un qualche potere sul tempo – diceva papa Francesco nel 2013 – ma l'unica virtù per guardare al tempo è la speranza [1].  
Nella speranza, proprio il tempo che apparentemente si riavvolge intorno al nastro di partenza non è semplicemente una fiaba, ma lo spazio di nuove, concrete possibilità: e laddove non si possono cambiare vicende e persone, allora, che nella speranza, possiamo almeno cambiare noi stessi, per avere sguardi, pensieri e cuore allenato. Per vivere meglio, più padroni di noi stessi, autonomi e forti come quel Padre e quella Madre che ci introducono in questo nuovo inizio per farci guardare dentro di noi e nelle nostre esistenze, e farci scoprire, proprio nella speranza, ricchezze che forse non sapevamo di possedere.
Questa è la vera speranza: essere consapevoli di non essere soli, e che ogni tassello che compone la nostra vita ha un senso, anche quando non si incastra secondo i nostri progetti umani, perché tutto procede verso Colui che raccoglie e armonizza in sé tutta la storia.
La nostra, insieme alla Sua. 

Buon 2025 a tutti, buon Giubileo della speranza!


[1] Papa Francesco, Meditazione mattutina a Santa Marta, 25 novembre 2013.