EQUILIBRI PAPALI
Considerazioni sulla morte del Papa (di ogni Papa)
Alla morte di ogni Papa siamo soliti affrontare ciò che proprio ogni papa non vorrebbe: una sorta di culto alla persona che cozza con la natura (moderna?) del Papato, ma ancor di più col cristianesimo.
Ne fummo già testimoni con il "santo subito" di Papa Giovanni Paolo, in cui, pur nulla togliendo alla santità del Papa (che poi la Chiesa non ha mancato di riconoscere in via ufficiale), si rischiava di sviare dal momento solenne che il cattolicesimo stava vivendo in quel momento: una sede vacante dopo un lunghissimo pontificato; la perdita di una guida che aveva accompagnato il popolo di Dio per buona parte della vita; la fine di un'era anche storica, se così vogliamo dire, connotata da grandi eventi in cui il papa inizialmente sconosciuto ai più aveva fortemente contribuito (basti pensare alla caduta del muro di Berlino); ma, e soprattutto, l'estrema gravità del momento in cui anche un Papa (sì, anche un Pontifex Maximus!) si presenta al cospetto del Dio della vita.
Pensassimo solo a questo – da cristiani, semplicemente da cristiani – ci affacceremmo con "timore e tremore" anche al mistero della morte di un Papa, che ha grandi doni, sì, ma anche grandissime responsabilità, e a cui sarà chiesto molto di più, perché molto ha ricevuto; perché molto gli fu affidato, come ricorda in generale il Vangelo di Luca. La morte richiede, qualcune morte richiede, preghiera e silenzio.
Certamente la fine di un papato è anche, innegabilmente e doverosamente, un tempo di bilanci. Ma la cosa sempre poco costruttiva dei bilanci è che usiamo soppesare le cose buone di una persona contro quelle presunte "cattive", o poco riuscite, degli altri. E forse oggi, vent'anni dopo la fine del pontificato di Giovanni Paolo II, assistiamo a questo processo in maniera più evidente del solito, complice anche una società dell'immagine in cui ciò che più si imprime nel costrutto razionale sono le istantanee di un momento, quelle che divengono, poi, fotogrammi simbolo. Cose sempre esistite, ma che certamente l'uso massiccio dei social ha amplificato.
Anche i molti dibattiti televisivi che in queste ore si stanno snocciolando sulle varie reti, mostrano spesso la faccia dell'ipocrisia di chi, vivo un Papa, è acerrimo nemico della sua "politica ecclesiale", e morto questi ne diventa, immediatamente e improvvisamente, grande estimatore.
In questi giorni sono molti i giusti elogi al pontificato di papa Francesco, ma anche molti gli spropositi di chi, cavalcando l'onda del momento, utilizza frasi ad arte per minimizzare i papi precedenti, per distruggere la storia del Papato, per sminuire coloro che stati dati come guide della Chiesa.
Diventa più che mai necessario fare attenzione, un'attenzione estrema, per non cadere in trappole perniciose, che ci farebbero diventare a nostra volta dei sobillatori, aperti alla creazione di fazioni che non fanno bene né a noi stessi come cristiani singoli né alla Chiesa come istituzione né al mondo non cattolico che ci guarda dal di fuori.
Ogni pontificato, checché se ne dica, si costruisce a partire da quello precedente, tanto in ciò che di completo è stato fatto quanto in ciò che è rimasto a metà, tanto in ciò che viene portato a compimento quanto in quello che viene, apparentemente o meno, ribaltato.
E in ogni pontificato, anche se in maniera differente, si ripete (per grazia di Dio e per libera disponibilità umana) una donazione fino alla fine.
Stupendo il gesto di papa Francesco di uscire per la benedizione Urbi et Orbi di Pasqua, e la sua decisione di fare il giro fra i presenti in piazza, ma non dimentichiamoci del pugno sbattuto sul leggio da Giovanni Paolo II, in una delle sue ultime apparizioni, quando l'allora papa Wojtyla non riuscì a pronunciare una sola parola; oppure la benedizione silenziosa impartita nel suo ultimo Angelus, il 20 marzo del 2005, Domenica delle Palme: era un uomo sofferente, ammalato di Parkinson, che aveva subito una tracheotomia.
Non scordiamoci nemmeno dell'ultima udienza di Benedetto XVI, il 27 febbraio del 2013. Pur nella rigidità di movimenti che lo contraddistinse da quell'ultima fase in poi, portò avanti quella catechesi, ricordandoci che la Chiesa non è nostra, ma di Cristo, che non la lascia affondare. Anche la sua decisione di rimanere nel monastero Mater Ecclesiae, anziché ritornare in Baviera, fu una scelta che dimostrò il suo desiderio di rimanere comunque a servizio della Chiesa - dentro le mura vaticane - fino alla fine. Lo aveva sottolineato in quella stessa ultima udienza, affermando: «Il “sempre” è anche un “per sempre” - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro».
Si parla anche molto, in questi giorni, di una presunta dicotomia fra teologia e pastorale, per opporre il pontificato di Francesco a quelli precedenti.
Eppure dimentichiamo l'apporto teologico che fu alla base di un pontificato innovativo come quello di Giovanni Paolo II (definito da qualcuno, per i suoi tanti viaggi, "il trolley di Dio"), sotto cui uscì la nuova edizione del Catechismo della Chiesa Cattolica, grazie alla Commissione presieduta dal Cardinale Ratzinger.
Ragionando in termini di spaccature, dimentichiamo anche il magistero di Benedetto XVI, fine teologo, che ha forgiato una nuova generazione di sacerdoti che ancora oggi vediamo nelle nostre parrocchie, dando loro solidità nelle verità di fede, senza le quali il nostro credere sarebbe senza fondamenta solide.
Scordiamo, ancor di più, che la teologia – scienza affascinante perché ci permette di addentrarci nei misteri insondabili di Dio – ha un posto di tale rilievo nella nostra spiritualità perché la stessa Scrittura ne è ricca. Basterebbe fermarsi solo al Vangelo di Giovanni, che si distingue dai sinottici proprio e principalmente per questa sua attenzione teologica, che non va a diminuire l'importanza degli altri Vangeli, ma che ce li fa apprezzare da un altro punto di vista, li integra, li arricchisce. È l'insieme che fa la completezza, non la divisione.
Si parla, infine, di moltissime riforme attuate da papa Francesco. Tutto vero, innegabile, ma non dimentichiamo che queste riforme arrivano dopo le aperture dei precedenti papi: se a livello papale possiamo parlare dei "santi della porta accanto" (termine molto caro a papa Francesco), è certamente anche perché Giovanni Paolo II diede un impulso straordinario alla canonizzazione dei laici, superando uno schema consolidato che premiava in percentuale estremamente più alta la santità di sacerdoti e religiosi/e.
Se possiamo parlare di lotta alla pedofilia nella Chiesa, è perché Benedetto XVI ruppe il silenzio, parlandone ancora più apertamente del suo predecessore (ci si potrebbe soffermare soltanto sulla Lettera ai Cattolici d'Irlanda, e sulle precedenti modifiche alle "Normae de gravioribus delictis" nel 2010).
E si potrebbero fare discorsi analoghi sulle riforme economiche, sull'abolizione di alcuni simboli (la tiara pontificia scomparve sotto Paolo VI; la sedia gestatoria aveva già incontrato poco il favore di Giovanni Paolo I e ne fu poi definitivamente abolito l'uso da Giovanni Paolo II), sulla cura del creato e su molti altri argomenti.
Se si può parlare di santità, dunque, non dimentichiamoci di tutta la schiera dei papi che abbiamo avuto nel corso dei secoli. Fra cui già ci sono santi canonizzati, beati e venerabili.
Non inciampiamo nell'errore di osannare il presente disprezzando il passato. Ogni papa, fra l'altro, è naturale che porti con sé ciò che caratterialmente è: è successore di Pietro, ma nella sua personale identità, che se venisse a mancare ci toglierebbe qualcosa, perché lo renderebbe meno libero nella sua risposta a Dio attraverso la sua storia personale, la sua essenza, la sua personalità.
Lo abbiamo visto nel corso dei secoli: il Papa buono, il Papa del sorriso, l'Atleta di Dio, il Papa teologo. Tutti nomi che ci dicono qualcosa dello specifico carattere di ogni pontefice, del loro carisma peculiare all'interno della Chiesa.
Forse per questo, don Bosco, conoscitore dell'animo giovanile che tanto vive più facilmente quei sentimentalismi estremizzati che a volte prendono anche noi adulti, invitava i suoi a scrivere: "W il Papa" piuttosto che uno specifico "W Pio IX" (il pontefice del suo tempo).
Perché ad osannare l'uno rispetto ai tanti si corrono due rischi: o si perdono quei chiaroscuri che fanno umana ogni persona o si distrugge il passato, la storia che ci ha preceduti, dimenticando però che da quella, noi tutti, proveniamo.
Anche la Chiesa.
Anche il Papa.
Anche noi, pecore del gregge dell'Unico Pastore.
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