domenica 18 ottobre 2015

I SANTI CONIUGI MARTIN


Un contributo attuale per la famiglia di oggi
Riflessioni intorno al Sinodo




«Scoprendo la vita di Luigi e Zelia Martin, che vissero nel XIX secolo, ci si accorge che i loro esempi ci parlano ancora oggi. Infatti, ciascuno di noi potrà ritrovarsi in taluni degli aspetti della loro vita: desiderio di consacrarsi a Dio, matrimonio tardivo, travagli per la sopravvivenza e l'avvenire dei loro bambini, Leonia bambina difficile, preoccupazioni economiche e professionali, inquietudini dovute agli alleati politici del Paese, cancro al seno per Zelia, malattia che provocò a Luigi dei gravi problemi mentali, nel corso della sua vecchiaia... La santità di Luigi e Zelia è una santità che si addice a tutti i tempi, a tutte le situazioni, a tutte le condizioni di vita» [1].
Infatti, rileggendo le pagine conclusive di un testo che narra la storia della loro famiglia, e che fu pubblicato per la prima volta nel 1944 (Storia di una famiglia, di Padre Piat), si scopre un'attualità senza pari, nel nucleo familiare dei Martin:
  • il problema "vocazionale" (il "senso" e la direzione da dare alla propria vita) coinvolge genitori e figli e si snoda sullo stesso binario della chiamata alla santità; 
  • il problema dell'unità per Luigi e Zelia (passare dall'uno al due che diventano "una sola carne") diventa il problema del sentirsi "una cosa sola" anche tra genitori e figli, e tra sorelle, una volta intervenuti fattori come la morte di Zelia, la separazione fisica per l'ingresso al Carmelo - e per Leonia alla Visitazione - delle signorine Martin e la malattia mentale di Luigi; 
  • il problema educativo dei figli (come fare di loro non un oggetto, ma creature da aiutare nel loro sviluppo!) acquista una dimensione molto moderna, in quanto ciascuna delle bambine di casa Martin è un "mondo a sé stante", che richiede cure personalizzate. Il tutto all'interno di un contesto sociale che, ieri come oggi, presentava le sue sfide.

Con una lucidità soprendentemente "in avanti" per i suoi tempi, Padre Piat traccia un quadro che non dimentica neppure la questione dell'essere "uomo e donna" nel progetto di Dio, e la necessità di continuare a ricordare che la famiglia è la cellula primaria della società. Se si smarrisce la famiglia, è la stessa società a farne le spese. Ecco perché, ancora oggi, i coniugi Martin hanno qualcosa da dire alla famiglia di oggi. Luigi e Zelia hanno saputo realizzarsi come persone, secondo il progetto di Dio, sopportando quelle difficoltà che la vita non risparmia a nessuno. Hanno messo al mondo delle figlie che non hanno visto nel "nido" domestico un nastro isolante dal mondo, ma che, al contrario, ne hanno fatto il trampolino di lancio per la realtà "fuori" dalla famiglia, ma anche al suo interno (nelle relazioni interpersonali e nella maturazione del carattere), forgiandosi in mezzo a prove dolorose, ma nella serenità di sapersi sempre abbracciate dall'affetto dei propri cari. Una delle figlie di Luigi e Zelia - Teresa Martin - è stata proclamata ormai da tempo santa (1925) e Dottore della Chiesa (1997) ed è oggi più nota come Santa Teresa di Gesù Bambino; per un'altra, Leonia Martin (la figlia che tanto fece preoccupare tutta la famiglia!) si è aperta la causa di beatificazione, il 2 luglio 2015, presso il monastero di Caen, dove consacrò la sua vita al Signore. Oggi Leonia è serva di Dio, e la si ricorda con il suo nome da religiosa: suor Francesca Teresa. 
I coniugi Martin sono la prima coppia di sposi canonizzati nella storia della Chiesa.




 I PROBLEMI ATTUALI DELLA FAMIGLIA MODERNA
L'APPORTO DELLA FAMIGLIA MARTIN ALLA LORO SOLUZIONE

Padre Stefano Giuseppe Piat*


 «Una famiglia simile non sembrerà anacronistica ai nostri contemporanei? Ci saranno di quelli che rimetteranno in circolazione il termine "prigione" applicandolo, come avevano fatto i polemisti anarchici, all'unione coniugale sigillata dal sacramento del matrimonio? Un esempio così elevato non darà le vertigini? Sta di fatto che i moderni  hanno creduto di spezzare le loro catene, sferrando l'assalto contro l'architettura divina della famiglia. La rivoluzione francese le ha dato il primo colpo di piccone istituendo il matrimonio civile, che nega praticamente il carattere religioso del patto coniugale. Strappata la costruzione dalle mani di Dio e messa in balia degli uomini, la marea furiosa della ragione è giunta ben presto a demolirla, trovando tanti argomenti speciosi. Servitù, l'unità della famiglia. Non è crudeltà ridurre a questo punto gli impulsi della sensibilità di un cuore incontenibile? Servitù, l'indissolubilità del vincolo. Come rifiutare ai matrimoni disuniti "la valvola di sicurezza" del divorzio? 
Servitù, il vincolo stesso. L'amore deve forse conoscere leggi? "Il tuo corpo è tuo": ecco la formula dell'avvenire. 
Servitù, i figli, testimoni ingombranti che disturbano le evoluzioni sentimentali. Passi ancora per "il figlio unico" che perpetua il nome! Ma alla larga dalla prole numerosa che impone abnegazione, là dove tutto dev'essere libertà! 
Servitù, l'educazione. Lo Stato se ne curi lui: non è forse, dopo Gian Giacomo Rousseau, il padre universale incaricato del controllo della razza? 
Il piacere a due, l'egoismo assoluto dei coniugi, l'avventura precaria: ecco ciò che la nuova morale senza obblighi e senza sanzioni sostituisce all'impegno stabile e al dono di sé. Jules Guesde ne dava la definizione, nel 1878, scrivendo crudamente nel Catechismo socialista: "La famiglia dev'essere conservata? No, perché essa è stata fino ad oggi una forma di proprietà e non la meno odiosa... L'interesse della specie, come gli interessi degli elementi che compongono la famiglia, esigono che questo stato di cose scompaia". 
Gli eventi hanno dimostrato con eloquente durezza che cosa sia diventata l'umanità in questo gioco. Come evitare la guerra, quando le ricchezze ammucchiate su un territorio spopolato ne fanno una tentazione ed un bottino inerme? Come sfuggire alla sovrapproduzione e alla disoccupazione se il numero dei consumatori decresce di anno in anno? Come sostenere i vecchi, i malati, le persone deboli, se non vengono su le giovani generazioni a dar loro il cambio? Come forgiare i caratteri, come trovare i capi se, divenendo generale il rifiuto della vita, si fiacca lo spirito d'iniziativa e il gusto del rischio? Quando tutte le pietre sono logorate, minate dall'interno, l'edificio può conservare per un certo tempo l'equilibrio e la brillante facciata; ma si avvia fatalmente alla rovina. 
Un paese vale per quello che valgono le famiglie: vive del loro vigore e agonizza con esse. Quando vengono meno, gli studiosi di statistica, possono segnare con le loro curve le previsioni inesorabili del declino, dello sfacelo e della scomparsa finale della nazione. Forse qualcuno può pensare che, pur sacrificando la patria, almeno si è raccolta la felicità. Ma che cosa si è guadagnato ad imparare l'arte dell'amore alla scuola delle "stelle" e delle vedette del cinema, della radio e del teatro? Nella cronaca cinematografica, nelle pagine provocanti dei romanzi scandalistici, il delitto passionale fa scorta all'amore. Da tutti gli ospedali sale il gemito lugubre di quelli che un drammaturgo ardito chiamava "gli avariati". Ritorniamo a grandi passi verso il paganesimo, nel quale la donna non aveva onore, schiava della lussuria e dei rudi lavori manuali. 
La volontà sbrigliata avvilisce e offusca lo spirito: l'umanesimo si eclissa davanti alla sessualità. Triste simbolo di questo disinganno è il cupo destino della famiglia di Carlo Marx. Delle tre figlie del dottore del socialismo due morirono suicide: la prima per i maltrattamenti di un discepolo del padre, fervido ammiratore di Darwin; la seconda per aver legato la sua vita al militante francese Paul Lafargue, che si avvelenò con lei lasciando queste parole esplicative: "moriamo perché la vita non ha più gioie da darci". La frase è rivelatrice dello smarrimento delle anime senza Dio. Le gioie hanno espulso la gioia; gli amori hanno bandito l'amore. Sotto uno scenario elegante di raffinata civiltà il mondo in cui molti si divertono soffoca l'uomo. Paul Bureau nel suo libro L'indiscipline des moeurs ha scritto su questo argomento pagine deprimenti. E le pubblicava al termine dell'altra guerra. Che cosa direbbe oggi, a venticinque anni di distanza? Sulle macerie della dimora avita ha preso piede la statolatria stigmatizzata da Pio XI. Si parla molto oggi di crociata per i diritti della persona umana. La culla e il centro della vita personale non è la famiglia? Se questa viene rovesciata non restano di fronte che l'individuo-atomo e lo stato-Moloch che lo soggioga e lo divora. Solo la famiglia può resistere al Potere totalitario che Nietzsche stesso definì "il più freddo dei mostri freddi". Non c'è altra alternativa possibile: o "ritorno alla famiglia", o "tutto allo stato". È ciò che afferma Pio XII quando rivendica nei suoi messaggi "lo spazio vitale della famiglia". Dopo aver compilato il bilancio del fallimento che invita alla modestia i sostenitori del "libero amore", abbiamo forse diritto di proporre come modello ai nostri contemporanei una famiglia in cui regnò quella che talvolta vien detta, con un briciolo di ironia, la vecchia morale del buon tempo andato. 

 * * * 

Nell'eroica famiglia Martin tutto fu sottomesso alla legge di Dio. Non si cercavano scappatoie: il Crocifisso che presiedeva alla vita comune non era un ornamento convenzionale. In ogni parte della casa esso richiamava, con la presenza del Maestro e la sua sovranità, l'osservanza esatta del decalogo e del Vangelo. Là l'amore non fu mai merce di contrabbando, né scatenamento di istinti. Dagli inizi del fidanzamento esso si ammantò di un carattere quasi religioso, che la grazia del matrimonio portò al suo vertice. 
La famiglia è un santuario in cui Dio regna, una scuola dove le anime progrediscono, una cittadella nella quale un popolo si raccoglie e, all'occorrenza, si trincera con le sue riserve di virtù. Certamente gli obblighi sono pesanti; ma le "servitù" diventano grandezze. È stato detto che due sposi sono per vocazione "due mani giunte per una eterna adorazione, o due pugni stretti per una eterna riprovazione". È vero che queste sublimi prospettive sgomentano la maggior parte delle persone coniugate. Velandola dietro qualche sottinteso o buttandola fuori brutalmente, alcuni fanno una obiezione insidiosa: "In fondo, i genitori di Teresa si sono volontariamente privati di ogni gioia terrena. Sono stati schiavi dei doveri familiari; da tutte le parti si sono abbattute su di loro prove innumerevoli. Ad essi possiamo concedere benissimo la gloria postuma: ma non per questo l'esistenza che hanno condotto quaggiù cessa di essere un calvario. Forse così devono vivere gli eroi e i santi: ma l'umanità media non è costituita dai santi e neppure dagli eroi. Inchiniamoci, e passiamo oltre". L'argomento fila, ma non conclude. Se interroghiamo la corrispondenza della signora Martin, le confidenze di suo marito, i ricordi delle loro figliole, troviamo dovunque, e persino tra le lacrime, la testimonianza di una pace, di una serenità interiore, che tradiscono la vera felicità. Il lavoro, la malattia, la morte li colpiscono ripetutamente; ma la gioia viene sempre a galla, l'ottimismo ha sempre l'ultima parola. Siamo dunque di fronte a ciò che si dice comunemente una famiglia fortunata. Qual è il segreto di tanta beatitudine? Certamente la serenità della buona coscienza, la quiete dell'unione con Dio, l'aiuto onnipotente della grazia. È vero; ma ci sono anche la fioritura dell' amore umano e le effusioni di una famiglia in cui la vita non ha timore di prodigarsi. Per il fatto di essere segnata con il suggello del dovere, la tenerezza reciproca degli sposi non è meno sensibile. La carità, anziché indebolirla, l'approfondisce elevandola ad un'essenza più pura; la rende immune dai capricci e dalle reazioni della carne; la inizia alla mutua sopportazione e alla devozione senza limiti. Solo l'egoismo attenta all' amore coniugale: di esso Dio non sarà mai geloso, perché ne è l'Autore primo. Egli esige soltanto che se ne rispetti il fine. 
Amare nell'ordine è svilupparsi. Amare violando il piano del Creatore è falsare la natura, sabotare una grandezza, votare sensi e cuore, dietro una ebbrezza passeggera, alla confusione, alla corruzione. 
La stessa cosa si deve dire del "giogo" che fa rabbrividire i nostri contemporanei: cioè le responsabilità familiari. I coniugi Martin non le hanno scansate. Sono andati avanti risolutamente, allegramente, senza calcolo. Le hanno prese così come sono, con i loro pesi ineluttabili e le loro sublimi compensazioni. Hanno conosciuto il dolore: ma l'educazione cristiana magistralmente impartita alle figliole li ha risparmiati dalla prova più crudele; quella di assistere allo smarrimento e alla caduta delle proprie creature. 
Le loro ragazze sono state il loro orgoglio, la loro consolazione, il loro appoggio. 
Ogni culla versava nell'anima dei genitori una forza di rinnovamento e quasi un aumento di ricchezza interiore. Chi può immaginare il potere beatificante di un simile apporto, la dolcezza di sentirsi circondati fino a questo punto dalla gratitudine e dalla pietà filiale? D'accordo, risponderà qualcuno, è stata una famiglia ben riuscita: ma un certo giorno la nave è naufragata; gli affetti umani sono stati annientati dietro la grata del monastero dove si sono arenate tutte le figliole. Non è stato detto - è padre Petitot che cita la frase - che il chiostro è un luogo dove "ci si mette insieme senza scegliersi, si vive senza conoscersi e si muore senza compiangersi"? Concediamo ai figli di Voltaire, che lanciano la battuta umoristica, che la professione religiosa comporti una reale immolazione dell'amore. Non solo essa proibisce la prospettiva del matrimonio, ma innalza altresì una barriera, almeno morale, tra i membri della stessa famiglia. Pensiamo alla emozione dell'ultimo bacio scambiato sulla terra tra la "Reginetta" e il suo "Re". Ma non è tutto. Qualcuno può immaginare che nel convento dove Teresa entrava, ritrovando le sue due sorelle maggiori, ella volesse stabilire con loro una calda intimità, che fosse come una rivincita del cuore, un ritorno offensivo della sensibilità compressa. La santa stessa risponde edificandoci: "Non è affatto per vivere con le mie sorelle che sono venuta al Carmelo: è unicamente per rispondere alla chiamata di Gesù. Ah, intuivo bene che sarebbe stato motivo di sofferenza continua vivere con le proprie sorelle, quando non si vuole concedere niente alla natura!" [2]. La compagnia che Teresa cercava maggiormente era quella delle religiose meno simpatiche. Quando suor Agnese di Gesù divenne priora, la santa fu colei che in comunità godette meno di tutte i colloqui con la sua "mammina". All'ingresso in monastero della cugina Maria Guérin si astenne dall'avvicinarsi alla porta della clausura per non scorgere la famiglia di lei, benché, a causa dei lavori in corso, da un anno non si fosse incontrata con loro nel parlatorio del convento. Troncando ogni legame, Teresa accettò 1'ipotesi di partire per il Carmelo di Hanoi. E quando il progetto andò a monte per le sue condizioni di salute, acconsentì alla eventualità ancor più crocifiggente della partenza di madre Agnese di Gesù e di suor Genoveffa per Saìgon. "Ah, non avrei voluto fare nemmeno un gesto per impedirle di partire! Eppure sentivo una grande tristezza nel cuore" [3]. A questa frase qua1cuno protesterà: "Ascetismo barbaro, questo, che anestetizza gli affetti. E proprio necessario diventare disumani per amare Dio?". Teresa mette a punto le cose con il suo perfetto senso di equilibrio. "Nel donarsi a Dio, il cuore non perde la sua tenerezza naturale, anzi questa tenerezza aumenta, diventando sempre più pura e divina" [4]. Non si tratta di mutilare, ma solo di potare. La linfa non è disseccata; il fiotto contenuto un istante, zampilla più potente e più fecondo. Nella vita consacrata l'affetto non svanisce, anzi si dilata, come afferma Teresa: "Come sono felice adesso di essermene astenuta fin dall'inizio della mia vita religiosa! Godo già della ricompensa promessa a coloro che combattono coraggiosamente. Non sento più necessario rifiutarmi tutte le consolazioni del cuore, perché la mia anima è resa stabile da Colui che volevo amare unicamente. Mi accorgo con gioia che, amando Lui, il cuore si dilata e può donare incomparabilmente più affetto a coloro che gli sono cari, che non se si fosse concentrato in un amore egoista ed infruttuoso" [5]. Rettificata, disciplinata e gerarchizzata, la sensibilità prende nuovo slancio: si afferma in quei puri capolavori che sono le lettere indirizzate da Teresa a Celina e a tutti i familiari; negli addii di lei morente a Leonia e allo zio Isidoro; nella sua predilezione per il beato Teofano Vénard, anima amante, se mai ce ne furono, a proposito del quale diceva: "anch'io amo molto la mia 'piccola' famiglia. Non comprendo i santo che non amano la loro famiglia" [6]. E d'altra parte tutto ciò non le impedisce di raccomandare alle sorelle, in quel medesimo periodo, di non "condurre la vita di famiglia"; e cioè di non adagiarsi borghesemente in una rete di affetti troppo naturali. Tutto dev'essere subordinato alla visione finale quale già la santa aveva descritto: "Quando penso a queste cose, la mia anima s'immerge nell'infinito; mi sembra di toccare già la riva eterna... Mi sembra di ricevere l' abbraccio di Gesù. Immagino di vedere la Madre del Cielo venirmi incontro con papà, mamma, i quattro angioletti... Immagino di godere finalmente per sempre della vera, eterna vita in famiglia... " [7]. Siamo ben lontani dall'inaridimento e dall'indifferenza glaciale, rimproverati da certa letteratura ai monaci e alle suore della leggenda. Neppure la morte arresta le effusioni: sotto una forma particolarmente delicata i parenti della santa parteciperanno alla "pioggia di rose". Maria riceve dalla figlioccia un bacio celeste; una sera di torture fisiche, la scorge ai suoi fianchi, che allenta le povere membra rattrappite dai reumatismi e le rimbocca la coperta sulla spalla intorpidita. Leonia vede una mano di luce rischiararle il breviario ed eccitarla al fervore. Paolina e Celina respirano profumi d'incenso. La signora Guérin, dopo una crisi eccezionalmente crudele, dichiara a chi la circondava: "Soffro molto, ma la mia piccola Teresa mi ha vegliata con tanta tenerezza! Tutta la notte me la sono sentita vicina e, accarezzandomi a più riprese, essa mi ha infuso uno straordinario coraggio" [8].
Nel 1915, quando Leonia - divenuta suor Francesca Teresa nella Visitazione di Caen - fu chiamata a Lisieux per deporre davanti al tribunale ecclesiastico, che teneva le sue sedute al Carmelo, le quattro sorelle rivissero, con trasporto, tutte le memorie di Alençon e di Lisieux. Di quell'ineffabile incontro, suor Maria del Sacro Cuore narrò il seguente episodio: "Eravamo sedute tutte e quattro sulla gradinata, vicino all'infermeria. Il cielo era azzurro e senza nubi. Improvvisamente il tempo è scomparso per noi: la nostra infanzia, i 'Buissonnets', tutto ci è sembrato un istante. Vedevo Leonia religiosa, accanto a noi! E il passato e il presente si confondevano in un momento unico: il passato mi pareva un baleno; avevo l'impressione di vivere già in un eterno presente, e ho compreso l'eternità, che è tutta intera in un solo istante". 
Era l'anima della famiglia che si raccoglieva per assaporare in silenzio la dolcezza di appartenere completamente a Dio. Le figlie riunite cantavano la gloria di Dio e la lode dei genitori che le avevano educate alla scuola della santità. Chiunque avesse penetrato il segreto di questa scena intima, per quanto imbevuto di modernismo, avrebbe ripetuto spontaneamente il grido di stupore dei pagani davanti alla Chiesa primitiva: «Guardate come si amano!». È la lezione che lascia al mondo come testamento questa famiglia ideale: l'arte suprema di trovare la felicità in un amore senza egoismo e tutto impregnato di carità».


NOTE
(i riferimenti ai Manoscritti della Santa sono indicati in relazione alle sue Opere complete, Libreria Editrice Vaticana, Edizioni OCD, Roma, 1997)

[1] La famille Martin. Une famille moderne (Traduzione dall'originale francese),  sito del Santuario di Alençon
[1] Ms C, 8v°.
[2] Ms C. 9v°.
[3] Ms C. 9r°.
[4] Ms C, 22r°.
[5]UC/QG, 21-26 maggio, p. 978.
[6] Ms A, 41r°.
[7] Storia di un'Anima, cap. III. p. 67, nota 1.

* Padre Stefano Giuseppe Piat, Storia di una famiglia. Una scuola di santità, Edizioni OCD, 2004, pp.411-418.


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