sabato 12 agosto 2023

Sguardo cristiano su notizie di attualità

"SANTO SUBITO"

Il politically correct della morte




Difficile che la morte di personaggi "famosi" ci "scansi". Non per la fama (più o meno grande) della persona in questione, a cui potremmo certamente anche essere legati da questioni private, pubbliche, artistiche, o alla quale, certamente e come per tanti di noi avviene, potremmo pure non essere legati affatto. Ma è cosa poco fattibile, il rimanerne al di fuori, semplicemente per il complesso e movimentato processo mediatico che essa mette in atto, una vera e propria macchina da spettacolo che, volente o nolente, alla fine ci coinvolge tutti, tanto da spettatori attivi quanto passivi.
La morte di Michela Murgia non fa eccezione, e, parlando in prima persona, alla massa di informazioni lette sui giornali e sui social, si aggiungono i vari messaggi in cui vengono condivisi articoli e altri contenuti, legati non solo al mondo della cronaca squisitamente "laica" (e magari anche politicizzata), ma pure a quella connessa a un mondo più "ecclesiale", come i quotidiani Avvenire e Osservatore Romano.
Un bombardamento mediatico, in cui si sovrappongono citazioni estrapolate dai libri della scrittrice e attivista, dalle ultime interviste, ma anche commenti che hanno il sapore, a volte, di veri e propri panegirici incensatori o di muri del pianto davanti ai quali innalzare una richiesta tardiva di perdono per atteggiamenti, condanne, sentenze pregresse.
Tutte questioni che ci pongono davanti a un problema di tipo esistenziale (il giudizio sulla persona è cosa facile o complessa? Cosa identifica veramente l'essere umano con determinate posizioni, istituzioni, credi religiosi? Come si dialoga davvero con chi la pensa diversamente da noi?), e con risvolti certamente anche spirituali, tanto più se la persona in questione si definiva cattolica, ma di un cattolicesimo "fuori dalle righe".
Come credenti, allora, l'evento naturale della morte di un personaggio pubblico (anche e soprattutto quando accaduto in circostanze drammatiche come una improvvisa e prematura malattia) pone certamente degli interrogativi, e fra questi alcuni strettamente di fondo, propedeutici a tutti gli altri: domande sulla facilità con cui spesso, noi esseri umani, passiamo dal condannare all'assolvere (o viceversa), solitamente nemmeno in punto di morte, ma subito dopo; quesiti sulla nostra "incredibile" capacità di risolvere conflitti ben più grandi di noi (ideologici, teologici, politici) apparentemente (e magari momentaneamente) solo in un post-mortem in cui è facile elargire commiserazioni, plausi, riconoscimenti, senza che l'altro interlocutore abbia la facoltà di prendere parola.
Non è una questione futile, a ben pensarci. Si rischia di ridurre tutto quello che ruota attorno alla morte (e ciò accade sempre più di frequente) a un banale sentimentalismo, all'onda del momento, al buonismo dell'istante dinanzi al dolore per la scomparsa di qualcuno, alla "ingiustizia" della dipartita di una persona giovane, alla svendita delle proprie posizioni (fino a poco prima strenuamente difese) per una sorta di politically correct che ci permette di rimanere nel circo mediatico, di fare di tutta un'erba un fascio, di raccogliere consensi, di presentare il volto di una politica inclusiva, di un mondo di letterati colti, di una religione della misericordia che cancella i dogmi, le regole, le caselle in cui ordinare il proprio credere.
Riflettere su tali argomenti non significa, semplicemente, optare per il condannare o l'assolvere. Sarebbe fin troppo facile risolvere il tutto come un problema di bianco e di nero. Il problema è però quello di una onestà intellettuale che non è negoziabile e rinnegabile dinanzi al pietismo momentaneo, perché altrimenti si incappa nell'anarchia del "santo subito", con canonizzazioni socio-politico-religiose a cui tutti, sempre più di frequente, assistiamo.
Bisognerebbe, forse, in un certi momenti, imparare a tacere, e, dinanzi al mistero della morte, specialmente quella di personalità ricche di sfumature, ma anche controverse (e al netto di tutto il buono/cattivo, giusto/sbagliato che ogni essere umano accumula insieme come bagaglio di vita) ricordarsi che una preghiera silenziosa e la sospensione del giudizio canonizzatorio rimangono la migliore risposta a ciò che, appunto, rimane per noi, dell'aldiqua, un arcano. Mentre sono certezze le Verità in cui crediamo, i valori non commerciabili, e la ragione con cui possiamo applicarli nella vita di ogni giorno, rimanendo fedeli a essi, pur nell'apertura al dialogo con chi la pensa diversamente da noi. Perché la coerenza a ciò che professiamo, in fin dei conti, è ciò che ci rende veramente affidabili e degni di fede, capaci di dare una testimonianza verace, che non si inchina dinanzi alle mode del momento.

domenica 4 giugno 2023

Pensieri per lo spirito

TRINITÀ, DIO RICCO DI AMORE
«L'amore determina il futuro» (Karol Wojtyla)



La Trinità nell'Horae ad usum Parisiensem (Latin 1176, fol. 186r.), 
Parigi, Bibliothèque Nationale de France
Fonte: gallica.bnf.fr

Il Signore passò davanti a lui, 
proclamando: 
«Il Signore, il Signore, 
Dio misericordioso e pietoso, 
lento all’ira 
e ricco di amore e di fedeltà»
(Es 34,6-7).




È aggettivo di sovrabbondanza il termine "ricco": parola del superfluo, vocabolo dalle sfumature di sicurezza e dalle prospettive di tranquillità a lungo termine.
Così lo intravediamo già nella parabola lucana del ricco stolto (Lc 12,13-21), racconto che, tuttavia, non ha un lieto fine, perché la ricchezza accumulata dal protagonista non procura a quell'anima mia invocata nell'incipit la beatitudine tanto sperata. 
Eppure tale rimane – anche nell'immaginario collettivo – l'idea della ricchezza: un lasciapassare per il futuro, un salvagente per gli imprevisti, una garanzia per la propria pace.
Possedere molti beni diventa forse un antidoto alla paura dell'ignoto: arpionarsi alla ricchezza è quasi scongiurare il pericolo della malattia, della morte, l'avanzare della vecchiaia, l'inevitabilità del consumarsi dell'esistenza. Avere molti beni offre la possibilità di godersi la vita, di arraffare compulsivamente una felicità che, in fin dei conti, ci sembra sempre sfuggente, perché la sappiamo destinata a incontrare un termine ultimo. Almeno nei connotati spazio-temporali del nostro vivere terreno.
Aver accumulato e poter disporre di questo accumulo negli anni a venire sembra allora il palliativo a ogni mancanza d'altro: perché i soldi possono anche anestetizzare l'assenza di affetti.
Ma che la ricchezza materiale non sia davvero il preludio della felicità lo sottolinea sempre la Scrittura, quando Gesù sentenzia senza mezzi termini che «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Mt 19,24).
La conclusione stessa della parabola del ricco stolto ne è segno eloquente: «"Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?". Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,20-21).
La ricchezza è, allora, un'arma a doppio taglio:
 porta spesso all'eccesso, al vizio, al godimento sì, ma senza limiti, senza paletti etici e morali (in una parola: il consumo delle cose porta alla consumazione di se stessi); oppure, quando anche non si raggiungano questi estremi, conduce a delle false sicurezze, a un vivere mascherato di eternità, a una realtà virtuale in cui fingere che non esistano lo scorrere del tempo, la morte, il passaggio da questa a un'altra vita.
Non è, allora, la ricchezza in sé il punto (anzi, Gesù stesso dice che bisogna arricchirsi presso Dio), ma proprio la vita stessa.
Quale vita vogliamo vivere? Quale consapevolezza abbiamo di questa esistenza? Siamo certi che il godimento dell'oggi sia solo un preludio a quello del futuro senza fine? Sappiamo che ogni ricchezza di questa terra è un rimando a un'altra ricchezza più solida, più verace, realmente eterna?
La ricchezza può dunque diventare un simbolo, e lo è nella misura in cui ciò di cui per primo vogliamo arricchirci è l'amore. Non come possesso, ma come capacità incondizionata di donarci agli altri, in un impegno che abbia il sapore della stabilità. In quest'ottica ogni ricchezza materiale non diventa egoistica soddisfazione di bisogni personali, corsa contro il passare degli anni, isolamento nel proprio benessere, ma acquista le sfumature della condivisione, della carità, della cura dell'altro e di se stessi nell'autocoscienza di un compito di amore ricevuto da Dio.
E in questo senso anche il nostro stesso Dio è ricco. Ricco di amore e di fedeltà, come lo descrive il libro dell'Esodo nel brano della prima lettura di questa domenica dedicata alla Santa Trinità.
La vera felicità trinitaria sta tutta qui: in questa ricchezza di amore e di fedeltà, in questa relazione che fa del divino il perennemente innamorato, il perennemente donato, il perennemente fedele. Il perennemente gioioso.
Questa idea di ricchezza rovescia le nostre convinzioni su ciò che ci rende ricchi, e ci riporta all'esperienza che forse tutti noi abbiamo provato, almeno una volta nella vita. Alla felicità che pervade l'animo umano nel momento in cui si è innamorati, al senso di mistero e di eternità che l'amore scava nel cuore umano. Al desiderio di riversarsi per sempre in un altro e di sentire per sempre l'altro in sé. Tutte sensazioni (e realtà) che vanno di pari passo con l'amore.
«L'uomo ha a disposizione una esistenza e un amore» – scriveva Karol Wojtyla nella sua opera teatrale La bottega dell'orefice – «come farne un insieme che abbia senso? La gente si lascia trascinare dall'amore come se fosse un assoluto, anche se mancano le misure dell'assoluto. La gente segue la propria illusione, senza cercare d'innestare questo amore nell'Amore che ha una tale misura. Non hanno neanche il sospetto di questa necessità perché sono accecati non tanto dalla forza del sentimento quanto dalla mancanza d'umiltà. 
È una mancanza d'umiltà verso quella che dovrebbe essere l'amore nella sua vera essenza. Questo pericolo diminuisce se ne siamo coscienti. In caso contrario – il pericolo è incombente; l'amore cede sotto il peso della realtà quotidiana» [1]. 
Innestarsi in Dio, "entrare" nella Trinità, innestare il proprio amore umano nel suo amore. Ecco il segreto, perché «Dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).
La prima ricchezza dell'uomo deve essere Dio, il suo stesso amore. Solo così ogni amore umano potrà essere vero, resistente agli urti del tempo e perdurare per sempre. Proprio come l'amore di Cristo, che nella sua esperienza terrena ha amato di un amore resistente al fardello di ogni prova, anche al pesante legno della Croce.
«Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano». (Mt 6,19-20)
Perché solo «l'amore determina il futuro» [2].



NOTE

[1] Karol Wojtyla, La bottega dell'orefice, Libreria Editrice Vaticana, 1978 (ristampa 2015), pp. 81-82.
[2] Ibidem, p. 28.

domenica 7 maggio 2023

Sguardo cristiano su notizie di attualità

DI UOMINI, DONNE E COMPLICITÀ
Vera mascolinità e femminilità a partire dalla Scrittura










 


C’è qualcosa di negativo fra i vari significati della parola “complice”.
Qualcosa di così pesante che il termine ci appare spesso solo nella sua accezione oscura, facendoci pensare immediatamente a un’azione cattiva come un reato, un delitto, un furto; tutte cose in cui si opera il male perché due persone si alleano assieme per compierlo, in diversa misura. Siamo abituati, insomma, più a una complicità di cattiveria che a una di buoni propositi.
Forse, nella nostra innata tendenza all’egoismo e al disordine interiore, abbiamo dimenticato che l’essere complici ha anche un altro, e ben diverso, ventaglio di sfaccettature, comprensibili ritornando all’origine della parola, alla sua etimologia. Quella di un vocabolo che deriva dal lat. tardo complex -plĭcis, composto di con- e della radice *plek- presente in plectĕre-allacciare e anche in plicare-piegare 
Piegato, allacciato insieme, dunque. Non c’è, nella natura linguistica della complicità, l’ombra del male. Il termine è completamente svestito di connotazioni etiche, morali, legali. A noi la scelta di riempire questa neutralità di bontà o di malvagità, di giustizia o di ingiustizia, di correttezza o di scorrettezza.
Che tutto dipenda dalla nostra libertà è la Scrittura stessa a rammentarlo, squadernandoci davanti agli occhi queste due possibilità come facce di una stessa medaglia.
Nella Genesi Dio crea l’uomo e la donna, in una ricchezza semantica che solo l’ebraico biblico disvela (diversamente dalla nostra traduzione italiana), laddove  ish è l’uomo e ishàh la donna tratta dalla sua costola, con somiglianze ad altre parole quali ishiut-individualità, e ishut-matrimonio-unione. Un complesso di rimandi che completa l’idea della donna compagna che sta di fronte all’uomo come aiuto (secondo la traduzione letterale del testo originario).
L’idea dello stare “di fronte” fa pensare certamente a uno specchio, in cui, in un certo senso, l’altro possa riflettersi per vedere e costruire meglio la propria identità, la propria pienezza. Piegandosi assieme “con”, allora, si ritorna “al centro”, a quella completezza di corpo e di spirito voluta dal Creatore (i due che tornano a essere un’unica carne), ma questo è, più in profondità, il piegarsi verso Qualcuno che sta “in mezzo” a questa unità, se è vero che l’uomo è inizialmente creato a immagine e somiglianza di Dio. 
La vera complicità è allora in sé (rimanendo su un piano strettamente scritturistico) intrinsecamente positiva, orientata a un bene superiore: il piegarsi verso l’altro per raggiungere insieme l’Altro per eccellenza.
Il problema scaturisce quando (e la Bibbia lo dimostra subito dopo) il confronto speculare si spezza, e ci si piega verso altro che non è né l’altro né Dio. La tentazione di Eva immette un “quarto elemento” in questa relazione, cui consegue quanto già noto sul peccato originale e la cacciata dall’Eden.
Il problema è che il “quarto elemento”, in diversa misura, permea quotidianamente il nostro mondo di relazioni uomo-donna, e ne sentiamo echi diversi, spesso sottilmente rintracciabili anche nelle idee fuorvianti sull’idea di eros, mascolinità e femminilità.
Dimenticando le cose principali ci si ferma su quelle accessorie, e diventano preponderanti le questioni sui ruoli “istituzionali” all’interno della coppia, quelle linguistiche sulle desinenze di professioni e competenze, quelle ideologiche sulla libertà di sperimentare “nella mente”. I gossip di quest'ultima settimana hanno prodotto materiale abbondante su questi versanti della questione.
Il punto è che il femminismo sembra tradursi in una rivalsa strampalata di antiquariato della nonna, in elucubrazioni grammaticali trite e ritrite, o in una sorta di futurismo déjà vu che fa cassa (perché l’immagine aumenta le vendite!).
Sono lotte pseudosindacali che lasciano il tempo che trovano, ma che danno adito a teatrini (radiofonici, televisivi e giornalistici) rasentanti il ridicolo in quanto fluttuanti fra le questioni ormai alla moda della fluidità di genere, dell'emancipazione (in quale senso?) femminile, della parità uomo-donna (che però sembra essere poi contraddetta), e dunque non in grado di affrontare l'argomento dal punto di vista che conta, antropologicamente prima ancora che spiritualmente: quello della vera diversità fra uomo e donna che serve a costruire la vera identità maschile e femminile. E, per dirla poi su un piano cristiano, quella che serve a rendere la donna più donna nel rapporto con l’uomo e l’uomo più uomo nel rapporto con la donna, come papa Francesco sottolineava nel 2018: « Questo è l’amore. E qual è il compito, dell’uomo nell’amore? Rendere più donna la moglie, o la fidanzata. E qual è il compito della donna nel matrimonio? Rendere più uomo il marito, o il fidanzato. È un lavoro a due, che crescono insieme; ma l’uomo non può crescere da solo, nel matrimonio, se non lo fa crescere sua moglie e la donna non può crescere nel matrimonio se non la fa crescere suo marito. E questa è l’unità, e questo vuol dire “una sola carne”: diventano “uno”, perché uno fa crescere l’altro. Questo è l’ideale dell’amore e del matrimonio» (Veglia di preghiera con i giovani italiani, 11 agosto 2018). 
Non è, allora, questione di “divisioni di compiti” o di desinenze linguistiche, né tantomeno di sperimentazioni mentali, ma di tirare fuori la vera essenza del maschile e del femminile, della grazia e della virilità, della dolcezza e della forza, con l’apporto unico che ciascuno dei due sessi può dare alla società in ogni sua struttura.
Eravamo forse più avanti 30 anni fa, col famoso spot Fiat “Buonasera” (se non lo ricordate andate a rivederlo!). Ed eravamo più avanti finanche nei secoli passati, quando san Giuseppe veniva ritratto intento a cullare Gesù, mentre Maria riposa nella lettura della Scrittura dopo le fatiche del parto, oppure tutto preso dall'asciugarne al fuoco i panni mentre la Madonna si concentra nella preghiera e nell'adorazione.
Proprio lui, quell’uomo giusto del Vangelo che di sdolcinato non aveva nulla, ma che a ben guardarlo appare così profondamente uomo da affrontare le critiche di un intero villaggio per sposare la donna che ama – una ragazza che agli occhi del mondo era incinta di un altro – e così profondamente virile e coraggioso da lasciare tutto, e più volte, per proteggere la propria famiglia. Insomma, un uomo vero accanto a una donna vera, un uomo moderno accanto a una (Ma)donna moderna; due che sono affiatati e complici nella ricerca del bene.
Perché di questo ci parla, in fondo, anche la storia della Salvezza: di uomini, donne e complicità.
Di modelli da imitare, ancora oggi, per diventare veri uomini e vere donne in un mondo che ci propone delle mere contraffazioni, imitazioni interscambiabili a basso costo, sperimentazioni del maschile e del femminile che vanno e vengono come le mode sulle passerelle... o come le notizie sui giornali.

Natività dal Libro delle Ore di Besançon (XV sec.), Ms 69 f.48r, Cambridge, Fitzwilliam Museum - Fonte: Wikipedia 

Cerchia di Antoine Le Moiturier, Natività (1450 c.), New York, Metropolitan Museum of Art Fonte: Metropolitan Museum of Art

lunedì 17 aprile 2023

Pensieri per lo spirito

L'AMORE A PORTE CHIUSE

Riflessioni sul Vangelo della Domenica in Albis (ANNO A)




© Cristina Gottardi - Unsplash

 
  «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse
le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei,
venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo:
«Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».
Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo.
A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!».
Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco,
io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa
e c'era con loro anche Tommaso.
Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».
Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!».
Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto;
beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni
che non sono stati scritti in questo libro.
Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
(Gv 20,19-31)




La sera di quel giorno, il primo della settimana, a porte chiuse.
L'incipit del brano che conclude l'Ottava di Pasqua sembra un ossimoro seminato per spiazzarci, in un crescendo di contraddizioni di buio e luce, di principio e fine, di aperture e barricamenti.
A fare da collante alle figure di quest'ossimoro è il timore, quello dei Giudei certamente, ma anche il timore del cuore di ciascun discepolo, titubante e impaurito nel camminare sul filo del credere e del non credere, dello sperare e del disperare, dell'attendere e del fuggire.
Il cuore è probabilmente il vero protagonista di questo racconto: quello dei seguaci di Cristo, che infatti non chiudono a chiave solo la porta di una casa, ma anche dei loro cuori dubbiosi; e quello di Gesù, che nel suo essere sempre Colui che ama per primo non può lasciare che queste porte rimangano sigillate per sempre.
Eppure il Maestro non viene spalancando portoni, non scardinando serrature; non arriva a divellere spranghe e sfondare battenti. No, Gesù, semplicemente, entra. A porte chiuse. Nel rispetto di quel misto di paura e braci di speranza che forse albergavano nel cuore dei suoi amici. Nel rispetto del mistero dell'uomo che impone paletti, innalza steccati, costruisce trincee per proteggersi dal troppo amore e dal troppo sperare.
Così, viene Gesù. Nello stile di un Dio senza clamori, senza rombi di tuono ed effetti speciali. In fondo questo entrare a porte chiuse, che pure tanto ci sorprende ogni volta nel rileggere il brano giovanneo, fa finanche meno rumore di un bussare gentile. È il silenzio di una presenza senza squilli di tromba, senza inutili orpelli, che non viene a scatenare paure accessorie, ma solo a portare la pace, a stare "con".
Perché l'amore, sostanzialmente, è questa semplicità assoluta dell'esserci. Senza preavvisi, senza presentazioni, senza richieste, senza pretese.
L'amore, se amore deve essere, è allora sempre un amare a porte chiuse. Superando le barriere del cuore che troppo facilmente si spaventa a ogni movimento inconsulto della vita, a ogni imprevisto, a ogni passo falso degli eventi. Superando la chiusura del cuore incerto fra il crederci davvero o l'abbandonarsi al pessimismo della sola ragione; del fidarsi totalmente dell'altro o dell'opporre resistenze umane impastate di logiche materiali e psicologiche; colmando la distanza tra il finire e il cominciare, tra l'oscurità e la luce. 
Tutti, in fin dei conti, sogniamo di essere amati davvero così: negli ossimori del nostro sentire, nelle contraddizioni del nostro stesso amare, dietro quelle porte chiuse in cui solo chi ci ama davvero può conoscerci fino in fondo. Senza parlare, senza domandare. Semplicemente rimanendo con noi. Semplicemente vincendo le nostre resistenze senza violare i nostri lucchetti, con la gentilezza di chi sa straripare nell'amore per riportarci a galla. E mai per sommergerci. 

domenica 9 aprile 2023

Pensieri per lo spirito

 IL BUIO E LA LUCE

Riflessioni sulla Domenica di Pasqua (anno A)





Caspar David Friedrich, Il mattino di Pasqua (1828 – 1835),
Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid
Fonte: Museo Nacional Thyssen-Bornemisza

 
  «Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino,
quando era ancora buio
». (Gv 20,1)




La Pasqua di Resurrezione si apre fra il buio e la luce, fra il tramonto delle stelle e l’alba del sole. Come ogni risurrezione, anche quella di Gesù sorprende Maria nelle tenebre dei suoi abissi, dei suoi sconforti, del suo pianto.
E non può che avvenire così, per farci passare dalla morte (l’oscurità per eccellenza) alla vita (la luce per antonomasia). Come in una fotografia, in un dipinto del Caravaggio o di De Chirico, la luce risalta perché le ombre la fanno emergere, perché nel contrasto fra il bianco e il nero, fra l’eterea inconsistenza della luminosità e la materica pesantezza del buio si staglia l’affascinante presenza di ciò che in realtà materia non è, ma che pure tanto bene ci fa alla vista, al cuore, ai sensi tutti. La luce è bellezza, la luce è gioia, la luce è respiro vitale. Ma se tutto fosse luce, nella nostra vita e nella storia del mondo, finiremmo forse con l’esserne abbagliati. Non siamo pronti, su questa terra, alla sola e semplice luce.
Vedere Dio faccia a faccia nella sua essenza pura non è sostenibile per il nostro sguardo e, paradossalmente, a volte riusciamo a incontrarlo solo “per contrasto”: dopo il nostro peccato, dopo la caduta del fratello, in mezzo al male del mondo in cui ancora qualcuno riesce a operare solo per il bene.
Il chiaroscuro, nella sua interezza, ci mostra le mille sfaccettature della realtà e dell’animo umano, di noi stessi, persi sempre in un gioco di equilibri interiori fra la speranza e la disperazione, tra la felicità e la tristezza, fra la santità e il peccato. Il contrasto ci rende capaci di vedere la deformità del male e la prorompente silenziosità umile del bene; la contrapposizione di ombra e di luce ci rende capaci di valutare la necessità di risalire dai nostri abissi per ritrovarci nella trasparenza che ci scalda, ci purifica, ci abbellisce. Dopo aver visto il contrasto, allora, possiamo scegliere di fare della nostra esistenza un mattino di risurrezione, in cui il sole già si innalza nel cielo e la sua luce ricopre la terra: sfumature di chiarore e vaporizzazione di tenebra si fondono assieme (come nel quadro di Friedrich), e la contrapposizione non è più netta, come in pieno giorno o lungo la notte, ma tutto si fa armonia, in un passaggio tonale che preannuncia rinascita.
Credere nella Risurrezione, allora, è proprio questo: ritrovare, nel quadro della storia umana, una bellissima pagina di luce scritta in un libro fatto di buio, quel buio da cui il Cristo – la luce vera del mondo – è venuto a tirarci fuori.

Buona Pasqua di luce!