LA VITA E LA PAROLA
A colloquio con Dio per parlare con i fratelli
Jean Baptiste Vicar, Cristo risuscita il figlio della vedova di Nain (XIX sec.), Roma, Accademia di San Luca
In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain,
e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.
Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto,
unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.
Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse:
«Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono.
Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!».
Il morto si mise seduto e cominciò a parlare.
Ed egli lo restituì a sua madre.
Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo:
«Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo».
Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.
(Lc 7,11-17)
È curioso il modo in cui prende forma questo
straordinario miracolo di Gesù. Curioso perché la prima cosa che accade dopo
che il giovane viene riportato alla vita non è un pianto di gioia, un grido di
liberazione o stupore, un abbraccio fra madre e figlio. No, la prima cosa che
accade è che il ragazzo “rinato” si mette a parlare. Luca non ci tiene a
riportare le sue parole, il dato rimane però importante così come l’Evangelista
ce lo presenta, nella sua asciuttezza e concretezza: colui che ritorna alla
vita ritorna alla parola; colui che è stato richiamato dalla Parola risponde
con la parola. Ecco che allora quel senso di stranezza che forse di primo
acchito si prova nel meditare su questo brano, svanisce. Sì, perché la vita e
la parola sono strettamente collegate: è attraverso la parola che la vita si
esprime. La parola, si potrebbe dire, è un dono per tutti, un’arte concessa a ogni essere vivente. Il
bambino piccolo, pur non riuscendo ad articolare ancora vocaboli e frasi,
emette suoni a volte così allusivi che spesso si dice che “Gli manca solo la
parola” o che “Sembra che parli”. E crescendo, e finalmente impossessandosi
totalmente del grande dono della parola, l’uomo riesce ad esprimere attraverso
di essa tutta la gamma dei propri sentimenti, dall’amore… all’odio. La parola
può trasmettere affetto, comprensione, solidarietà, vicinanza, amicizia, amore,
passione, così come pure invidia, gelosia, sarcasmo, disprezzo, odio. La parola
umana può far vivere, rinascere, morire. Lo dice bene il libro del Siracide,
quando sentenzia che «La spada uccide tante persone, / ma ne uccide più la lingua
che la spada» (Sir 28,18). Non è da meno il Nuovo Testamento, in cui è
soprattutto san Giacomo a invitare i credenti a tenere a freno la lingua, per
non rendere vana la propria fede (Gc 1,26), perché la lingua «è piena di un
veleno mortale» (Gc 3,8).
"Riletto" da questa prospettiva, il silenzio di Luca sulle parole precise pronunciate
dal giovane di Nain diventa un interrogativo per ciascuno di noi: come
rispondiamo – giorno per giorno – a quella Parola (il Verbo di Dio, per usare
la terminologia del prologo giovanneo) che già fin dal principio era presso il
Padre, attraverso la quale tutte le cose sono state create e vivono, e, dunque,
grazie alla quale anche noi siamo stati chiamati all’esistenza?
La nostra parola esprime lode, ringraziamento, amore
totale per quella Parola che ci ha gratuitamente chiamati alla vita e ci ha rivelato il volto misericordioso del Padre?
Da questo rapporto tra vita e Vita, tra la nostra
parola e Lui che è Parola, dipende la nostra relazione con gli altri. Infatti, soltanto
dopo l’alternanza di Parola di Gesù e parola del ragazzo, quest’ultimo viene
restituito a sua madre.
Non ci può essere vera parola ai fratelli se non c’è
prima vera parola con Dio, perché è esclusivamente nel colloquio con Lui e nell’ascolto
della sua Parola, che possiamo imparare ad amare. E se sapremo amare veramente
sapremo suscitare anche noi negli altri, con la nostra testimonianza, parole di
lode e di ringraziamento per le grandi cose che Dio, ogni giorno, compie in noi
e nelle nostre vite.
Jean Baptiste Vicar, Cristo risuscita il figlio della vedova di Nain (XIX sec.), Roma, Accademia di San Luca
In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain,
e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.
Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto,
unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.
Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse:
«Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono.
Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!».
Il morto si mise seduto e cominciò a parlare.
Ed egli lo restituì a sua madre.
Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo:
«Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo».
Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.
(Lc 7,11-17)
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È curioso il modo in cui prende forma questo
straordinario miracolo di Gesù. Curioso perché la prima cosa che accade dopo
che il giovane viene riportato alla vita non è un pianto di gioia, un grido di
liberazione o stupore, un abbraccio fra madre e figlio. No, la prima cosa che
accade è che il ragazzo “rinato” si mette a parlare. Luca non ci tiene a
riportare le sue parole, il dato rimane però importante così come l’Evangelista
ce lo presenta, nella sua asciuttezza e concretezza: colui che ritorna alla
vita ritorna alla parola; colui che è stato richiamato dalla Parola risponde
con la parola. Ecco che allora quel senso di stranezza che forse di primo
acchito si prova nel meditare su questo brano, svanisce. Sì, perché la vita e
la parola sono strettamente collegate: è attraverso la parola che la vita si
esprime. La parola, si potrebbe dire, è un dono per tutti, un’arte concessa a ogni essere vivente. Il
bambino piccolo, pur non riuscendo ad articolare ancora vocaboli e frasi,
emette suoni a volte così allusivi che spesso si dice che “Gli manca solo la
parola” o che “Sembra che parli”. E crescendo, e finalmente impossessandosi
totalmente del grande dono della parola, l’uomo riesce ad esprimere attraverso
di essa tutta la gamma dei propri sentimenti, dall’amore… all’odio. La parola
può trasmettere affetto, comprensione, solidarietà, vicinanza, amicizia, amore,
passione, così come pure invidia, gelosia, sarcasmo, disprezzo, odio. La parola
umana può far vivere, rinascere, morire. Lo dice bene il libro del Siracide,
quando sentenzia che «La spada uccide tante persone, / ma ne uccide più la lingua
che la spada» (Sir 28,18). Non è da meno il Nuovo Testamento, in cui è
soprattutto san Giacomo a invitare i credenti a tenere a freno la lingua, per
non rendere vana la propria fede (Gc 1,26), perché la lingua «è piena di un
veleno mortale» (Gc 3,8).
"Riletto" da questa prospettiva, il silenzio di Luca sulle parole precise pronunciate
dal giovane di Nain diventa un interrogativo per ciascuno di noi: come
rispondiamo – giorno per giorno – a quella Parola (il Verbo di Dio, per usare
la terminologia del prologo giovanneo) che già fin dal principio era presso il
Padre, attraverso la quale tutte le cose sono state create e vivono, e, dunque,
grazie alla quale anche noi siamo stati chiamati all’esistenza?
La nostra parola esprime lode, ringraziamento, amore
totale per quella Parola che ci ha gratuitamente chiamati alla vita e ci ha rivelato il volto misericordioso del Padre?
Da questo rapporto tra vita e Vita, tra la nostra
parola e Lui che è Parola, dipende la nostra relazione con gli altri. Infatti, soltanto
dopo l’alternanza di Parola di Gesù e parola del ragazzo, quest’ultimo viene
restituito a sua madre.
Non ci può essere vera parola ai fratelli se non c’è
prima vera parola con Dio, perché è esclusivamente nel colloquio con Lui e nell’ascolto
della sua Parola, che possiamo imparare ad amare. E se sapremo amare veramente
sapremo suscitare anche noi negli altri, con la nostra testimonianza, parole di
lode e di ringraziamento per le grandi cose che Dio, ogni giorno, compie in noi
e nelle nostre vite.
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