lunedì 26 settembre 2016

Spiritualità per il Giubileo


 IL SACRIFICIO PIÙ GRANDE
La misericordia nell'ottica "sacrificale"

Tintoretto, Crocifissione (1565)
Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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Le parole misericordia e sacrificio sembrano essere poste in antitesi da Gesù, quando nel Vangelo di Matteo sentenzia: «Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,13). L'espressione, in realtà, ritorna, con qualche variante, anche nel capitolo 12: «Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa. Perché il Figlio dell'uomo è signore del sabato» (Mt 12,7-8). In tutti e due i casi, Gesù si rivolge ai farisei, rispondendo alle loro accuse. Nel capitolo 9, infatti, Cristo viene messo in discussione per aver condiviso la mensa con i peccatori (si trova  a casa di Matteo, che offre un banchetto dopo aver accolto la chiamata di Gesù); tre capitoli dopo, invece, l'accusa riguarda l'atto del nutrirsi di spighe, in giorno di sabato (Gesù era con i discepoli in un campo di grano). Inquadrare entrambe le scene e individuarne "gli attori" e i contesti permette di comprendere meglio il messaggio sotteso al modo di esprimersi di Gesù, e all'apparente antitesi tra misericordia e sacrificio.

Dio e la persona al centro

Con il proprio atteggiamento, Gesù sta ribaltando la visione "umana" dell'Antica Legge, la comprensione che i farisei stessi ne avevano. L'agire di Cristo diventa il meccanismo che innesca la miccia del "perbenismo" farisaico, il pretesto per accusare il Maestro. E il Maestro fa dell'accusa il pretesto per passare all'insegnamento. Invita infatti i suoi detrattori a rimanere sulla Scrittura, ma rileggendola attentamente («Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame?» dirà in Mt 12,3), mettendo al centro del problema non il formalismo, ma la persona. Il problema non sta - ovviamente - nella Scrittura, ma nel modo in cui essa è stata interpretata (e di conseguenza applicata).
Naturalmente, in questo modo di ragionare Gesù pone anche e principalmente Dio al centro, e per essere ancora più pregnante, più eloquente, lo fa nella persona del Figlio - cioè di se stesso, Verbo Incarnato - : «qui vi è uno più grande del tempio» (Mt 12,6) e «Perché il Figlio dell'uomo è signore del sabato» (Mt 12,8). In tal modo non c'è più dicotomia tra l'agire verso Dio e l'agire verso l'uomo, ma pieno rispetto della volontà divina, del disegno originario di Dio, presente nelle pagine della Scrittura.

I peccatori e la colpa

Nei due passi citati Gesù muove, sostanzialmente, una controaccusa verso i farisei: sono essi che si macchiano della responsabilità di condannare persone innocenti; sono essi che non hanno veramente a cuore i peccatori. Gesù dimostrerà con la sua stessa vita di pagare il prezzo dell'ipocrisia dei farisei e di quelli come loro, e dimostrerà anche di essere il modello dell'anti-fariseo: fattosi peccato in favore dell'uomo, Egli diventerà il "peccatore" condannato in vece di tutti i peccatori, e pagando il prezzo della propria vita, riuscirà a riscattare l'umanità. Ma la donazione di Gesù sulla Croce, allora, è un atto di misericordia o di sacrificio?

Ci fa santi la misericordia o il sacrificio?

Don Divo Barsotti scriveva - nel suo libro La mia giornata con Cristo -: «Essere santi non vuol dire moltiplicare le preghiere, fare tanti atti di mortificazione: vuol dire compiere il nostro dovere fino in fondo, per rispondere alla divina volontà con tutto l'essere nostro, nella dedizione totale di tutta la vita» [1]. È quello che ha fatto Gesù, che nella teologia paolina viene definito quale Figlio obbediente, che imparò l'obbedienza dalle cose che patì, e che nella perfezione di risorto (uomo glorificato, Santo dei Santi risorto dai morti), è divenuto «causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 8). Anche qui, allora, il problema di fondo, oggi come ieri, non sta tanto nelle parole, ma nel modo in cui le si interpreta: Gesù invita i suoi a essere attenti e fedeli alla volontà di Dio, alla Parola che è Cristo stesso. E questa parola è un monito a essere persone misericordiose, in una nuova concezione del sacrificio. 

Sacrificati, sacrificanti o misericordiosi?

C'è differenza tra il fare un sacrificio e l'essere persone "sacrificate", o, peggio ancora, tra il fare  un sacrificio e l'essere gente "sacrificante".
Il sacrificante può essere colui che sacrifica un altro, ma non se stesso. È proprio questa la mentalità (e l'atteggiamento) che Gesù denuncia nei confronti di scribi e farisei, i quali «legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4).
Il "sacrificato", al contrario, è colui che a furia di privazioni e sacrifici ha perso la capacità di testimoniare con spirito di letizia ciò in cui dice di credere; oppure è chi fa sacrifici solo in termini di "dovere" (ma senza vera motivazione, senza amore) o, ancora, quella persona che non riesce ad accogliere l'annuncio del Vangelo come fonte di gioia. Pensiamo alla figura di Giona, il profeta chiamato a proclamare agli abitanti di Ninive un tempo accordato da Dio per convertirsi, ed evitare la distruzione della loro città. Giona vive la sua missione di evangelizzatore come un "sacrificato", indispettito verso Dio perché "non è giusto" quel che Egli vuole fare, triste fino all'indignazione perché la salvezza dovrebbe spettare solo ai giusti (inclusa la sua pianta di ricino!). Ma Gesù afferma di essere venuto «per i peccatori» e non per i giusti che sono già sulla buona strada. I giusti lo seguiranno, perché lo riconosceranno. Ai peccatori Egli deve presentarsi, farsi conoscere, farsi amare amando, per farsi seguire. 
Ecco il capovolgimento: Gesù non è un sacerdote dell'Antica Alleanza che sacrifica animali per riconciliarsi con Dio; Gesù non è un sacerdote che impone agli altri fardelli pesanti senza averli portati anche lui; Gesù non è un sacerdote triste, un musone, nonostante nasca come uomo per andare incontro alla morte e - per di più - affronti in piena consapevolezza questa grande "prova".

La misericordia è gioia!

Gesù vive il "sacrificio" della propria vita - cioè il sacrificare = fare sacra la propria esistenza - come un atto di amore, di misericordia e quindi di gioia: la misericordia che culmina tangibilmente nel suo atto redentivo sulla Croce è qualcosa che inizia già con la sua venuta al mondo come creatura umana. Gesù accetta l'Incarnazione per amore, un amore che viene dal cuore di un Dio che si china sulla miseria umana (misericordia: - misereor - cor, cordis) per dare sollievo, "soluzione" a questa povertà, a questa debolezza, a questa indigenza.
Il movente - l'amore - permette a Gesù di essere gioioso (e di affidarsi al volere di Dio anche nel momento in cui la sofferenza gli si prospetta in tutta la sua crudezza), perché Egli non sta facendo qualcosa per "dovere", ma nella logica della gratuità, della generosità, della solidarietà con gli uomini. Il tema del banchetto, che tante volte ritorna nelle sue parabole, è un tema "vissuto" nella convivialità con amici, parenti, ma anche con i peccatori convertiti. Gesù non disdegna le gioie della vita, perché l'amore è gioia.
Vissuta nella stessa ottica, anche per il discepolo di Cristo la misericordia diventa ben più di un "sacrificio", ma anzi, acquista un vero valore sacrificale. Una misericordia secondo il disegno di Dio è qualcosa di più un semplice "sacrificio materiale" (privarsi di beni, mettere a tacere una brutta parola e via dicendo...). Comprende anche questo aspetto di sofferenza, di strappo, di trascendenza verso l'altro che esso richiede, ma è un'azione gradita a Dio, è un'azione che viene resa sacra, "consacrata" a Dio soltanto dall'amore consapevole e libero con cui la si attua. L'uomo consegna il proprio agire misericordioso al Signore, lo unisce al sacrificio di Cristo, per collaborare - oggi - al suo disegno di redenzione.  
Riconoscendo di essere stato amato per primo da Dio (cfr. 1 Gv 4,19), l'uomo non vive più la misericordia come un peso, ma come il giogo di Cristo: un giogo dolce, perché fatto essenzialmente d'amore (cfr. Mt 11,30), attraverso cui manifestare anche agli altri il Volto misericordioso di Cristo.


NOTE

[1] Divo Barsotti, La mia giornata con Cristo, San Paolo, 2007, p. 44.