giovedì 22 ottobre 2015

IL «PARADOSSO» DELLA PAROLA

La Parola di verità divide o unisce?
Riflessioni sul Vangelo


La Parola di Dio non usa le mezze misure, non ama i mezzi termini: proclama per intero la Verità. Per l'uomo diventa dunque "duro", a volte, confrontarsi con Gesù, specialmente quando Egli ricorre a paradossi pedagogici, che minano le sicurezze dell'essere umano e la sua idea di tranquillità. Proprio come accade nel Vangelo di Luca, quando il Maestro afferma di essere venuto a portare la «divisione» e non la pace. 
La Parola, allora, è Verità che unisce, divide, o completa? 




«Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D'ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera». (Lc 12, 51-53)

«La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; 
essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, fino alle giunture 
e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore»
 (Eb 4,12)

«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; 
conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» 
(Gv 8,3)

«Dio dice che bisogna amare il nostro nemico. È difficile, però... 
Ma si può cominciare dicendo la verità. 
 Nessuno mi aveva mai chiesto cosa provavo a essere me stessa. 
Quando ho detto la verità... Mi sono sentita libera» 
(dal film The Help)



IL PARADOSSO : DALLA PAROLA ALLA VERITÀ

Dinanzi al brano di Lc 12, 51-53, la reazione degli uditori è spesso di stupore e (probabilmente) anche di una punta di incredulità: come può, Gesù, dire di essere venuto a portare la spada, la guerra, Lui che la Scrittura identifica come il «principe della pace» (Is 9,5) e che si manifesta e si proclama un re diverso da tutti gli altri, un re venuto «per farsi servire e non per essere servito» (Mt 20,28)?
Le pericopi lucane contengono un paradosso - elemento in cui spesso si imbatte il lettore del Vangelo - : «Affermazione, proposizione, tesi, opinione che, per il suo contenuto o per la forma in cui è espressa, appare contraria all’opinione comune o alla verosimiglianza e riesce perciò sorprendente o incredibile» [1].

Gesù è Parola «dura»

«Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (Gv 6,60), chiedono a Gesù «molti dei suoi discepoli dopo aver ascoltato» il discorso del Maestro sul "Pane della vita" (cfr. Gv 6, 22-58). Si tratta di un contesto completamente diverso da quello affrontato da Luca (e su cui vertono queste riflessioni), ma il sentimento di fondo manifestato nella domanda degli uditori in quel momento è esattamente lo stesso che coglie l'ascoltatore a confronto con le pericopi lucane. Gesù è la Parola del Padre, Gesù è la Seconda Persona di un Dio che è Amore, e, tuttavia, confrontarsi con la Parola di Dio - con il Verbo Incarnato - è un'esperienza "dura". L'uomo è costretto a sbattere contro molti muri: la propria ostinazione, la propria cecità, gli egoismi, gli arrivismi. Finanche contro i meccanismi semplici, facilitati, che egli vorrebbe attuare per vivere "bene", adagiandosi in un quietismo che è molto lontano dalla vera dimensione della fede vissuta. La "durezza" della Parola, allora, risiede nel fatto che Essa sveli all'uomo la verità su se stesso in maniera chiara, diretta, senza mezzi termini, anche con una certa "crudezza" e che sveli anche la verità su ciò che sia realmente dare inizio all'esperienza cristiana.

La verità rende liberi... ma a quale prezzo?

La Parola è "verità" in due direzioni: verticale e orizzontale
La prima direzione è quella che svela Dio all'uomo; la seconda, quella che svela l'uomo a se stesso. Conoscere Dio non serve alla creatura per rimanere ancorata a una fede "isolante". Conoscere Dio svela all'essere umano la differenza abissale tra il cuore del Creatore e quello della creatura e rivela così che la fede è una... lotta. La fede è lotta contro le barriere interiori del proprio io (l'egoismo, l'invidia, l'arroganza etc. etc.), ma anche contro quelle altrui. La Parola penetra nelle profondità dell'essere umano e lo fa apparire così come egli è veramente: capace (anche) di miserie, meschinità, brutture. Chi vuol farsi liberare dalla Verità deve lasciarsi scrutare da Essa, come se si ponesse dinanzi a uno specchio, capace di riflettere l'immagine reale di ciascun essere umano. A confronto con la Parola, se questo confronto è serio e sincero - l'uomo non può sfuggire dal riconoscere i propri difetti, le proprie mancanze, le proprie negligenze, i propri errori. Così come l'uomo, guardando la società umana attraverso lo specchio della Parola, non può fare a meno di vederne i mali e le devianze morali, etiche, religiose, psicologiche e filantropiche. Da questo nasce il problema della "divisione".

L'uomo è capace di accettare la Verità?

Le divisioni sorgono dall'incapacità di accettare ciò che la Verità rivela, all'uomo, di Dio, di se stesso e del mondo. Ecco perché si innescano meccanismi belligeranti che dividono padri e figli, suocere e nuore, madri e figli, secondo quanto asserisce Gesù nel Vangelo di Luca. Testimoniare la Verità a chi non la riconosce (e, dunque, a chi la rifiuta come specchio in cui valutarsi) implica la creazione di un'apparente muro divisorio tra chi la proclama e chi la rigetta. La Parola, quale spada che penetra nel cuore umano, per discernerne i pensieri e i sentimenti, diventa una spada che separa il fratello dal fratello, le minoranze dalle masse, i poveri dai ricchi, i deboli dai forti. Come può sentirsi libero, all'interno di questo contesto, chi accoglie la Verità?

DALLA PAURA ALLA LIBERTÀ

Solo superando la paura di vivere nella Verità e di annunciarla, l'uomo può conquistare la vera libertà del cuore. Rimanere in una dimensione di "adoratori notturni", come Nicodemo (cfr. Gv 3, 1-2) dimezza la completezza dell'essere umano perché porta a reprimere una parte dell'io, quella della relazione con Dio, relegandola a un piano puramente personale, introspettivo. La fede ha anche una dimensione "in uscita", termine spesso utilizzato anche da papa Francesco, che nella verità si spiega anche nei termini della correzione fraterna e della necessità di annunciare senza timore, come viene esplicitamente detto da Gesù, sempre nel Vangelo di Luca:
«Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo: "Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!". Alcuni farisei tra la folla gli dissero: "Maestro, rimprovera i tuoi discepoli". Ma egli rispose: "Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre" (Lc 19, 37-40)
e come si legge anche negli Atti degli Apostoli: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4.20).
La verità rende libero l'uomo perché parlare e agire secondo verità è liberare le proprie energie interiori:
  • essendo completamente se stessi, nel rapporto con Dio, vedendosi per quello che si è: creature imperfette;
  • avvicinandosi all'altro offrendogli un bene reale, vero, disinteressato;
  • amando, in sintesi, il proprio "nemico": quello che alberga nel proprio cuore (sotto forma di imperfezioni, concupiscenza, difetti, tentazioni); quello che si annida nelle ostinazioni e nelle cecità altrui, nelle piaghe etiche e morali che affliggono il mondo.
La Verità separa il bene dal male, ma apre all'uomo la prospettiva di un amore che ama  "nonostante" i limiti dell'essere umano. La divisione non è, dunque, un dis-amore, ma un amore più grande. Un amore che tende a far raggiungere a se stessi e all'altro, un bene ancora mancante, una fioritura del vero io, e, soprattutto, il vero e unico Bene.


NOTE

[1] Paradosso, Enciclopedia Treccani

domenica 18 ottobre 2015

I SANTI CONIUGI MARTIN


Un contributo attuale per la famiglia di oggi
Riflessioni intorno al Sinodo




«Scoprendo la vita di Luigi e Zelia Martin, che vissero nel XIX secolo, ci si accorge che i loro esempi ci parlano ancora oggi. Infatti, ciascuno di noi potrà ritrovarsi in taluni degli aspetti della loro vita: desiderio di consacrarsi a Dio, matrimonio tardivo, travagli per la sopravvivenza e l'avvenire dei loro bambini, Leonia bambina difficile, preoccupazioni economiche e professionali, inquietudini dovute agli alleati politici del Paese, cancro al seno per Zelia, malattia che provocò a Luigi dei gravi problemi mentali, nel corso della sua vecchiaia... La santità di Luigi e Zelia è una santità che si addice a tutti i tempi, a tutte le situazioni, a tutte le condizioni di vita» [1].
Infatti, rileggendo le pagine conclusive di un testo che narra la storia della loro famiglia, e che fu pubblicato per la prima volta nel 1944 (Storia di una famiglia, di Padre Piat), si scopre un'attualità senza pari, nel nucleo familiare dei Martin:
  • il problema "vocazionale" (il "senso" e la direzione da dare alla propria vita) coinvolge genitori e figli e si snoda sullo stesso binario della chiamata alla santità; 
  • il problema dell'unità per Luigi e Zelia (passare dall'uno al due che diventano "una sola carne") diventa il problema del sentirsi "una cosa sola" anche tra genitori e figli, e tra sorelle, una volta intervenuti fattori come la morte di Zelia, la separazione fisica per l'ingresso al Carmelo - e per Leonia alla Visitazione - delle signorine Martin e la malattia mentale di Luigi; 
  • il problema educativo dei figli (come fare di loro non un oggetto, ma creature da aiutare nel loro sviluppo!) acquista una dimensione molto moderna, in quanto ciascuna delle bambine di casa Martin è un "mondo a sé stante", che richiede cure personalizzate. Il tutto all'interno di un contesto sociale che, ieri come oggi, presentava le sue sfide.

Con una lucidità soprendentemente "in avanti" per i suoi tempi, Padre Piat traccia un quadro che non dimentica neppure la questione dell'essere "uomo e donna" nel progetto di Dio, e la necessità di continuare a ricordare che la famiglia è la cellula primaria della società. Se si smarrisce la famiglia, è la stessa società a farne le spese. Ecco perché, ancora oggi, i coniugi Martin hanno qualcosa da dire alla famiglia di oggi. Luigi e Zelia hanno saputo realizzarsi come persone, secondo il progetto di Dio, sopportando quelle difficoltà che la vita non risparmia a nessuno. Hanno messo al mondo delle figlie che non hanno visto nel "nido" domestico un nastro isolante dal mondo, ma che, al contrario, ne hanno fatto il trampolino di lancio per la realtà "fuori" dalla famiglia, ma anche al suo interno (nelle relazioni interpersonali e nella maturazione del carattere), forgiandosi in mezzo a prove dolorose, ma nella serenità di sapersi sempre abbracciate dall'affetto dei propri cari. Una delle figlie di Luigi e Zelia - Teresa Martin - è stata proclamata ormai da tempo santa (1925) e Dottore della Chiesa (1997) ed è oggi più nota come Santa Teresa di Gesù Bambino; per un'altra, Leonia Martin (la figlia che tanto fece preoccupare tutta la famiglia!) si è aperta la causa di beatificazione, il 2 luglio 2015, presso il monastero di Caen, dove consacrò la sua vita al Signore. Oggi Leonia è serva di Dio, e la si ricorda con il suo nome da religiosa: suor Francesca Teresa. 
I coniugi Martin sono la prima coppia di sposi canonizzati nella storia della Chiesa.




 I PROBLEMI ATTUALI DELLA FAMIGLIA MODERNA
L'APPORTO DELLA FAMIGLIA MARTIN ALLA LORO SOLUZIONE

Padre Stefano Giuseppe Piat*


 «Una famiglia simile non sembrerà anacronistica ai nostri contemporanei? Ci saranno di quelli che rimetteranno in circolazione il termine "prigione" applicandolo, come avevano fatto i polemisti anarchici, all'unione coniugale sigillata dal sacramento del matrimonio? Un esempio così elevato non darà le vertigini? Sta di fatto che i moderni  hanno creduto di spezzare le loro catene, sferrando l'assalto contro l'architettura divina della famiglia. La rivoluzione francese le ha dato il primo colpo di piccone istituendo il matrimonio civile, che nega praticamente il carattere religioso del patto coniugale. Strappata la costruzione dalle mani di Dio e messa in balia degli uomini, la marea furiosa della ragione è giunta ben presto a demolirla, trovando tanti argomenti speciosi. Servitù, l'unità della famiglia. Non è crudeltà ridurre a questo punto gli impulsi della sensibilità di un cuore incontenibile? Servitù, l'indissolubilità del vincolo. Come rifiutare ai matrimoni disuniti "la valvola di sicurezza" del divorzio? 
Servitù, il vincolo stesso. L'amore deve forse conoscere leggi? "Il tuo corpo è tuo": ecco la formula dell'avvenire. 
Servitù, i figli, testimoni ingombranti che disturbano le evoluzioni sentimentali. Passi ancora per "il figlio unico" che perpetua il nome! Ma alla larga dalla prole numerosa che impone abnegazione, là dove tutto dev'essere libertà! 
Servitù, l'educazione. Lo Stato se ne curi lui: non è forse, dopo Gian Giacomo Rousseau, il padre universale incaricato del controllo della razza? 
Il piacere a due, l'egoismo assoluto dei coniugi, l'avventura precaria: ecco ciò che la nuova morale senza obblighi e senza sanzioni sostituisce all'impegno stabile e al dono di sé. Jules Guesde ne dava la definizione, nel 1878, scrivendo crudamente nel Catechismo socialista: "La famiglia dev'essere conservata? No, perché essa è stata fino ad oggi una forma di proprietà e non la meno odiosa... L'interesse della specie, come gli interessi degli elementi che compongono la famiglia, esigono che questo stato di cose scompaia". 
Gli eventi hanno dimostrato con eloquente durezza che cosa sia diventata l'umanità in questo gioco. Come evitare la guerra, quando le ricchezze ammucchiate su un territorio spopolato ne fanno una tentazione ed un bottino inerme? Come sfuggire alla sovrapproduzione e alla disoccupazione se il numero dei consumatori decresce di anno in anno? Come sostenere i vecchi, i malati, le persone deboli, se non vengono su le giovani generazioni a dar loro il cambio? Come forgiare i caratteri, come trovare i capi se, divenendo generale il rifiuto della vita, si fiacca lo spirito d'iniziativa e il gusto del rischio? Quando tutte le pietre sono logorate, minate dall'interno, l'edificio può conservare per un certo tempo l'equilibrio e la brillante facciata; ma si avvia fatalmente alla rovina. 
Un paese vale per quello che valgono le famiglie: vive del loro vigore e agonizza con esse. Quando vengono meno, gli studiosi di statistica, possono segnare con le loro curve le previsioni inesorabili del declino, dello sfacelo e della scomparsa finale della nazione. Forse qualcuno può pensare che, pur sacrificando la patria, almeno si è raccolta la felicità. Ma che cosa si è guadagnato ad imparare l'arte dell'amore alla scuola delle "stelle" e delle vedette del cinema, della radio e del teatro? Nella cronaca cinematografica, nelle pagine provocanti dei romanzi scandalistici, il delitto passionale fa scorta all'amore. Da tutti gli ospedali sale il gemito lugubre di quelli che un drammaturgo ardito chiamava "gli avariati". Ritorniamo a grandi passi verso il paganesimo, nel quale la donna non aveva onore, schiava della lussuria e dei rudi lavori manuali. 
La volontà sbrigliata avvilisce e offusca lo spirito: l'umanesimo si eclissa davanti alla sessualità. Triste simbolo di questo disinganno è il cupo destino della famiglia di Carlo Marx. Delle tre figlie del dottore del socialismo due morirono suicide: la prima per i maltrattamenti di un discepolo del padre, fervido ammiratore di Darwin; la seconda per aver legato la sua vita al militante francese Paul Lafargue, che si avvelenò con lei lasciando queste parole esplicative: "moriamo perché la vita non ha più gioie da darci". La frase è rivelatrice dello smarrimento delle anime senza Dio. Le gioie hanno espulso la gioia; gli amori hanno bandito l'amore. Sotto uno scenario elegante di raffinata civiltà il mondo in cui molti si divertono soffoca l'uomo. Paul Bureau nel suo libro L'indiscipline des moeurs ha scritto su questo argomento pagine deprimenti. E le pubblicava al termine dell'altra guerra. Che cosa direbbe oggi, a venticinque anni di distanza? Sulle macerie della dimora avita ha preso piede la statolatria stigmatizzata da Pio XI. Si parla molto oggi di crociata per i diritti della persona umana. La culla e il centro della vita personale non è la famiglia? Se questa viene rovesciata non restano di fronte che l'individuo-atomo e lo stato-Moloch che lo soggioga e lo divora. Solo la famiglia può resistere al Potere totalitario che Nietzsche stesso definì "il più freddo dei mostri freddi". Non c'è altra alternativa possibile: o "ritorno alla famiglia", o "tutto allo stato". È ciò che afferma Pio XII quando rivendica nei suoi messaggi "lo spazio vitale della famiglia". Dopo aver compilato il bilancio del fallimento che invita alla modestia i sostenitori del "libero amore", abbiamo forse diritto di proporre come modello ai nostri contemporanei una famiglia in cui regnò quella che talvolta vien detta, con un briciolo di ironia, la vecchia morale del buon tempo andato. 

 * * * 

Nell'eroica famiglia Martin tutto fu sottomesso alla legge di Dio. Non si cercavano scappatoie: il Crocifisso che presiedeva alla vita comune non era un ornamento convenzionale. In ogni parte della casa esso richiamava, con la presenza del Maestro e la sua sovranità, l'osservanza esatta del decalogo e del Vangelo. Là l'amore non fu mai merce di contrabbando, né scatenamento di istinti. Dagli inizi del fidanzamento esso si ammantò di un carattere quasi religioso, che la grazia del matrimonio portò al suo vertice. 
La famiglia è un santuario in cui Dio regna, una scuola dove le anime progrediscono, una cittadella nella quale un popolo si raccoglie e, all'occorrenza, si trincera con le sue riserve di virtù. Certamente gli obblighi sono pesanti; ma le "servitù" diventano grandezze. È stato detto che due sposi sono per vocazione "due mani giunte per una eterna adorazione, o due pugni stretti per una eterna riprovazione". È vero che queste sublimi prospettive sgomentano la maggior parte delle persone coniugate. Velandola dietro qualche sottinteso o buttandola fuori brutalmente, alcuni fanno una obiezione insidiosa: "In fondo, i genitori di Teresa si sono volontariamente privati di ogni gioia terrena. Sono stati schiavi dei doveri familiari; da tutte le parti si sono abbattute su di loro prove innumerevoli. Ad essi possiamo concedere benissimo la gloria postuma: ma non per questo l'esistenza che hanno condotto quaggiù cessa di essere un calvario. Forse così devono vivere gli eroi e i santi: ma l'umanità media non è costituita dai santi e neppure dagli eroi. Inchiniamoci, e passiamo oltre". L'argomento fila, ma non conclude. Se interroghiamo la corrispondenza della signora Martin, le confidenze di suo marito, i ricordi delle loro figliole, troviamo dovunque, e persino tra le lacrime, la testimonianza di una pace, di una serenità interiore, che tradiscono la vera felicità. Il lavoro, la malattia, la morte li colpiscono ripetutamente; ma la gioia viene sempre a galla, l'ottimismo ha sempre l'ultima parola. Siamo dunque di fronte a ciò che si dice comunemente una famiglia fortunata. Qual è il segreto di tanta beatitudine? Certamente la serenità della buona coscienza, la quiete dell'unione con Dio, l'aiuto onnipotente della grazia. È vero; ma ci sono anche la fioritura dell' amore umano e le effusioni di una famiglia in cui la vita non ha timore di prodigarsi. Per il fatto di essere segnata con il suggello del dovere, la tenerezza reciproca degli sposi non è meno sensibile. La carità, anziché indebolirla, l'approfondisce elevandola ad un'essenza più pura; la rende immune dai capricci e dalle reazioni della carne; la inizia alla mutua sopportazione e alla devozione senza limiti. Solo l'egoismo attenta all' amore coniugale: di esso Dio non sarà mai geloso, perché ne è l'Autore primo. Egli esige soltanto che se ne rispetti il fine. 
Amare nell'ordine è svilupparsi. Amare violando il piano del Creatore è falsare la natura, sabotare una grandezza, votare sensi e cuore, dietro una ebbrezza passeggera, alla confusione, alla corruzione. 
La stessa cosa si deve dire del "giogo" che fa rabbrividire i nostri contemporanei: cioè le responsabilità familiari. I coniugi Martin non le hanno scansate. Sono andati avanti risolutamente, allegramente, senza calcolo. Le hanno prese così come sono, con i loro pesi ineluttabili e le loro sublimi compensazioni. Hanno conosciuto il dolore: ma l'educazione cristiana magistralmente impartita alle figliole li ha risparmiati dalla prova più crudele; quella di assistere allo smarrimento e alla caduta delle proprie creature. 
Le loro ragazze sono state il loro orgoglio, la loro consolazione, il loro appoggio. 
Ogni culla versava nell'anima dei genitori una forza di rinnovamento e quasi un aumento di ricchezza interiore. Chi può immaginare il potere beatificante di un simile apporto, la dolcezza di sentirsi circondati fino a questo punto dalla gratitudine e dalla pietà filiale? D'accordo, risponderà qualcuno, è stata una famiglia ben riuscita: ma un certo giorno la nave è naufragata; gli affetti umani sono stati annientati dietro la grata del monastero dove si sono arenate tutte le figliole. Non è stato detto - è padre Petitot che cita la frase - che il chiostro è un luogo dove "ci si mette insieme senza scegliersi, si vive senza conoscersi e si muore senza compiangersi"? Concediamo ai figli di Voltaire, che lanciano la battuta umoristica, che la professione religiosa comporti una reale immolazione dell'amore. Non solo essa proibisce la prospettiva del matrimonio, ma innalza altresì una barriera, almeno morale, tra i membri della stessa famiglia. Pensiamo alla emozione dell'ultimo bacio scambiato sulla terra tra la "Reginetta" e il suo "Re". Ma non è tutto. Qualcuno può immaginare che nel convento dove Teresa entrava, ritrovando le sue due sorelle maggiori, ella volesse stabilire con loro una calda intimità, che fosse come una rivincita del cuore, un ritorno offensivo della sensibilità compressa. La santa stessa risponde edificandoci: "Non è affatto per vivere con le mie sorelle che sono venuta al Carmelo: è unicamente per rispondere alla chiamata di Gesù. Ah, intuivo bene che sarebbe stato motivo di sofferenza continua vivere con le proprie sorelle, quando non si vuole concedere niente alla natura!" [2]. La compagnia che Teresa cercava maggiormente era quella delle religiose meno simpatiche. Quando suor Agnese di Gesù divenne priora, la santa fu colei che in comunità godette meno di tutte i colloqui con la sua "mammina". All'ingresso in monastero della cugina Maria Guérin si astenne dall'avvicinarsi alla porta della clausura per non scorgere la famiglia di lei, benché, a causa dei lavori in corso, da un anno non si fosse incontrata con loro nel parlatorio del convento. Troncando ogni legame, Teresa accettò 1'ipotesi di partire per il Carmelo di Hanoi. E quando il progetto andò a monte per le sue condizioni di salute, acconsentì alla eventualità ancor più crocifiggente della partenza di madre Agnese di Gesù e di suor Genoveffa per Saìgon. "Ah, non avrei voluto fare nemmeno un gesto per impedirle di partire! Eppure sentivo una grande tristezza nel cuore" [3]. A questa frase qua1cuno protesterà: "Ascetismo barbaro, questo, che anestetizza gli affetti. E proprio necessario diventare disumani per amare Dio?". Teresa mette a punto le cose con il suo perfetto senso di equilibrio. "Nel donarsi a Dio, il cuore non perde la sua tenerezza naturale, anzi questa tenerezza aumenta, diventando sempre più pura e divina" [4]. Non si tratta di mutilare, ma solo di potare. La linfa non è disseccata; il fiotto contenuto un istante, zampilla più potente e più fecondo. Nella vita consacrata l'affetto non svanisce, anzi si dilata, come afferma Teresa: "Come sono felice adesso di essermene astenuta fin dall'inizio della mia vita religiosa! Godo già della ricompensa promessa a coloro che combattono coraggiosamente. Non sento più necessario rifiutarmi tutte le consolazioni del cuore, perché la mia anima è resa stabile da Colui che volevo amare unicamente. Mi accorgo con gioia che, amando Lui, il cuore si dilata e può donare incomparabilmente più affetto a coloro che gli sono cari, che non se si fosse concentrato in un amore egoista ed infruttuoso" [5]. Rettificata, disciplinata e gerarchizzata, la sensibilità prende nuovo slancio: si afferma in quei puri capolavori che sono le lettere indirizzate da Teresa a Celina e a tutti i familiari; negli addii di lei morente a Leonia e allo zio Isidoro; nella sua predilezione per il beato Teofano Vénard, anima amante, se mai ce ne furono, a proposito del quale diceva: "anch'io amo molto la mia 'piccola' famiglia. Non comprendo i santo che non amano la loro famiglia" [6]. E d'altra parte tutto ciò non le impedisce di raccomandare alle sorelle, in quel medesimo periodo, di non "condurre la vita di famiglia"; e cioè di non adagiarsi borghesemente in una rete di affetti troppo naturali. Tutto dev'essere subordinato alla visione finale quale già la santa aveva descritto: "Quando penso a queste cose, la mia anima s'immerge nell'infinito; mi sembra di toccare già la riva eterna... Mi sembra di ricevere l' abbraccio di Gesù. Immagino di vedere la Madre del Cielo venirmi incontro con papà, mamma, i quattro angioletti... Immagino di godere finalmente per sempre della vera, eterna vita in famiglia... " [7]. Siamo ben lontani dall'inaridimento e dall'indifferenza glaciale, rimproverati da certa letteratura ai monaci e alle suore della leggenda. Neppure la morte arresta le effusioni: sotto una forma particolarmente delicata i parenti della santa parteciperanno alla "pioggia di rose". Maria riceve dalla figlioccia un bacio celeste; una sera di torture fisiche, la scorge ai suoi fianchi, che allenta le povere membra rattrappite dai reumatismi e le rimbocca la coperta sulla spalla intorpidita. Leonia vede una mano di luce rischiararle il breviario ed eccitarla al fervore. Paolina e Celina respirano profumi d'incenso. La signora Guérin, dopo una crisi eccezionalmente crudele, dichiara a chi la circondava: "Soffro molto, ma la mia piccola Teresa mi ha vegliata con tanta tenerezza! Tutta la notte me la sono sentita vicina e, accarezzandomi a più riprese, essa mi ha infuso uno straordinario coraggio" [8].
Nel 1915, quando Leonia - divenuta suor Francesca Teresa nella Visitazione di Caen - fu chiamata a Lisieux per deporre davanti al tribunale ecclesiastico, che teneva le sue sedute al Carmelo, le quattro sorelle rivissero, con trasporto, tutte le memorie di Alençon e di Lisieux. Di quell'ineffabile incontro, suor Maria del Sacro Cuore narrò il seguente episodio: "Eravamo sedute tutte e quattro sulla gradinata, vicino all'infermeria. Il cielo era azzurro e senza nubi. Improvvisamente il tempo è scomparso per noi: la nostra infanzia, i 'Buissonnets', tutto ci è sembrato un istante. Vedevo Leonia religiosa, accanto a noi! E il passato e il presente si confondevano in un momento unico: il passato mi pareva un baleno; avevo l'impressione di vivere già in un eterno presente, e ho compreso l'eternità, che è tutta intera in un solo istante". 
Era l'anima della famiglia che si raccoglieva per assaporare in silenzio la dolcezza di appartenere completamente a Dio. Le figlie riunite cantavano la gloria di Dio e la lode dei genitori che le avevano educate alla scuola della santità. Chiunque avesse penetrato il segreto di questa scena intima, per quanto imbevuto di modernismo, avrebbe ripetuto spontaneamente il grido di stupore dei pagani davanti alla Chiesa primitiva: «Guardate come si amano!». È la lezione che lascia al mondo come testamento questa famiglia ideale: l'arte suprema di trovare la felicità in un amore senza egoismo e tutto impregnato di carità».


NOTE
(i riferimenti ai Manoscritti della Santa sono indicati in relazione alle sue Opere complete, Libreria Editrice Vaticana, Edizioni OCD, Roma, 1997)

[1] La famille Martin. Une famille moderne (Traduzione dall'originale francese),  sito del Santuario di Alençon
[1] Ms C, 8v°.
[2] Ms C. 9v°.
[3] Ms C. 9r°.
[4] Ms C, 22r°.
[5]UC/QG, 21-26 maggio, p. 978.
[6] Ms A, 41r°.
[7] Storia di un'Anima, cap. III. p. 67, nota 1.

* Padre Stefano Giuseppe Piat, Storia di una famiglia. Una scuola di santità, Edizioni OCD, 2004, pp.411-418.


giovedì 15 ottobre 2015

LA POVERTÀ, SCRIGNO DI MOLTI TESORI

La povertà in Santa Teresa d'Avila
Anno della Vita Consacrata 







 «La povertà è un bene che racchiude in sé 
tutti i tesori del mondo;
racchiude anche in sé il tesoro di molte virtù»

(Santa Teresa d'Avila, Cammino di perfezione, 2, 5)



Sarebbe impossibile condensare in poche righe il messaggio di Santa Teresa d'Avila sulla povertà, essendo vari i passi dei suoi scritti in cui ne parla, e particolare anche il suo modo di vivere questa virtù nel contesto religioso della sua epoca. Basti pensare a come ella volle riformare l'Ordine Carmelitano anche sotto questo profilo, decidendo che i suoi monasteri non dovessero avere rendite. «È evidente che oggi, nella maggioranza dei paesi, non è più possibile seguire letteralmente le disposizioni concrete adottate dalla Santa per le comunità della sua epoca. Eppure, se vogliamo capire il più perfettamente possibile il suo spirito, non possiamo considerarlo in maniera astratta, perché lei stessa non ce lo presenta mai sotto questo aspetto, nemmeno nei suoi sviluppi più dottrinali. Tali sviluppi debbono essere sempre riportati nel contesto della sua epoca» [1]. Ai suoi tempi, la santa fu una grande "innovatrice", ma questa sua caratteristica permane ancora oggi nella sua portata sempre rivoluzionaria, seppure con sfumature applicabili in modo diverso. 




LA POVERTÀ APOSTOLICA 

«La maniera migliore per trarre ciò che è originale ed essenziale, e quindi sempre d'attualità, nella concezione teresiana di povertà, è di sottolineare quello che noi chiamiamo il suo aspetto "apostolico". Nel linguaggio d'oggi questa parola può avere un doppio significato. Il primo, il più diffuso, è tutto quel che contribuisce all'opera divina per la salvezza delle anime. Il secondo, conosciuto soprattutto nell'antichità cristiana, si riferisce allo stile di vita degli Apostoli di Cristo. In questo senso, una persona o una comunità che si propone di imitare la vita degli Apostoli, si dice "apostolica". Per quanto ne sappiamo, le parole "apostolico" ed anche "evangelico" non sono frequenti negli scritti di Santa Teresa. Quel che vorremmo, in compenso, dimostrare qui, è che la realtà significativa di questa parola, nell'accezione attuale che abbiamo appena sottolineato, s'incontra continuamente quando la Santa parla di povertà; e l'unione armoniosa di questi due significati dà il senso del pensiero teresiano su questo consiglio evangelico. Potremmo riassumere come segue. Il primo senso della parola "apostolico", quello che si riferisce alla salvezza del mondo, ci indica la finalità ultima della povertà che Teresa propone alle sue consorelle carmelitane; è per cooperare a quest'opera divina della salvezza che esse accettano di essere povere. La loro povertà è un mezzo di apostolato. Il secondo significato indica la maniera di essere di questa povertà, il suo "stile" particolare: per poter contribuire efficacemente alla salvezza del mondo, essa deve assomigliare il più possibile a quella che Cristo "consigliava" ai suoi Apostoli» [2]. 

Una povertà "per tutti" 

«La vita consacrata è chiamata a perseguire una sincera sinergia tra tutte le vocazioni nella Chiesa, a partire dai presbiteri e dai laici, così da "far crescere la spiritualità della comunione prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale e oltre i suoi confini", così ha scritto papa Francesco nella Lettera Apostolica indirizzata a tutti i consacrati [3]. 




Le parole del Pontefice permettono di "rileggere" il concetto di povertà espresso da santa Teresa come qualcosa che va incarnato nella vita non solo dei consacrati, ma anche dei laici. D'altronde, il primo insegnamento sulla povertà "evangelica" è venuto da Gesù Cristo, che non ha semplicemente invitato il giovane ricco a una sequela "totale", che implicava il dare ai poveri tutte le sue ricchezze (cfr. Mc 10, 21), ma che ha parlato, in via generale, di quanto sia necessario, per i ricchi, non rimanere attaccati alle proprie ricchezze , ma pensare, piuttosto, ad accumulare tesori in cielo (cfr. Mt 6, 19-21).
La scelta radicale della povertà dei consacrati, diventa, allora, uno stimolo per i laici a vivere in senso "evangelico" il rapporto con le cose materiali: queste ultime non possono mai diventare degli idoli, degli "dei" alternativi. Già il Salmista aveva sottolineato la necessità di vivere in quest'ottica la relazione con i beni terreni: «Alla ricchezza, anche se abbonda/ non attaccate il cuore» (Sal 62,11).

POVERTÀ E PROVVIDENZA
«E QUESTE COSE VI SARANNO DATE IN AGGIUNTA... »

Nel Cammino di Perfezione, Santa Teresa rivolge un discorso apparentemente "duro" alle sue figlie: «Quando ci vengono a chiedere certe cose, di pregare Sua Maestà perché conceda rendite e denaro, io me ne rido, ma ne sono anche addolorata. Tale richiesta viene proprio da alcune persone che io vorrei supplicassero Dio di poter calpestare tutto. Esse hanno buone intenzioni, e, in fondo, si finisce col farlo, anche se io sono sicura di non essere mai ascoltata in questo genere di preghiere. Il mondo è in fiamme; vogliono nuovamente condannare Cristo, come si dice, raccogliendo contro di lui mille testimonianze; vogliono denigrare la sua Chiesa, e dobbiamo sprecare il tempo nel chiedere cose che, se per caso Dio ce le concedesse, ci farebbero avere un'anima di meno in cielo? No, sorelle mie, non è il momento di trattare con Dio d'interessi di poca importanza. Certo è, se non fosse per venire incontro alla debolezza umana, che si consola nel sentirsi aiutata in tutto, sarei lieta di far capire a tutti che non sono queste le cose di cui si deve supplicare Dio, [nel monastero di] san Giuseppe» [4].
Il Vangelo illumina il senso delle parole della santa e offre una chiave interpretativa ancora più chiara di esse. In Lc, 12, 22-32, Gesù affronta il discorso sulla Provvidenza e invita l'uomo a non affannarsi per il vestito, il cibo e per tutto ciò che concerne l'aspetto materiale della vita... fino alla vita stessa, intesa come esistenza semplicemente "biologica". Il Padre sa che la creatura umana ha bisogno di queste cose e provvederà a esse. Per tale motivo, il Maestro spinge a volgere lo sguardo sulla natura, specchio di questa ordinata Provvidenza divina: «Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre» e «Guardate come crescono i gigli: non faticano e non filano. Eppure io vi dico: neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro». Quasi come fosse un ritornello, Gesù insiste su un concetto: l'uomo vale più degli uccelli, l'uomo vale più dell'erba che oggi c'è e domani si getta nel forno. L'uomo può vivere di Provvidenza se ha fede, se acquisisce consapevolezza del proprio valore agli occhi di Dio.
La vita spirituale (la vita eterna), vale infinitamente di più di quella biologica, materiale, terrena. Solo in quella vita, chi avrà perduto la propria vita, l'avrà definitivamente messa in salvo (cfr.  Mt 10, 39). L'esistenza ultraterrena dei beati sarà la pienezza dell'uomo: anima e corpo.
Perciò l'invito finale di Gesù è semplice, nella sua grandezza: «Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta». 
È proprio questo il senso di quello che scrive anche santa Teresa.

La Provvidenza provvede ai "poveri"

«Non pensate, sorelle mie, che, per questo non dobbiate avere di che mangiare, ve l'assicuro io. Non cercate mai di sostentarvi con artifizi umani, perché morirete di fame e giustamente. Tenete gli occhi fissi sul vostro Sposo; è lui a dovervi provvedere del necessario. Una volta che egli è contento di voi, anche coloro che vi sono meno affezionati vi daranno da mangiare, loro malgrado, come l'esperienza ivi ha fatto costatare. Non dimenticatelo mai, per amor di Dio, figlie mie: poiché avete rinunciato alle rendite, rinunciate ugualmente a ogni preoccupazione circa il vostro nutrimento, altrimenti tutto sarebbe perduto» [5].
Teresa arriva al nocciolo della povertà secondo il Vangelo: non una pura e semplice spoliazione "materiale" dei beni materiali, ma la spoliazione di essi dal cuore, il distacco interiore dall'affanno per le cose terrene, per aprire il cuore alla fiducia in un Dio che è Padre provvidente. Questa spiritualità teresiana arriva anche alla comprensione di quello che sfugge a chi legge gli insegnamenti di Gesù in maniera superficiale. Perché, in certi casi, Dio permette una povertà apparentemente senza intervenire con la sua Provvidenza? Qui si rientra nell'alveo degli imprescrutabili disegni divini, quelli che san Paolo definisce in poche righe asserendo che «tutto concorre al bene per quelli che amano Dio» (Rm 8,28).
Santa Teresa scrive infatti alle sue monache: «Noi siamo venute qui seguendo la sua chiamata; le sue parole sono veritiere, perciò si realizzano sempre. Non veniamogli meno noi e non temiamo che egli ci venga meno. E, se talvolta egli ci verrà meno, sarà per un maggior bene, come accadeva ai santi che, quando venivano uccisi per il Signore, vedevano aumentare la gloria a causa del martirio» [6].

Povertà: madre e muro della vita consacrata

Rivolgendosi ai consacrati, papa Francesco ha ricordato che «Sant’Ignazio diceva che la povertà è la madre e anche il muro della vita  consacrata. È madre la povertà, perché dà vita, e il muro protegge dalla mondanità» [7]. Santa Teresa la pensa allo stesso modo. Scrive alle sue monache: «Meno si possiede, più si è liberi da preoccupazioni, e il Signore sa che mi pare in verità di avere maggior pena quando le elemosine abbondano che non quando ci mancano. Non so se ciò avvenga per avere armai visto che il Signore ci viene subito in aiuto. Dove esistessero preoccupazioni esagerate di avere elemosine, una volta o l'altra si finisce col contrarne l'abitudine e con l'andare a chiedere ciò che non è necessario a chi forse ha più bisogno di noi. Anche se i benefattori, lungi dal perdere alcunché, non potrebbero che guadagnare, noi perderemmo di sicuro. In nessun modo, dunque, dovete preoccuparvi di questo; e se la più giovane tra voi venisse a scoprire per caso una tale propensione in questa casa, invochi Sua Maestà e lo faccia presente alla maggiore. Con umiltà le dica che è in errore e che, così facendo, a poco a poco si arriverà alla perdita della vera povertà. La povertà è un bene che racchiude in sé tutti i tesori del mondo; racchiude anche in sé il tesoro di molte virtù. La povertà ci assicura un gran dominio, intendo dire che ci rende padroni di tutti i beni terreni, dal momento che ce li fa disprezzare. E se dicessi che si pone in autorità su tutti questi beni, non mentirei. Che m'importa, infatti, dei re e dei potenti se non voglio le loro ricchezze, né intendo compiacere a essi, quando per causa loro mi può accadere di dover dispiacere, sia pur poco, a Dio? Manderei tutto a male: mi sembra infatti che onori e denaro vadano sempre di pari passo. Chi desidera gli onori non disprezza le ricchezze, mentre chi disprezza le ricchezze poco si cura degli onori. La povertà che si abbraccia solo per Dio non ha bisogno di contentare nessuno tranne lui: ora, è fuor d'ogni dubbio che, non avendo bisogno di nessuno, si abbiano molti amici» [8].
La povertà diventa, dunque, citando ancora sant'Ignazio, "madre" perché consente di coltivare con più libertà la vita spirituale; ottiene tutto distaccando l'uomo dall'affanno per i beni materiali, e facendolo abbandonare a Dio soltanto; consente di instaurare amicizie disinteressate.
È anche "muro", che protegge dall'insidia dell'avidità, degli onori, delle preoccupazioni esagerate per il superfluo, dal desiderio sfrenato di apparire; da quelle che papa Francesco definisce "mondanità".
La povertà è - tornando a santa Teresa - uno scrigno che racchiude molti tesori.
D'altronde, la "povertà" della carne umana di Cristo, "racchiude", come scrigno prezioso, il tesoro dei tesori: Dio stesso.


NOTE


[1] Secretariatus Generalis Pro Monialibus O.C.C. - Romae, Progetto di riflessione teologico spirituale delle Monache Carmelitane Scalze, La povertà "apostolica" delle Carmelitane secondo Santa Teresa di Gesù, http://www.ocd.pcn.net/nuns/n8_it.htm 
[2] Ibidem.
[3] Francesco, Lettera Apostolica a tutti i consacrati, in occasione dell'Anno della Vita Consacrata, II, 3; 28 novembre 2014.
[4] Teresa d'Avila, Cammino di Perfezione (Escorial), 1, 5; Opere Complete, Paoline, 2000, pp. 487-488.
[5] Ibidem, 2, 1; p. 488. 
[6]  Ibidem, 2,2; p. 489.
[7] Francesco, Udienza ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica; 27 novembre 2014.
[8] Teresa d'Avila, ult. cit., 2, 3-6; pp. 489-491.

domenica 11 ottobre 2015

FEDE, SPERANZA E CARITA'

Un intreccio di virtù in un solo incontro
Riflessioni sul Vangelo 







«Mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: "Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?". Gesù gli disse: "Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”". Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: "Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!". I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: "Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio". Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: "E chi può essere salvato?". Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio». Pietro allora prese a dirgli: "Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito". Gesù gli rispose: "In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà"»
(Mc 10, 17-30)

L'episodio del Vangelo di Marco parla di un incontro e di una chiamata vocazionale, ma racconta anche di fede, di speranza e di carità.

Fede

«La fede è la risposta dell'uomo a Dio che gli si rivela e gli si dona, apportando nello stesso tempo una luce sovrabbondante all'uomo in cerca del senso ultimo della vita» (CCC 26).
L'incontro tra il giovane ricco e Gesù è un incontro di rivelazione: il ragazzo stesso definisce Cristo quale "Maestro". Egli, dunque, riconosce in Gesù una conoscenza della Legge e delle cose che riguardano la vita spirituale, tanto da potersi rivolgere a lui per avere delle risposte. Inoltre, ponendogli la domanda sulla vita eterna, in un certo senso, il giovane dimostra di credere che solo Cristo sia in grado di fornirgli una vera soluzione, una soluzione concreta, reale, capace di fargli raggiungere quella meta tanto agognata.
Gesù si presenta come un Dio che si rivela: è l'annotazione dello sguardo con cui manifesta i sentimenti del suo Cuore umano e divino a quel ragazzo alla ricerca del "senso" della vita a evidenziarlo. Dio non si nasconde: se chiama - e chiama per amore - lo fa con amore, e attraverso questa espressione d'affetto offre una manifestazione di Sé. Chi vuole seguire Dio deve sapere che ciò può avvenire solo perché all'amore si risponde con l'amore.

Carità

La carità viene resa presente nell'elenco di precetti da osservare, che Gesù enuncia al giovane: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». A questo si aggiunge anche l'invito che Cristo rivolge al suo interlocutore, quando questi sembra chiedere "di più": «vendi quello che hai e dallo ai poveri». È un particolare interessante: la sequela più stretta, la sequela per eccellenza implica una carità maggiore, uno spogliarsi di tutto, a beneficio dei fratelli. In questo si realizza una dilatazione dell'amore: colui che abbraccia la vocazione allarga il proprio abbraccio amorevole a tutto il genere umano. Non è più questione di un rapporto tra il chiamato e Dio. Dio "include", per così dire, tutti i fratelli e le sorelle del mondo. Spogliarsi dei propri beni per seguirlo, è, allora, un atto concreto e al contempo simbolico di carità. Concreto, perché ne beneficeranno alcuni e "determinati" poveri; simbolico, in quanto la spoliazione diventa la metafora di quella continua donazione del sé agli altri, che la vita consacrata necessariamente richiede, per essere vissuta così come Gesù la desidera: servizio per la salvezza delle anime.

Speranza

Si innesta qui il passaggio dalla carità alla speranza. Il giovane ricco, almeno nella scena dell'incontro con Gesù (quel che possa essere successo in seguito, il Vangelo non lo dice), sembra fermarsi prima di realizzare questo "salto". Gli manca il coraggio del distacco dalle cose materiali, quel recidere che è necessario per donarsi totalmente a Dio e, solo così, anche totalmente a tutte le creature, con cuore indiviso. Il giovane ricco non riesce a comprendere che la sua felicità (la sua sete di «vita eterna») non risiede e non risiederà mai nei suoi «molti beni». D'altronde, se era giunto da Gesù, pur essendo stato fino ad allora un buon osservante della Legge, ciò vuol dire che nel suo intimo egli percepiva la mancanza di qualcosa. Si rendeva conto che il suo desiderio di gioia senza fine non poteva essere soddisfatto dalle sue ricchezze. Tuttavia, il passo successivo si rivela per lui, almeno in quel momento, infattibile. A dimostrazione che il desiderio non basta, ma occorre una forte forza di volontà per lasciarsi tutto "alle spalle", gettandosi ciecamente in Dio.
In tal modo, le ricchezze divengono una catena di schiavitù, perché «Non siamo perfettamente liberi finché non viviamo di pura speranza, cioè di una speranza che non pone la propria fiducia soltanto in mezzi umani e tangibili e non riposa in alcun fine visibile» [1].
Le parole che Gesù rivolgerà in seguito a Pietro, sconvolto per il discorso del Maestro sulla difficoltà, per i ricchi, di entrare nel Regno dei Cieli, innestano però un nuovo elemento: chi ripone la propria speranza solo in Dio, si renderà conto che, dopo il distacco iniziale dalle cose, sarà in grado di gustare - in modo nuovo - la bellezza di quel "centuplo" che gli deriverà proprio dalla sequela di Cristo. 
«Chi spera in Dio pur non vedendolo, ha fiducia che Egli lo faccia giungere in possesso di cose che sorpassano qualsiasi immaginazione. Quando non desideriamo più le cose di questo mondo per se stesse, diventiamo capaci di vederle come sono davvero. Scorgiamo subito la loro bontà e il fine a cui tendono, e siamo in grado di apprezzarle come prima non avevamo fatto mai. Appena ce ne liberiamo cominciano a piacerci: appena cessiamo di contare solo su di esse, sono in grado di esserci utili. E siccome non facciamo più conto né del piacere né dell'aiuto che ci danno, ci offrono subito l'uno e l'altro, secondo il comando d Dio. Perché Gesù ha detto: "Cercate adunque in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose (quando è necessario alla nostra vita terrena) avrete in soprappiù (Mt VI, 33). La speranza soprannaturale è la virtù che ci strappa da tutte le cose per ridarci il possesso di tutto. La nostra speranza non si fonda su quello che abbiamo. Quindi vivere nella speranza vuol dire vivere in povertà, non possedendo nulla. Eppure, se ci abbandoniamo all'economia della divina Provvidenza, abbiamo tutto quanto speriamo. La speranza ci priva di tutto quello che non è Dio in modo che tutte le cose possano servire al loro vero scopo, come mezzi per portarci a Dio. La speranza è proporzionata al distacco. Essa conduce le nostre anime allo stato del più perfetto distacco, e, nel far ciò, restaura tutti valori dando a ciascuno il proprio posto. La speranza ci vuota le mani, perché possiamo usarle per lavorare: ci fa vedere che c'è qualche cosa per cui vale la pena di lavorare, e ci insegna il modo di farlo» [2].

L'intreccio delle tre virtù, per realizzare il progetto divino

«Senza speranza la nostra fede ci dà soltanto una conoscenza superficiale di Dio.
Senza amore e senza speranza la fede si limita a conoscere Dio come uno straniero; perché è la speranza che ci getta nelle braccia della Sua misericordia e della Sua provvidenza. La carità mi spinge a cercare molto di più dell'appagamento dei miei desideri anche se hanno per oggetto il bene altrui. Essa deve rendermi uno strumento della Provvidenza nella loro vita. Devo ben convincermi e farmi penetrare dall'idea che senza il mio amore forse non potrebbero raggiungere quello che Dio ha stabilito per essi» [3].
Questo Gesù aveva chiesto al giovane ricco. Questo chiede a ogni chiamato. Questo, in modo diverso, ma pur sempre nello spirito del Vangelo, chiede a ogni suo discepolo.


NOTE

[1]Thomas Merton, Nessun uomo è un'isola, Garzanti, 2002, p. 32.
[2] Ibidem, pp. 32-33.
[3] Ibidem, pp. 33-34; p. 25.









giovedì 8 ottobre 2015

QUAL E' L'ORIGINE DEL MALE?

Il pesce e il pane, doni "buoni" di Dio 
Riflessioni sul Vangelo 






«Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. 
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
(Lc 11,5-13)

Il brano lucano si focalizza su vari temi: la carità, l'insistenza nella "preghiera", la fiducia in Dio, la sua bontà, la differenza abissale tra l'uomo e Dio, tuttavia entrambi accomunati dalla capacità di dare «cose buone» ai propri «figli».
Il versetto 11, in modo particolare, porta l'attenzione - assieme a quelli seguenti - su un tema sempre attuale, che l'uomo di ogni epoca ha condensato in una domanda "di senso": qual è l'origine del male? 

UNA RISPOSTA DI FEDE

Il Catechismo della Chiesa Cattolica invita il credente a poggiare su una base iniziale, senza la quale non è possibile riuscire ad approfondire la tematica: nella fede - non tanto e non solo come "sentimento", ma come risposta dell'uomo all'amore di Dio, dunque come "incontro" con Dio - la creatura può realmente trovare una soluzione reale, profonda e finanche "ragionata" e "razionale" (in quanto fondata pure su dati teologici) al problema del male. Una risposta che, a ogni modo, non cancella completamente parte di quel "mistero" che non è completamente comprensibile alla creatura. Questo fa parte delle "regole del gioco", del credere stesso. Sebbene «la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità» [1], la fede stessa  non è matematica allo stato puro.
«Se Dio Padre onnipotente, Creatore del mondo ordinato e buono, si prende cura di tutte le sue creature, perché esiste il male? A questo interrogativo tanto pressante quanto inevitabile, tanto doloroso quanto misterioso, nessuna risposta immediata potrà bastare. È l'insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a tale questione: la bontà della creazione, il dramma del peccato, l'amore paziente di Dio che viene incontro all'uomo con le sue alleanze, con l'incarnazione redentrice del suo Figlio, con il dono dello Spirito, con la convocazione della Chiesa, con la forza dei sacramenti, con la vocazione ad una vita felice, alla quale le creature libere sono invitate a dare il loro consenso, ma alla quale, per un mistero terribile, possono anche sottrarsi. Non c'è un punto del messaggio cristiano che non sia, per un certo aspetto, una risposta al problema del male» (CCC 309).
«Che Dio permetta il male fisico e morale è un mistero che egli illumina nel suo Figlio, Gesù Cristo, morto e risorto per vincere il male. La fede ci dà la certezza che Dio non permetterebbe il male, se dallo stesso male non traesse il bene, per vie che conosceremo pienamente soltanto nella vita eterna» (CCC 324).

Il mistero del male, l'altra faccia del libero arbitrio

Il "perché" della permissione del male rimane un mistero in sé: nessun uomo potrebbe arrivare a comprenderlo totalmente.
D'altronde, il male è, in un certo senso, l'altra faccia del libero arbitrio: dove c'è libertà nel decidere se amare, c'è anche libertà nel decidere di "non" amare e ogni non-amore è un male. Quando si parla del "problema del male" si è istintivamente portati a pensare ai grandi mali del mondo: le violenze fisiche sui bambini, le catastrofi naturali, gli omicidi, e via dicendo. Si dimentica, tuttavia, che il male è già presente in atti di "non-amore" di portata meno ampia: il litigio, la ripicca, il rancore, il dispetto, il favoritismo, la mormorazione, la calunnia, la critica ingiustificata. Tutte cose che partono dal germe della triplice concupiscenza presente nell'uomo o, in forma diretta o indiretta, dalla tentazione del "maligno", di colui che è contro l'amore, perché è il "divisore" per eccellenza (come la stessa parola diabolus indica).
Si innesta qui una domanda ulteriore: poteva Dio creare un mondo di creature già perfette, capaci solo di amore, come Egli è? Sì, avrebbe potuto, perché niente è impossibile al Creatore. Tuttavia, Egli ha disposto che «angeli e uomini, creature intelligenti e libere, devono camminare verso il loro destino ultimo per una libera scelta e un amore di preferenza» (CCC 311), avanzando verso la perfezione finale. Le creature angeliche hanno già effettuato la loro scelta (da qui la caduta di Lucifero e dei suoi angeli, e la santità degli altri angeli); per l'uomo, il tempo della scelta è quello che vive sulla terra.

Il male nasce dal peccato... ma «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28)

Le creature «hanno peccato. È così che nel mondo è entrato il male morale, incommensurabilmente più grave del male fisico. Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene:
"Infatti Dio onnipotente [...], essendo supremamente buono, non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono da trarre dal male stesso il bene".
Così, col tempo, si può scoprire che Dio, nella sua provvidenza onnipotente, può trarre un bene dalle conseguenze di un male, anche morale, causato dalle sue creature: « Non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio. [...] Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene [...] per far vivere un popolo numeroso » (Gn 45,8; 50,20).  Dal più grande male morale che mai sia stato commesso, il rifiuto e l'uccisione del Figlio di Dio, causata dal peccato di tutti gli uomini, Dio, con la sovrabbondanza della sua grazia,  ha tratto i più grandi beni: la glorificazione di Cristo e la nostra redenzione. Con ciò, però, il male non diventa un bene.Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio » (Rm 8,28). La testimonianza dei santi non cessa di confermare questa verità» (CCC 311-313).

Qualche esempio?

Non c'è bisogno di toccare grandi argomenti, per trovare qualche esempio pratico. Dal male ricevuto può nascere:
  • la capacità di perdonare, espressione più forte della misericordia che l'uomo possa usare verso il suo prossimo;  
  •  la preghiera per chi commette il male, affinché «si converta dalla sua malvagità e viva» (Ez 33,10):
  • l'abbandono fiducioso in Dio, nella certezza che, anche se permette il male, tutto concorre al bene di chi lo ama, perché le prove servono a saggiare la persona come «oro nel crogiuolo» (Sap 3,6);
  • un incremento della speranza cristiana, che solleva l'uomo al di sopra delle cose temporali, facendogli fissare gli occhi su quelle eterne, le uniche durature e perfette.
DIO NON È L'ORIGINE DEL MALE

Dio non è, dunque, l'origine del male. Lo permette per un disegno misterioso che all'uomo non è dato comprendere totalmente, ma dal male può consentire, attraverso la Sua Provvidenza, che l'uomo ne ricavi un bene, o molti beni. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che questo mistero del male viene "illuminato" nel Figlio di Dio, in Gesù che muore e risorge per la salvezza eterna dell'uomo. 
«Dio permette, infatti, che ci siano i mali per trarre da essi un bene più grande. Da qui il detto di san Paolo: "Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia" (Rm 5,20). Perciò nella benedizione del cero pasquale si dice: "O felice colpa, che ha meritato un tale e così grande Redentore!"» (CCC 412) Cristo è il "bene" per eccellenza, anzi, il Buono in persona, la Bontà divina in carne e ossa.
In Cristo è possibile "toccare con mano" come dal male possa ricavarsi un bene: la sua morte è la moneta con cui viene pagata la salvezza dell'umanità; la sua risurrezione è la vittoria del bene sul male, della vita sulla morte, della giustizia sull'ingiustizia. In Cristo Risorto l'uomo contempla l'anticipazione del suo destino futuro. Di quel destino che lo attende se opterà per il bene, accettando di lasciarsi apparentemente sconfiggere dal male che lo investe, così come ha fatto Gesù, ben sapendo però, che la Giustizia Divina non lascerà impunito il male, e che la Misericordia di Dio, d'altro canto, metterà a disposizione dei peccatori i mezzi necessari per raggiungere la salvezza. All'uomo la libertà di utilizzarli o di rifiutarli.

Dio è buono

La parabola che Gesù racconta nel Vangelo di Luca ha dunque un intento pedagogico: fare capire all'uomo non solo come pregare (con insistenza), o quanto fidarsi di Dio (senza limite), ma anche e soprattutto che tutto questo si può realizzare perché Dio non è l'origine del male, anzi, Dio è il solo veramente "buono". Questo tema viene evidenziato ponendo l'accento sulla divergenza tra la cattiveria umana e la bontà divina, sfruttando un elemento comune al centro: la capacità di amare i propri figli. La paternità di Dio, è, allora, la chiave di volta, l'espediente pedagogico che Gesù sfrutta per far comprendere la bontà divina verso tutti.
Si può fare un raffronto con altri due brani evangelici, quello dell'incontro tra Gesù e il giovane ricco, a cui il Maestro risponde che «Nessuno è buono, se non Dio solo» (Lc 18,19), e il discorso contenuto in Mt 5, 38-48, in modo particolare soffermandosi sulla pericope in cui Gesù invita ad amare tutti, ma specialmente i propri nemici, in quanto non si farebbe nulla di "divino" nell'amare solo quelli cui si è legati da un qualche vincolo affettivo (o parentale, come suggerisce l'espressione «fratelli», usata, nelle lingue semitiche, per indicare i parenti stretti).
Qui sta la straordinarietà dell'affermazione di Gesù nella parabola dell'amico importuno: la bontà di Dio non consiste in un buonismo che non denuncia il male, al contrario (Gesù non ha timore di definire "cattivi" gli uomini), ma nel suo far «sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e piovere sui giusti e sugli ingiusti», cioè nel fatto che Dio renda accessibili a tutti - nel rispetto dell'altrui libertà - i mezzi per la salvezza, quel «sole di giustizia» (Ml 3,20) che è Cristo, quell'acqua che simboleggia il sacramento del Battesimo.

Il pesce e il pane

Nella parabola dell'amico importuno è presente la simbologia cristologica, nelle immagini del pane e del pesce.
Il pesce diverrà infatti il simbolo dei primi cristiani, in quanto il vocabolo pesce, in greco, è IKZUS, acrostico di «Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr», «Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore»; il pane è un chiaro riferimento all'Eucaristia, ma anche a ciò che è necessario per la vita dell'uomo, un alimento basilare, dunque, il simbolo per eccellenza per indicare Dio come Colui che provvede a ogni necessità delle creature, all' "abc" della vita, anche materiale.
Interessante è poi la dicotomia pesce/serpe, che maggiormente riporta al tema oggetto di queste riflessioni: Dio Padre manda il Figlio (il pesce) per la salvezza dell'uomo, non di certo la serpe (che si può associare al diavolo). Dio provvede alla domanda "urgente" della creatura, rispondendo a quel grido insistente (e magari inconscio) che promana dal cuore stesso dell'essere umano: la sua sete di felicità, di amore, di pace. Per questo invia il Figlio nel mondo. Per salvare, per sfamare, per "completare" la creatura, poiché, citando santa Teresa d'Avila, «Chi ha Dio non manca di nulla. Solo Dio basta». E a quanti si renderanno capaci di chiedere con piena consapevolezza (è l'ultima parte del brano lucano), Dio non negherà il regalo più prezioso che Cristo ha inviato sulla terra dopo la sua ascensione: lo Spirito Santo, che con i suoi doni guida l'uomo al compimento del bene e al raggiungimento del Sommo e Unico Bene.


NOTE
[1] Giovanni Paolo II, Fides et Ratio